La parola di Dante fresca di giornata

Una parola di Dante al giorno, per tutto il 2021. In occasione della ricorrenza dei settecento anni dalla morte del poeta, l'Accademia pubblicherà 365 schede dedicate alla sua opera: affacci essenziali sul lessico e sullo stile del poeta, con brevi note di accompagnamento. La parola di Dante fresca di giornata è un'occasione per ricordare, rileggere, ma anche scoprire e approfondire la grande eredità linguistica lasciata da Dante.

La parola di oggi

stelle

(Inferno XXXIV, 139)

[...] salimmo su, el primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Stelle è la parola scelta da Dante, con simmetria mirabile, per chiudere tutte e tre le cantiche. Il XXXIV dell'Inferno si conclude con la risalita per il cammino ascoso che per un pertugio tondo conduce fino alla superficie della Terra: l'attimo del riaffiorare coincide, liberatorio, con la visione della notte stellata. Il XXXIII del Purgatorio si chiude con Dante purificato dalla "santissima onda", pronto finalmente a "salire a le stelle", cioè passare al Paradiso. Infine, il non facile explicit del XXXIII del Paradiso, secondo la spiegazione del Landino, "In sententia exprime, che la mente humana mossa da Dio si muove equalmente a tutte le chose accordando la sua volontà chon la volontà di dio. Et per questo non gli dando Idio più possa lui accorda la sua volontà chon la volontà divina". E anche noi, giunti al termine di questa lunga maratona attraverso le parole di Dante, impossibilitati ad andare oltre, chiudiamo con la visione del creato, ancora ordinato nella perfetta costruzione tolemaica, e mosso dal primo motore immobile, noi che apparteniamo a un mondo che nell'ordine non riesce più a credere, e che spesso ha perso il senso complessivo delle cose. Grazie, Dante, per averci suggerito un anno di riflessioni, oltre che di confronti tra il nostro mondo e il tuo mondo.

C.M.

(Inferno XXXIV, 139)

[...] salimmo su, el primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Stelle è la parola scelta da Dante, con simmetria mirabile, per chiudere tutte e tre le cantiche. Il XXXIV dell'Inferno si conclude con la risalita per il cammino ascoso che per un pertugio tondo conduce fino alla superficie della Terra: l'attimo del riaffiorare coincide, liberatorio, con la visione della notte stellata. Il XXXIII del Purgatorio si chiude con Dante purificato dalla "santissima onda", pronto finalmente a "salire a le stelle", cioè passare al Paradiso. Infine, il non facile explicit del XXXIII del Paradiso, secondo la spiegazione del Landino, "In sententia exprime, che la mente humana mossa da Dio si muove equalmente a tutte le chose accordando la sua volontà chon la volontà di dio. Et per questo non gli dando Idio più possa lui accorda la sua volontà chon la volontà divina". E anche noi, giunti al termine di questa lunga maratona attraverso le parole di Dante, impossibilitati ad andare oltre, chiudiamo con la visione del creato, ancora ordinato nella perfetta costruzione tolemaica, e mosso dal primo motore immobile, noi che apparteniamo a un mondo che nell'ordine non riesce più a credere, e che spesso ha perso il senso complessivo delle cose. Grazie, Dante, per averci suggerito un anno di riflessioni, oltre che di confronti tra il nostro mondo e il tuo mondo.

C.M.

(Paradiso XV, 106)

Non avea case di famiglia vòte;
non v'era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che 'n camera si puote.

La parola famiglia, nel significato moderno di comunità domestica costituita da coniugi, figli ed eventualmente da altri congiunti stretti, è usata da Dante soltanto raramente (nella Commedia ma in generale nei suoi scritti). Le occorrenze sono legate a contesti emotivi e nostalgici, come nel caso della terzina scelta, inserita all’interno della celebre rievocazione della Firenze dell’età dell’oro. Altrove famiglia ha significato di ‘stirpe, casata’, di ‘schiera di persone’, di ‘insieme dei cittadini’, di ‘ordine religioso’, o, con estensione, di ‘genere umano’ (“e contro al maggior padre di famiglia [Adamo]/ siede Lucia, che mosse la tua donna,/ quando chinavi, a rovinar, le ciglia”, Paradiso XXXII, 136-138). Intesa come “famiglia di Dio”, indica le anime del quarto Cielo (“Tal era quivi la quarta famiglia/ de l’alto Padre, che sempre la sazia,/ mostrando come spira e come figlia", Paradiso X, 49-51).
La situazione è ben fotografata anche dal Vocabolario degli Accademici della Crusca: nella prima edizione del 1612 alla voce famiglia, nel significato di "Figliuoli, che vivono, e stanno sotto la podestà, e cura paterna, comprendendosi anche moglie, e sorelle, e nipoti del padre, se gli tenesse in casa", non vi sono esempi danteschi, ma soltanto di Petrarca e Boccaccio. Dante viene recuperato grazie all’aggiunta "Per similitudine" di tre esempi: il passo di Paradiso X relativo ai beati del quarto Cielo (citato sopra) e due in cui famiglia assume il significato di ‘ordine religioso’ (“Indi sen va quel padre e quel maestro/ con la sua donna e con quella famiglia/ che già legava l'umile capestro”, Paradiso XI, 85-87; e “La sua famiglia, che si mosse dritta/ coi piedi a le sue orme, è tanto volta,/ che quel dinanzi a quel di retro gitta;”, Paradiso XII, 115-117); un quarto esempio nella voce è di sostegno alla penultima accezione "Per brigata, semplicemente, conversazione" (“Poi ch' innalzai un poco più le ciglia,/ vidi ’l maestro di color che sanno/ seder tra filosofica famiglia”, Inferno IV, 130-132).

M.B.

(Purgatorio XXXI, 116)

Disser: “Fa che le viste non risparmi;
posto t'avem dinanzi a li smeraldi
ond'Amor già ti trasse le sue armi”.

Nella Commedia il sostantivo ricorre tre volte unicamente nel Purgatorio: accanto al significato proprio di ‘pietra preziosa di colore verde’ dell’occorrenza di Purgatorio VII, 75, Dante impiega la caratteristica cromatica della pietra per vestire di un abito di verde smeraldo la Speranza (Purgatorio XXIX, 125), che insieme alla Fede e alla Carità, rispettivamente vestite di bianco e rosso, rappresentano le tre virtù teologali presentate alla destra del carro trionfale nella processione mistica. Nell'occorrenza di Purgatorio XXXI, 116 sono detti smeraldi gli occhi di Beatrice che riflettono come uno specchio, secondo un’idea già diffusa nel Medioevo per cui questa pietra preziosa fosse dotata di una straordinaria capacità riflettente.

E.F.

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(Paradiso XV, 85)

Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia preziosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio.

Questa pietra preziosa, dotata di una grande lucentezza e di proprietà riflettente, ricorre in Paradiso XV, 85 per impreziosire la descrizione dell’anima dell’avo Cacciaguida, vivo topazio che muovendosi dal suo nastro "parve foco dietro ad alabastro". Sempre nel Paradiso è attestata la seconda e ultima occorrenza del sostantivo (Paradiso XXX, 76): nell’Empireo le faville vive, che entrano ed escono dal fiume dei beati, sono descritte prima come rubini circondati d’oro e poi come topazi per la sfumatura cromatica che assumono, che tocca punte di rosso fuoco fino al giallo solare.

E.F.

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(Paradiso XXX, 62)

[...] e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.

Fulgore è attestato per la prima volta nella Commedia e ricorre esclusivamente nel Paradiso. Ha il significato di ‘luminosità intensa’, quasi un lampo che rapido rifulge e abbaglia, ed è la manifestazione della luce divina: è la luminosità abbagliante delle anime beate, che è proporzionata alla gioia celeste e con cui esse, mandando bagliori, manifestano la propria letizia; è lo splendore accecante del fiume di luce di Paradiso XXX, 62 ed è, infine, il fulgore di Dio, o meglio quel fulgore per il quale il pellegrino, "quant'è possibil", può penetrare. Il fulgore illumina, colpisce e ottunde: è simile a un lampo, breve e intenso, che percuote la mente del pellegrino al culmine della visione divina (Paradiso XXXIII,141) alla fine dell'ultimo canto. L’intera famiglia lessicale relativa al fulgore (come anche fulgido e fulgere) presenta nella Commedia le sue prime attestazioni (fa eccezione il participio fulgente): sembra dunque che nella prima diffusione in volgare di questi vocaboli, evidentemente legati all’idea di luminosità del divino, ci sia proprio l’impulso di Dante e della sua ricerca lessicale per illustrare il mondo della luce. Come anche l'aggettivo fulgido, il sostantivo fulgore fa oggi parte del lessico comune.

C.Mu.

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(Purgatorio XXVII, 119)

Virgilio inverso me queste cotali
parole usò; e mai non furo strenne
che fosser di piacere a queste iguali.

La parola strenna indica ‘ciò che viene dato gratuitamente a qualcuno’, per estensione ‘dono’ e, propriamente ‘ciò che viene regalato in segno propiziatorio, solitamente per l’inizio dell’anno o di un mese, per una grande festa o per qualcosa che comincia’. Virgilio dice a Dante che di lì a poco potrà gustare della felicità terrena che gli umani si affannano a ricercare e queste parole del sommo poeta risultano molto più piacevoli di un qualsiasi regalo donato in occasioni speciali (la strenna, per l’appunto) mai ricevuto. Dal latino volgare *strenna (latino classico strēna(m), dall'aggettivo strēnuus ‘forte, animoso’, forse di origine sabina), diverse sono le interpretazioni semantiche avanzate dai commentatori antichi: come ‘annunzio, avviso augurale’, o con accezione negativa, ‘rito o un gesto propiziatorio e superstizioso’. Quest’ultima possibilità è comunque da accantonare: strenna, con il significato di ‘regalo augurale, dato per un’occasione speciale’ ben si adatta al contesto in cui Virgilio, dopo essersi congedato da Dante, lo lascerà varcare la soglia del Paradiso Terrestre.

M.D.C.

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(Paradiso XXIII, 121)

E come fantolin che ’nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ’l latte prese,
per l’animo che ’nfin di fuori s’infiamma [...]

Per indicare un bimbo in tenera età Dante non usa né questa parola né bambino, bensì fantolino, diminutivo di fante ‘infante’, da fans (participio di fari ‘parlare’). La similitudine evocata in questo passo del Paradiso (in cui la forma è apocopata) è una delle più dolci e commoventi della Commedia. Nel Cielo delle Stelle fisse il poeta vede i beati protendersi in alto verso Maria con la loro luce così come farebbe un neonato che, dopo essere stato allattato dalla madre, tende le braccia verso di lei spinto da un sentimento di amore che prorompe anche negli atteggiamenti esteriori. Il termine fantolino, ben attestato in letteratura e attribuito a Gesù bambino in un volgarizzamento veneziano dei Vangeli del sec. XIV (“Et Ioseph sì apelà lo fantolino Yesù”), oggi è piuttosto desueto.

K.D.V.

(Paradiso XXIV, 12)

Così Beatrice; e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
fiammando, volte, a guisa di comete.

Il termine deriva dal latino cometes, letteralmente ‘dotato di chioma’, a sua volta di origine greca, e indica propriamente un corpo celeste formato da una testa luminosa e da una “chioma” nebulosa che si prolunga in una o più code quando si trova nelle vicinanze del sole. Nella Commedia occorre un’unica volta, in rima, nella similitudine che accosta le scie di tali spettacolari corpi celesti al fiammare delle "anime liete" (Paradiso XXIV, 10) che Dante ammira nel Cielo delle stelle fisse. Un riferimento alle comete si rileva anche nel Convivio, dove la visione dell’astro appare premonitrice dei rivolgimenti politici della città di Firenze: "in Fiorenza, nel principio della sua destruzione, veduta fue nell’aere, in figura d’una croce, grande quantità di questi vapori seguaci della stella di Marte" (II, 13, 22). Calcoli recenti hanno rivelato che si trattò della cometa di Halley, che Dante e i suoi contemporanei – tra cui Giotto, che la rappresentò nella Cappella degli Scrovegni – poterono ammirare nell’autunno del 1301.

B.F.

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(Paradiso XXV, 122)

[...] tal mi fec'io a quell'ultimo foco
mentre che detto fu: "Perché t'abbagli
per veder cosa che qui non ha loco?"

Il verbo abbagliare, già attestato nel Duecento, ricorre quattro volte nella Commedia. Nell’Inferno, dove ha una sola attestazione (Inferno XXIII, 64), ha il significato proprio di 'offuscare o togliere la vista a qualcuno con la propria luce' (riferito alla doratura esterna delle cappe di piombo degli ipocriti). Un secondo significato è legato alla tematica della luce divina: si riferisce infatti al fulgore che irradia dagli angeli e dalle anime dei beati (Purgatorio XV, 28 e Paradiso XXV, 122). Infine, il verbo ricorre col significato figurato di 'confondere (la mente)' a Purgatorio XXXIII, 75, nelle parole di Beatrice, che risplendono del fulgore della verità divina. Dante utilizza il verbo abbagliare anche nel Convivio, col significato di ‘confondere’, e nel Fiore, nell’accezione di ‘trarre in inganno’: questo significato, prima attestazione dantesca, avrà grande fortuna nella lingua letteraria fino al Novecento.

C.Mu.

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(Paradiso X, 96)

Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
u’ ben s’impingua se non si vaneggia.

Il verbo, la cui prima attestazione in italiano risale proprio a questo passo del Paradiso, è una voce di origine dotta, che deriva dal latino ecclesiastico impinguāre, un verbo denominale formato a partire dall’aggettivo latino pĭngŭem ‘pingue, grasso’, con l’aggiunta del suffisso verbale -are e del prefisso illativo in-. Il suo significato proprio e originario, ancora oggi vivo, è quindi ‘rendere pingui, far ingrassare’ (quando costruito in forma transitiva), o ‘ingrassare’ (quando usato invece in forma intransitiva, per lo più accompagnato dalla particella si). Con valore esteso e figurato, il verbo può inoltre assumere anche il significato di ‘arricchire’ o ‘arricchirsi’, come avviene nel passo dantesco in questione: nella terzina citata a parlare è infatti San Tommaso, appartenente all’ordine dei domenicani, che sottolinea come all’interno di tale ordine sia possibile ‘ingrassare’, ossia arricchirsi spiritualmente, solamente se non si rincorrono cose vane, ossia se ci si attiene alla regola stabilita dal suo fondatore, San Domenico. Il verbo ricorre poi anche in Paradiso XI, 25 e 139, in passi che riprendono l’espressione metaforica di San Tommaso per chiarirne il significato.

S.G.

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(Paradiso XVI, 103)

Grand'era già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
e Galli e quei ch'arrossan per lo staio.

Nella Commedia il verbo, parasintetico di rosso già attestato nei testi fiorentini del Duecento, ricorre due volte esclusivamente nel Paradiso con il significato di ‘diventare rosso in volto’ a causa di un’azione. Nell’occorrenza di Paradiso XVI, 105 il verbo descrive l’arrossamento causato dalla vergogna per la frode dello staio perpetrata dalla famiglia fiorentina dei Chiaramontesi; in Paradiso XXVII è l’ira a causare l’arrossamento del volto di San Pietro in seguito alla vendita di mendaci privilegi ecclesiastici.

E.F.

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(Paradiso XVIII, 70)

Io vidi in quella giovial facella
lo sfavillar de l’amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.

L’aggettivo, la cui prima attestazione in italiano risale proprio a Dante, compare nella Commedia una sola volta, nella terzina in questione, abbinato al sostantivo facella ‘fiaccola’, per estensione ‘stella’, a indicare appunto la stella (ossia il pianeta) di Giove: la voce deriva infatti dal latino tardo ioviāle(m), letteralmente ‘di Giove’, che è a sua volta da Iovis, forma genitiva di Iuppiter, nome della somma divinità latina. Con riferimento al pianeta più grande del sistema solare, l’aggettivo è ancora usato da Galileo (che chiama "pianeti gioviali" i quattro satelliti di Giove da lui scoperti), mentre oggi, in tale specifica accezione, risulta ormai decisamente raro e letterario. Tuttora vivo e comune anche nell’italiano contemporaneo è invece l’uso di gioviale a indicare una persona o un comportamento lieto e allegro, un significato che si sarebbe sviluppato per estensione a partire da quello primario, sulla base della credenza astrologica antica che il pianeta Giove (che Dante non a caso chiama anche "la temperata stella", v. 68) influisse positivamente sul carattere degli uomini.

S.G.

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(Inferno XXIII, 46)

Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno
quand’ella più verso le pale approccia […]

È voce tecnica e già attestata a fine Duecento in Restoro D'Arezzo. Nella Commedia il sostantivo doccia ricorre solamente nell'Inferno in due luoghi: in Inferno XXIII, 46 si riferisce nello specifico al condotto artificiale che incanala le acque al molin terragno e aziona la ruota, dalla cui inclinazione dipende poi il flusso stesso della corrente; in Inferno XIV,117 indica più genericamente una stretta cavità attraverso la quale scorrono le acque, in questo caso quelle dei fiumi infernali, Acheronte, Stige e Flegetonte.

E.F.

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(Paradiso XXVIII, 17)

[...] un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume [...]

Verbo parasintetico su fuoco, affocare è usato nell’Inferno col significato proprio di 'dare alle fiamme', 'incendiare' (in Inferno VIII, 74, laddove le mura della città di Dite appaiono rosse perché arroventate dal fuoco eterno), mentre nel Paradiso (XXVIII, 17) ricorre in senso figurato: nel Cristallino, la luce eccezionale irradiata da un punto, che è la prima manifestazione diretta di Dio che si offre al pellegrino, ferisce i suoi occhi ("'l viso") quasi infuocandoli, tanto che per il forte "acume" egli è costretto a chiuderli. L'uso di affocare è dunque in questo caso legato al tema della luce che domina il mondo paradisiaco, plasmando potentemente il lessico della terza cantica.

C.Mu.

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(Paradiso XV, 22)

[...] né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radial trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.

Germanismo, probabilmente dal gotico nastilo, il sostantivo è hapax nella Commedia: nell’unica occorrenza di Paradiso XV, 22 il significato proprio di ‘fettuccia di tessuto ornamentale con legato un pendente’ è usato in contesto figurato e si riferisce a uno dei bracci della croce lungo il quale si muove il lume, la gemma che racchiude lo spirito di Cacciaguida.

E.F.

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(Inferno X, 26)

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto.

Caro a tutti è il sostantivo patria, attestato nella Commedia in tre occorrenze, con il significato di ‘luogo natìo, terra d’origine dei propri avi’. In particolare, nell’occorrenza di Inferno X, 26 ricorre nell’espressione nobil patria pronunciata da Farinata degli Uberti per indicare proprio Firenze. Rispetto alle poche occorrenze della Commedia, il sostantivo è largamente impiegato da Dante nelle altre opere e specialmente legato al tema dell’esilio: per esempio, nella Vita Nuova è detto peregrino chiunque è lontano dal suo luogo natìo, dalla sua patria (“in largo, in quanto è peregrino / chiunque è fuori de la sua patria”, 40.6); ancora, tra le altre attestazione, è di particolare suggestione l’espressione patria perduta attestata nel Convivio (III, 11.16), con cui Dante esprime con intensità tutta la nostalgia provata negli anni dell’esilio della sua Firenze.

E.F.

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(Purgatorio XXIX, 131)

Da la sinistra quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d'una di lor ch'avea tre occhi in testa.

Nella Commedia il sostantivo, attestato unicamente nell’occorrenza di Purgatorio XXIX, 131, ricorre nella forma porpore più rara e arcaica. A differenza delle virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), ognuna vestita di un abito di color diverso, rispettivamente bianco, verde e rosso, sono in porpore vestite le quattro virtù cardinali (Prudenza, Temperanza, Giustizia e Fortezza), che indossano quindi una veste di colore rosso intenso mentre sfilano nella processione mistica alla sinistra del carro, simbolo della Chiesa militante in trionfo, trainato dal grifone dalle membra miste d’oro, di bianco e di vermiglio.

E.F.

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(Paradiso X, 111)

La quinta luce, ch'è tra noi più bella,
spira di tale amor, che tutto 'l mondo
là giù ne gola di saper novella [...]

Verbo denominale da gola, golare è vocabolo raro, attestato prima di Dante in Monte Andrea. Nella Commedia, ricorre esclusivamente nel Paradiso col significato di ‘desiderare ardentemente qualcosa’: la scelta di un vocabolo così raro e con connotazioni così specifiche, seppure facente parte di un campo semantico (quello della fame e della sete) in genere scelto come fonte di immagini per il desiderio di conoscenza, risponde significativamente alla volontà di rinnovamento dell'impianto metaforico tradizionale, caratteristica soprattutto della terza cantica.

C.Mu.

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(Paradiso XXIII, 80)

Come a raggio di sol, che puro mei
per fratta nube, già prato di fiori
vider, coverti d'ombra, li occhi miei […].

È voce panromanza, già attestata dalla prima metà del Duecento. Nella Commedia ricorre in due occorrenze con il suo significato proprio di ‘terreno ricoperto da erba’; in particolare, la bellissima immagine del prato di fiori in Paradiso XXIII, 80 rende possibile l’esperienza mistica ultraterrena attraverso una descrizione concreta dello spazio che non rimane più solamente una visione; lo stesso significato ha anche l'occorrenza di Rime VII, 28 (“ond' io l' ho chesta in un bel prato d' erba, / innamorata com' anco fu donna, / e chiuso intorno d' altissimi colli. in un bel prato d'erba”).

E.F.

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(Inferno V, 131)

Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Di forte suggestione visiva è scolorare, verbo di conio dantesco attestato per la prima volta nella Vita Nuova (XVI, 4). Nella Commedia il verbo è presente in due occorrenze: in Inferno V, 131 il verbo è usato da Francesca da Rimini per descrivere il colore del volto che impallidisce: il pallore è infatti uno dei primi sintomi dell'innamoramento, segno tipico dell’amore o di una forte emozione, com’era stato già codificato da Ovidio nell'Ars amatoria (I, 727) e da Andrea Cappellano nel De Amore (II, VIII, 46). Nell’occorrenza di Purgatorio XXIII, 50 a perdere colore non è più solo il viso, ma tutta la pelle del corpo che per l’asciutta scabbia, pena a cui sono costretti Forese e gli altri golosi, scolora e viene privata del suo colore naturale.

E.F.

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(Purgatorio II, 14)

Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra 'l suol marino.

Nella Commedia il verbo rosseggiare è attestato unicamente in Purgatorio II, 14 e si riferisce alla tonalità di colore con cui si presenta a occidente Marte alle prime luci dell'alba, che per i vapori fatti più spessi sul mare sembra risplendere di una luce rossa più intensa del solito, mentre opposto il sole sta sorgendo a oriente.

E.F.

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(Paradiso XXV, 25)

Ma poi che 'l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s'affisse,
ignito sì che vincea 'l mio volto.

Prima attestazione dantesca, gratulare è un latinismo rarissimo da gratulari. Ricorre esclusivamente nel Paradiso, cantica in cui abbondano i latinismi di prima mano, nei canti del cielo Stellato dedicati alle virtù teologali. Ha il significato di 'rallegrarsi con qualcuno' (Paradiso XXIV, 149) e ha valore di sostantivo nel canto XXV (Paradiso XXV, 25) dove il gratular è il saluto affettuoso e festante tra Pietro e Giacomo. Dopo l’uso dantesco, il verbo risulta poi scarsamente attestato. Nel Trecento ricorrono, seppur sporadicamente, l'aggettivo gratulante e il sostantivo gratulazione, solo all’interno di volgarizzamenti.

C.Mu.

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(Inferno VIII, 62)

Tutti gridavano: "A Filippo Argenti!";
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co' denti.

L’aggettivo bizzarro, qui riferito al fiorentino Filippo Argenti, ha il significato di ‘facile alla collera’, ‘iracondo’, diverso da quello, documentato dal XVI secolo e oggi comunemente diffuso di ‘che non segue i comportamenti considerati comuni e abituali’. L’etimologia è alquanto controversa poiché non si può ricondurre allo spagnolo bizzarro ‘coraggioso’ (a sua volta dal basco bizar ‘barba’) perché attestato soltanto a partire dal 1500 circa. Secondo alcuni studiosi deriverebbe invece da bizza con l’aggiunta del suffisso meridionaleggiante ­-arro; per altri dal latino vĭtiu(m); per altri ancora dalla base fonosimbolica *bec-/*beg-; *bac-/*bag-; *bic-/*big- usata per ‘voci che suscitano ripugnanza e disprezzo’ o, infine, dalla famiglia *biz- ‘insetto’. Come afferma Boccaccio, il significato che usa Dante era proprio del fiorentino: "bizzarro, cioè iracundo; e credo che questo vocabolo “bizzarro” sia solo de’ Fiorentini, e suona sempre in mala parte, per ciò che non tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per ogni piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcune dimostrazione rimuovere si possono". Stando alle parole di Boccaccio, bizzarro dunque ben si addice a descrivere il personaggio di Filippo Argenti in tutte le sue caratteristiche: fiorentino e conosciuto per una spiccata superbia che spesso lo induceva a dimostrazioni d’ira, anche contro lo stesso Dante.

M.D.C.

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(Inferno XXIV, 12)

[...] ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come 'l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna [...]

Il verbo ringavagnare viene usato all’interno di un’ampia similitudine in cui l’attitudine di Dante nel vedere Virgilio viene paragonata a quella del contadino che, finito l’inverno, si alza e, scorgendo tutta la campagna piena di brina, la scambia per neve e ha un momento di sconforto, ma subito dopo, nel vederla nuovamente verdeggiante, recupera (ringavagna) la speranza. Non è un caso se Dante usa il verbo ringavagnare all’interno di un’immagine campestre: infatti il verbo, di coniazione dantesca, deriva dal sostantivo gavagna ‘cesta, canestro’ (dal latino tardo *cavaneum) e significa propriamente ‘raccogliere di nuovo nella cavagna, nella cesta’. Stando alle varie attestazioni antiche, sembrerebbe che il sostantivo cavagno sia di origine settentrionale, penetrato in Toscana attraverso l’area emiliano-romagnola. Nei documenti in latino di area lucchese si registrano le forme capagnoro (capagnorum e capagneri) in cui ‘cesto’ ha valore di unità di misura. Ancora oggi il termine capagno è usato in alcune zone d’Italia, tra cui l’area della Tuscia viterbese.

M.D.C.

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(Inferno XVII, 119)

Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi 'n giù la testa sporgo.

Il termine scroscio (in alcuni testimoni anche stroscio) si riferisce al fragore impetuoso della cascata del Flegetonte, il fiume di sangue bollente nel quale sono immersi predoni e assassini (paragonato nel canto XII alla fonte d’acqua calda d’origine sulfurea del Bullicame, che sgorga vicino a Viterbo), che confluisce nel Cocito e forma poi nel IX cerchio un lago ghiacciato. La parola deriva dal verbo crosciare (‘colpire con violenza e rumorosamente’ e per estensione anche ‘risuonare rumorosamente’) i cui suoni aspri ed evocativi hanno evidentemente un’origine onomatopeica. La parola scroscio ben descrive il rumore che il poeta vuole restituire ai suoi lettori: Dante e Virgilio si trovano in groppa a Gerione e guardano dall’alto il paesaggio infernale, in cui rimbomba, quasi come un monito angoscioso, incalzante e orrido, la fragorosa cascata di sangue del Flegetonte.

M.D.C.

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(Inferno XVIII, 124)

Ed elli allor, battendosi la zucca:
Qua giù m' hanno sommerso le lusinghe
ond'io non ebbi mai la lingua stucca.

Una sola volta compare questa parola nella Commedia, e non nel senso proprio della cucurbitacea commestibile, ma metaforicamente, per indicare la testa, il capo, di Alessio Interminelli da Lucca. Il termine si colloca molto bene bel contesto realistico dell'Inferno, dove Alessio Interminelli sconta la sua pena di adulatore, tuffato nello sterco. Dunque qui non si parla forbitamente, ma troviamo la lingua di tutti i giorni. Infatti zucca, in questo senso spregiativo, lo possiamo usare anche noi nell'italiano moderno. Calvino adoperò l'espressione "zucca rapata", Alfieri "Ti romperò la zucca", Pratesi "zucca pelata". Un tempo un maestro poteva dire allo studente refrattario, cioè "zuccone": "non ti entra nella zucca" (oggi sarebbe forse politicamente scorretto: il linguaggio deve essere perfettamente depurato e incolore). Non dimentichiamo che i latini dicevano caput, e che il nostro testa deriva a sua volta per metafora dal nome di un recipiente di coccio, a sua volta ricavato dal nome del guscio della tartaruga...

C.M.

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(Inferno XXXIII, 80)

Ahia Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove il sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti [...]

Così Dante si riferisce alla lingua italiana, la lingua del . Già nel De vulgari eloquentia l'italiano era stato definito ricorrendo all'avverbio affermativo: "Totum vero quod in Europa restat ab istis, tertium tenuit ydioma, licet nunc tripharium videatur: nam alii oc, alii oïl, alii affirmando locuntur, ut puta Yspani, Franci et Latini [...] Istorum vero proferentes oc meridionalis Europe tenent partem occidentalem, a Ianuensium finibus incipientes. Qui autem dicunt a predictis finibus orientalem tenent, videlicet usque ad promuntorium illud Ytalie qua sinus Adriatici maris incipit, et Siciliam". Inoltre Dante, nella sua ricostruzione storica della formazione del latino (rovesciata rispetto alla nostra moderna), è del parere che sia stato proprio l'italiano a fornire ai fondatori della "lingua grammaticale" la materia per il sic latino: "Triphario nunc existente nostro ydiomate, ut superius dictum est, in comparatione sui ipsius, secundum quod trisonum factum est, cum tanta timiditate cunctamur librantes quod hanc vel istam vel illam partem in comparando preponere non audemus, nisi eo quo gramatice positores inveniuntur accepisse; sic adverbium affirmandi: quod quandam anterioritatem erogare videtur Ytalis, qui dicunt". Da ciò, pur con cautela, ricava un'idea di priorità dell'italiano, una primazia della nostra lingua.

C.M.

(Inferno I, 6)

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Paura ha 30 occorrenze nella Commedia, e ben tre sono proprio all'avvio del poema, nel primo canto della prima cantica, e per di più compaiono nel giro rapido di circa quindici versi, connotando la condizione di partenza del poeta. Paura è parola di origine latina (paveo = 'io temo'), ben viva e comune nell'italiano moderno, ed esiste anche nel francese (peur) e nel catalano (por), mentre altre lingue romanze hanno tipi lessicali diversi: così il galiziano miedo, lo spagnolo miedo (ma esiste anche pavor 'terrore'), il rumeno frică. Quindi noi italiani, in molti casi della vita, abbiamo paura così come l'aveva Dante, e condividiamo questo sentimento profondamente umano con l'identica parola che lui usava.

C.M.

(Paradiso XII, 56)

[…] dentro vi nacque l'amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a' suoi e a' nemici crudo […]

Nell’italiano contemporaneo chiamiamo atleta chi pratica attività fisica con assiduità, passione e spirito agonistico. Così facendo, ci riallacciamo alla cultura greca antica, in cui athletès era chi gareggiava in agoni pubblici e giochi sportivi. Ma Dante, che in volgare è il primo – a quanto sappiamo – a mettere per scritto questa parola, la usa per parlare di fede: siamo nel quarto cielo del Paradiso, dove la parola è pronunciata dal francescano Bonaventura da Bagnoregio nel tessere il panegirico di Domenico di Guzman. Quella di Dante non è una scelta casuale, poiché il termine ricorre spesso, nella tradizione cristiana latina, per indicare i santi: athletae Christi, combattenti sì, ma per la causa spirituale, per la quale lottano anche fino al martirio. Dell’atleta a Dante interessa l’agonismo disciplinato e battagliero: in un canto che è tutto pervaso di vocaboli guerreschi (essercito, riarmar, 'nsegna, 'mperador, milizia, campioni, combatter, percosse), la dimensione muscolare è trasfigurata in quella amorosa della fede. Domenico, animato da una passione bruciante (è anche drudo, appellativo riservato agli amanti nella lirica cortese), è atleta perché per amore della Chiesa si batte contro i suoi nemici: in primis gli eretici, che converte implacabile. I commentatori antichi avevano ben chiare le drammatiche sfumature di senso connesse alla parola: per Francesco Da Buti, atleta semplicemente “viene a dire uomo apparecchiato a combattere insino a la morte”.

S.C.

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(Paradiso X, 46)

E se le fantasie nostre son basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
ché sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse.

Nell’intensa luminosità del cielo del Sole sfavillano, ardenti, gli spiriti beati: una vertigine di luce splendente per lo sguardo, che non può spingersi oltre il luccichio dell’astro solare. La fantasia umana e le parole sono inadeguate a comprendere e descrivere quanto trascende la sfera materiale, così come accadrà in altri luoghi del Paradiso (XIX, 9; XXIV, 24). Non pura ‘invenzione’ o ‘fantasticheria’, la fantasia (dal greco φαντασία, derivato di φαντάζομαι ‘io appaio’) è, nella dottrina scolastica aristotelico-tomistica, la ‘facoltà immaginativa’, che all’intelletto fornisce le immagini: riflessi, fantasmi sensibili, da cui per astrazione deriva la conoscenza. L’alta fantasia, che compare dapprima nel Purgatorio (XVII, 25), al centro esatto della Commedia, ritorna un’altra sola volta nei versi finali del poema (Paradiso XXXIII, 142): “A l’alta fantasia qui mancò possa”. Anche la parte più elevata della mente speculativa, pur slegata dall’esperienza dei sensi e dall’imperfezione terrena, è costretta a fermarsi sul bordo dell’intuizione contemplativa della pura luce. Non può trattenere la visione perfetta, l’irripetibile bagliore del mistero divino.

M.Ca.

(Paradiso XXXIII, 138)

[…] tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova […]

Probabile conio dantesco, attestato solo nel Paradiso e nei commentatori. Tra questi Alessandro Vellutello, all’inizio del Cinquecento, spiegava la parola come formata a partire dalla base doga (nella variante dova): esattamente le doghe che si uniscono insieme per costruire i tini e le botti, per cui il verbo significherebbe ‘congiungersi e inserirsi dentro’. Una spiegazione generalmente rifiutata dai successivi commentatori della Commedia, che hanno invece riconosciuto nella parola un derivato di dove con l’aggiunta del prefisso in- e del suffisso -are. Creazioni lessicali di questo genere, che si dicono parasintetiche, non sono una novità nella Commedia e specialmente nel Paradiso.
Con indovarsi Dante, giunto al culmine del suo viaggio ultraterreno, parla di un mistero che trascende la possibilità di essere compreso, quello dell’incarnazione. Nei tre cerchi che, in una visione quasi mistica, consegnano al poeta un assaggio di Trinità, il poeta scorge l’immagine dell’uomo, ma non arriva a comprendere la possibilità materiale di questa compenetrazione. Impotente come il geometra che tenta di far quadrare il cerchio, così appare la mente umana che spera di capire come in Dio siano presenti entrambe le nature, quella umana e quella divina: come, cioè, la figura dell’umano (“l’imago”, pochi versi sopra chiamata “la nostra effige”) rispetto alla perfezione geometrica dell’immagine divina (“il cerchio”) possa indovarsi, come in essa possa iscriversi, avere luogo, trovare il suo “dove”.

S.C.

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(Purgatorio XXVIII, 142)

Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice.

Innocente è chi è esente da colpa. Il termine compare in Dante solo nella Commedia. Nel vagheggiamento dell’età dell’oro cantata dai poeti antichi è riferito allo stato di vita pura di Adamo ed Eva nell’Eden. Ma perlopiù all’infanzia è legato il concetto di innocenza, che si dilegua nell’età adulta (Paradiso XXVII, 127-129). Innocenti sono i giovani figli (e i nipoti) di Ugolino, senza colpe e responsabilità; i pargoli nel limbo, morti prima che il battesimo cancellasse in loro il peccato originale; le anime dei bambini che siedono nella candida rosa, elette alla beatitudine in virtù della grazia divina (Paradiso XXXII, 76-84). Sono loro, i bambini, li ’nnocenti (Purgatorio VIII, 72), che non intuiscono le imperfezioni e le malizie, le miserie umane.

M.Ca.

(Paradiso XXIX, 95)

Per apparer ciascun s’ingegna e face
sue invenzioni; e quelle son trascorse
da’ predicanti e ’l Vangelio si tace.

Nel Convivio l’invenzione è il ‘ritrovato’, risultato di una ricerca intellettuale o scientifica e anche il ‘ritrovamento’ materiale. In quest’unica occorrenza nella Commedia il latinismo è usato, nell’invettiva di Beatrice contro le vanità filosofiche, nel senso di ‘favola’, per indicare le sofisticherie diffuse da vani predicatori: presunte novità speculative, interpretazioni originali (nel discorso retorico l’inventio è il reperimento di idee e argomenti, veri o verosimili) e teorie malsicure che travisano la parola di Dio, dimenticando il Vangelo. Il valore etimologico del termine permane oggi nel linguaggio giuridico (‘ritrovamento’ di un bene nascosto, di un oggetto smarrito) ed ecclesiastico (‘rinvenimento’ di reliquie). Una polisemia ambivalente percorre la parola: invenzione è scoperta, ideazione, creazione della fantasia e dell’ingegno; espediente, finzione, falsità; chiacchiera, ciancia.

M.Ca.

(Inferno V, 129)

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Nella Commedia il termine compare nelle prime due cantiche, mai nel Paradiso. È ‘esitazione’ timorosa nel compiere un’azione o affrontare un’impresa, ‘presagio’ di un male indefinibile, preoccupazione inquieta che diventa ‘paura’; in altri casi ha il valore di ‘dubbio’, ‘perplessità’ diffidente. Le parole di Francesca da Rimini sono state variamente interpretate: "sanza alcun sospetto" potrebbe significare senza ‘timore’ di essere sorpresi, oppure senza ‘presentimento’ del pericolo a cui lei e Paolo si esponevano. O forse, più probabilmente, senza alcuna ‘supposizione’ della passione che stava per travolgerli: appena prima dell’intima intuizione di un sentimento che non appare, ma già esiste, in quella dimensione sospesa in cui tutto è ancora inatteso, sorprendente e sconosciuto.

M.Ca.

(Inferno I, 103)

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Il termine peltro ricorre solo in questo passo, in cui Dante parla di un enigmatico veltro (l’altra parola in rima, oltre a feltro), che sconfiggerà la lupa. Il peltro è una lega metallica simile all’argento, in passato utilizzata soprattutto per la fabbricazione di vasellame, e non ha grande valore. Proprio nel senso figurato di ‘cosa di scarso pregio’ peltro si trova, anteriormente a Dante (e sempre in rima con veltro e feltro), in un serventese romagnolo di fine Duecento. Nel passo dell’Inferno, invece, Dante usa peltro nel senso di ‘ricchezza’ di beni materiali, coordinato a terra, che indica invece i beni fondiari; gli uni e gli altri saranno disdegnati dal veltro, che si alimenterà di virtù.

P.D'A.

(Inferno I, 49)

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame [...]

La lupa è la terza fiera che Dante incontra nel primo canto dell’Inferno: incarna il vizio della cupidigia ed è caratterizzata da una magrezza eccessiva che la rende desiderosa di tutti i beni materiali del mondo. Nell’opera vi sono altre attestazioni del nome dell’animale, che evoca quasi sempre valori negativi con richiamo implicito a questa prima attestazione, in particolare in Purgatorio XX, 10 (“Maladetta sie tu, antica lupa”), di nuovo allegoria della cupidigia. Il maschile lupo compare, al singolare, in due passi dell’Inferno, tra cui l’episodio del Conte Ugolino (XXXIII, 29), al quale appare in sogno l’arcivescovo Ruggieri “cacciando il lupo e’ lupicini al monte” (ovvero Ugolino stesso e i suoi figli), e in uno del Paradiso (IX, 132, dove il pastore per colpa della bramosia non si cura più del suo gregge ma è divenuto egli stesso lupo). Ci sono anche varie attestazioni del plurale maschile, ma non del femminile, a conferma del valore simbolico che ha per Dante la lupa.

K.D.V.

(Paradiso XXVII, 26)

[...] fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa [...]

La parola puzza ‘fetore’ compare, per l’unica volta nella Commedia, nell’invettiva di San Pietro contro Bonifacio VIII e si riferisce ai vizi della Curia romana. Più numerose sono le attestazioni del maschile puzzo, usato da Dante sia nel significato proprio di ‘odore corrotto e sgradevole’ (Inferno IX, 31; XI, 5; XXIX, 50; Purgatorio XIX, 33), sia in quello figurato di ‘sozzume morale’ (Paradiso XVI, 55) o ‘errore dell’idolatria’ (Paradiso XX, 125). Puzzo deriva probabilmente dal latino parlato *putium, deverbale da putere ‘puzzare’ e puzza si considera una forma derivata dal maschile (sebbene sia attestata anteriormente). All’interno della Commedia compaiono anche i verbi putire ‘emanare fetore’ (“pute la terra che questo riceve”, Inferno VI, 12) e appuzzare ‘corrompere, guastare’ (“Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!”, Inferno XVII, 3).

K.D.V.

(Inferno I, 1)

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.

Molte parole della Commedia sono le medesime che possiamo usare noi oggi. Per esempio, la parola mezzo ha in Dante diversi significati, ma ricorre fin dalla prima terzina del poema nel senso di 'metà', e analogamente può significare 'centro geometrico', 'parte centrale' di qualche cosa, o anche 'strumento'. La costruzione della frase può essere a volte diversa dalla moderna. Ciò non accade nella prima terzina, dove la sintassi è identica alla nostra ("nel mezzo del/di..."), ma accade in altri casi: ad es. con ellissi del di nella forma in mezzo + articolo (Inferno XXI, 56: "in mezzo la caldaia").

C.M.

(Inferno V, 32)

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Menare è un verbo transitivo attestato, con vari significati (qui con quello di ‘condurre trascinando’), sin dall’italiano antico; deriva dal lat. tardo mĭnāre ‘spingere avanti gli animali da tiro con le grida e la frusta’, a sua volta dal lat. classico mĭnāri ‘minacciare’. Il Vocabolario della Crusca lo registra, nella prima edizione, con diverse accezioni: ‘condurre da un luogo all’altro’, ‘percuotere’, ‘agitare, dimenare’, ‘trattare, tramare’. Oggi menare si usa prevalentemente nel senso di ‘picchiare’, usato soprattutto in romanesco, dove regge la preposizione a (menare a qualcuno).

K.D.V.

(Inferno XXIII, 42)

[...] che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta [...]

Il canto XXIII dell’Inferno, dedicato agli ipocriti, si apre con una scena precipitosa: Dante e Virgilio sono inseguiti dai diavoli della precedente bolgia e sono costretti alla fuga. Nel passo spicca una potente metafora, che in pochi versi descrive accuratamente una lunga sequenza di azioni: Virgilio, nel tentativo di salvare Dante dai demoni furibondi, si comporta come una madre premurosa che si accinge a salvare il figlio da un incendio (vv. 37-39). In fretta e furia ella lo afferra, incurante di sé stessa, che ha indosso solo una camicia. Il sostantivo camicia, che indica un indumento simile alla tunica, lungo fino alle anche e portato di solito al di sotto della veste vera e propria, è attestato già dal XIII secolo; deriva dal latino tardo camīsĭa, a sua volta derivato, probabilmente per mediazione della lingua celtica, dal germanico *kamitja. La forma camiscia rappresenta l’esito tipico in Toscana del nesso latino /sj/, poi reso nella grafia con ci e quindi pronunciato con lo stesso fono iniziale di ciliegia.

E.A.

(Purgatorio XXI, 112)

[...] e "Se tanto labore in bene assommi",
disse, "perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?".

In questo e nell’altro luogo della Commedia in cui compare (Paradiso XXXI, 94), il verbo significa ‘condurre a termine’, ‘compiere’, ‘portare a buon fine’.

G.P.

(Inferno XXXII, 126)

Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello [...]

A partire dalla conclusione del canto XXXII, dedicato ai traditori, si apre una delle più grandi narrazioni infernali, quella del conte Ugolino. Proprio in questa terzina Dante vede apparire per la prima volta lui e l’arcivescovo Ruggieri, affondati in un’unica buca del lago ghiacciato che domina il paesaggio infernale. Il capo dell’uno, come se fosse un vero e proprio cappello, si trova perfettamente sopra il capo dell’altro, che viene mangiato con la stessa avidità di un affamato. Il sostantivo cappello (attestato dall’ultimo quarto del XII secolo e derivato dal latino tardo cappellu(m) ‘copricapo’, diminutivo di cappa) ricorre altre tre volte nel Paradiso, con tre diverse accezioni: può indicare il cappuccio di cuoio utilizzato per i rapaci nella falconeria ("Quasi falcone ch’esce del cappello" XIX, 34); il cardinalato, di cui il cappello color porpora è il segno distintivo ("quando fui chiesto e tratto a quel cappello" XXI, 125) e, infine, nelle celeberrime prime terzine del canto XXV, la metaforica ghirlanda d’alloro del poeta laureato, che Dante sperava di ricevere nella sua città natale, dopo essere rientrato, finalmente perdonato, dall’esilio: "e in sul fronte / del mio battesmo prenderò ’l cappello" (vv. 8-9).

E.A.

(Paradiso XIV, 30)

Quell’ uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive […]

Il verbo circunscrivere è un latinismo che Dante attinge alla tradizione filosofico-religiosa. Oggi il primo significato di circoscrivere (che rappresenta la variante moderna, più conforme alla fonologia italiana) è quello, proprio dell’ambito geometrico, di ‘tracciare una circonferenza facendola passare per i vertici di un poligono’, da cui, per estensione, ‘racchiudere entro precisi spazi’, ‘delimitare’. Invece in Dante il verbo è usato anzitutto per indicare l’illimitatezza e quindi l’onnipresenza di Dio, il quale non è circoscrivibile perché è lui stesso a comprendere in sé il tutto. In questo verso del Paradiso Dante ricorre alla figura retorica del poliptòto, usando il verbo sia al presente, sia al participio passato, preceduto dalla preposizione non, come avviene nell’ancor più celebre passo di Purgatorio XI, 2: “O Padre nostro, che ne’ cieli stai, / non circunscritto ma per più amore / ch’ai primi effetti di là sù tu hai / […]”. In altre occorrenze circunscrivere ha il significato, più generico, di ‘circondare’. ‘includere’, ‘incastonare’.

P.D'A.

(Paradiso XV, 100)

Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.

Il sostantivo catenella (diminutivo di catena, dal latino catēna(m) ‘catena’), attestato dall’inizio del Trecento, è utilizzato da Dante nell’accezione di ‘gioiello’, ‘piccola catena a uso ornamentale’. È inserito nel discorso in cui Cacciaguida descrive la piccola e tranquilla Firenze dell’antichità, diversa da quella contemporanea, dedita al lusso e ormai non più "sobria e pudica" (v. 99). La città è vista quasi come una donna, priva degli ornamenti vistosi e immorali, che risaltano più della persona stessa che li indossa.

E.A.

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(Purgatorio XXII, 141)

Li due poeti a l’alber s’appressaro;
e una voce per entro le fronde
gridò: “Di questo cibo avrete caro”.

In questo passo del Purgatorio compare, in rima (ed è l’unica occorrenza nel poema), il termine caro, che significa ‘carestia’, ‘penuria’, documentato, prima di Dante, in Restoro d’Arezzo, Guittone e altri autori. Si tratta, probabilmente, della nominalizzazione dell’aggettivo, derivato dal latino carus nel senso di ‘costoso’. In Dante la parola è pronunciata da un albero “parlante”, che si rivolge a lui, a Virgilio e a Stazio (li due poeti), che stanno salendo verso la sesta cornice del Purgatorio, dove sono i golosi. È interessante notare che nel Cinquecento caro passò a significare ‘rialzo improvviso e innaturale dei prezzi, rincaro’, cosicché, nel Novecento, iniziò a essere usato come primo elemento di composti come caroviveri, carovita e altre formazioni analoghe. Parole come caro-bollette, caro-assicurazione, ecc. ricorrono tuttora spesso sulla stampa (dell’esistenza delle cose corrispondenti si accorgono, ahinoi!, le nostre tasche...).

P.D'A.

(Paradiso XXX, 105)

E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.

Il XXX canto del Paradiso è il primo dei quattro dedicati all’empireo, in cui Dante descrive l’ultimo cielo, abitato da Dio. Il sostantivo cintura deriva dal latino cinctūra(m), a sua volta derivato del participio passato di cĭngĕre ‘cingere’, ed è attestato già dalla metà del Duecento. Utilizzato in senso proprio nel canto di Cacciaguida, accanto ad altri accessori dell’abbigliamento femminile, significa qui, per estensione, ‘ciò che circonda qualcosa’. Il termine è infatti riferito all’immenso fiume di luce che scorre nell’empireo tra due rive fiorite (vv. 61-63), che assume poi una forma circolare (v. 90) che continua a svolgersi quasi all’infinito, diventando talmente estesa da risultare ancora più grande del Sole.

E.A.

(Paradiso XV, 101)

Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.

L’aggettivo contigiato deriva dal sostantivo contigia ‘ornamento’, a sua volta dal francese antico cointise, da cointe ‘adorno’. Ha la sua prima attestazione italiana proprio nella Commedia, in cui compare solo in questo passo (in cui parla Cacciaguida), al femminile plurale, riferito al sostantivo precedente. Questo è gonne nell’edizione Petrocchi, che riprende una congettura accolta in quasi tutte le edizioni anteriori, dal Vandelli in poi, donne nell’intera tradizione manoscritta e nei commenti antichi; tale lezione è stata recuperata nelle edizioni più recenti e sembra in effetti preferibile. Il significato di contigiate (che come attributo di gonne andrebbe inteso come ‘ricche di ornamenti, di ricami’) riferito a donne sarebbe di ‘calzate con contigie’ cioè con ‘calze solate col cuoio stampato intorno al piede’, visto che contigia al plurale è documentato anche con questo significato (di calze contigiate parla Sacchetti). Si tratta di un richiamo al lusso che, secondo l’avo di Dante, caratterizza negativamente la Firenze contemporanea al poeta, ben diversa da quella “del buon tempo antico” di quando viveva lui.

P.D'A.

(Purgatorio XVII, 34)

Surse in mia visione una fanciulla
piangendo forte, e dicea: “O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla?"

I sostantivi fanciullo (Purgatorio XV) e fanciulla, ‘bambino’ e ‘bambina di tenera età’, sono da considerarsi varianti di fancello e fancella, a loro volta forme sincopate di fanticello e fanticella, diminutivi di fante (infante), dal latino fans (participio di fari ‘parlare’); al suffisso -ello/-ella si sarebbe sostituito -ullo/-ulla, di origine centromeridionale. Le occorrenze in Dante si concentrano nel Purgatorio, per lo più all’interno di paragoni: una del nome maschile al singolare (XV, 3) e due al plurale (XXVII, 45 e XXXI, 64), due del femminile (questa e quella al canto XVI, 86, all’interno di una comparatio funzionale a veicolare un discorso etico estremamente complesso). Sia fanciullo sia fanciulla sia i loro alterati hanno avuto larga fortuna nell’italiano successivo a Dante: ricordiamo almeno, in prosa, Il fanciullino di Giovanni Pascoli (1897); in poesia, tra i tanti, il celebre verso di A Zacinto di Ugo Foscolo “ove il mio corpo fanciulletto giacque”; nel melodramma La fanciulla del West di Puccini (1910), in cui il termine traduce l’inglese girl del titolo originario del dramma di David Belasco.

K.D.V.

(Purgatorio XXXII, 131)

Poi parve a me che la terra s’aprisse
tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro su la coda fisse […]

Il sostantivo ha due occorrenze nella Commedia: compare nell’Inferno (Inferno XXV, 23), nella forma draco, alla latina (in rima con Caco, il centauro che lo porta sulla schiena), a indicare l’animale alato che sputa fuoco, tipico dell'immaginario fantastico medievale ("Sovra le spalle, dietro da la coppa, / con l’ali aperte li giacea un draco; / e quello affuoca qualunque s’intoppa"); si trova poi nel Purgatorio (Purgatorio XXXII, 131), nella forma drago, in riferimento al draco magnus dell’Apocalisse, mostro mitologico munito di sette teste di serpente.

L.F.

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(Inferno XI, 60)

[…] ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.

Nell’abisso concentrico di Malebolge sono dannati per l’eternità i fraudolenti contro chi non si fida (distinti dai traditori di chi si fida, nell’ultimo cerchio infernale). Nel catalogo di colpe di una spregevole umanità, nel feroce disordine del male, la parola baratto compare in quest’unico passo della Commedia. Il termine, dal verbo barattare, di origine controversa e variegata semantica, non è adoperato nel senso di ‘scambio di beni senza uso di moneta’, ma in quello negativo di ‘inganno’, e vale baratteria: il peccato, i barattieri, i loro sordidi maneggi. Truffa, ribalderia e azzardo: ma soprattutto qui, in accezione più specifica, la baratteria è il commercio della cosa pubblica, il reato di corruzione per il quale Dante fu condannato. I barattieri, che usarono il proprio ufficio per illeciti guadagni, sono puniti nella quinta bolgia (Inferno XXI e XXII), custodita da diavoli neri con ali di pipistrello e acuminati uncini: demoni e peccatori della terra, persi in un affannoso, avido agitarsi nell’aria buia e densa di pece bollente.

M.Ca.

(Inferno XXV, 90)

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse [...]

Nel significato, ancora attuale, di ‘aumento della temperatura corporea al di sopra della norma’, la febbre nel passo dantesco è uno degli effetti causati dal morso velenoso del serpente infernale. Il termine ricorre in altri due luoghi dell’Inferno: nel canto XXX, 99 si parla di febbre aguta, che indica un tipo di febbre ben noto nei testi volgari dell’epoca, cioè un’‘afflizione che si sviluppa all’interno dell’apparato circolatorio’; nel canto XXVII, 97 ha invece valore metaforico di ‘affezione dell’animo’.

K.D.V.

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(Inferno XVIII, 66)

Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: “Via,
ruffian! qui non son femmine da conio”.

L’espressione si trova nel discorso diretto che un diavolo rivolge, mentre lo frusta, al bolognese Venedico Caccianemico, il quale per denaro aveva costretto la sorella Ghisolabella a soddisfare le voglie del marchese Obizzo d’Este. Siamo in Malebolge, là dove sono puniti i ruffiani e gli ingannatori. Il significato di femmine da conio (entrambe le parole hanno in Dante varie altre attestazioni e femmine rispetto a donne ha spesso valore spregiativo) è discusso. Dato il contesto, per molti commentatori, che danno a conio il valore di ‘moneta’, l’espressione significa ‘donne da prostituire per ricavarne denaro’; altri, interpretando conio nel senso di ‘inganno’ (sulla base del significato che hanno in italiano antico parole come coniello ‘inganno’, coniellare ‘ingannare’ e coniellatore ‘fraudolento’), la intendono nel senso di ‘donne da ingannare, da sedurre con arti fraudolente’. Ma l’interpretazione più diffusa negli antichi commenti danteschi, ripresa anche nelle varie edizioni del Vocabolario della Crusca è quello di “donne che vendano la loro onestà per moneta”. In effetti, l’espressione è entrata in italiano con questo senso, come uno dei vari eufemismi per indicare le prostitute; e non pare ancora del tutto caduta in disuso, sebbene ormai abbia ceduto il campo, al pari di altre locuzioni semanticamente analoghe, all’anglismo escort, che però è usato anche per riferirsi a maschi.

P.D'A.

(Purgatorio I, 2)

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele [...]

La parola è qui inserita nella metafora del viaggio di Dante nell'Oltretomba e, in particolare, nel passaggio dalle acque tenebrose dell'Inferno a quelle "migliori" del Purgatorio. L'ingegno, che condivide la radice classica del generare, è l'insieme delle capacità intellettuali di intuire e comprendere la realtà con acume e prontezza; quella curiosità vivace, capace di guidare verso nuove scoperte e di generare appunto nuova conoscenza. Largamente attestata in Dante, la parola attraversa tutta la storia della nostra letteratura passando per Petrarca, Boccaccio, Ariosto fino a Leopardi e Manzoni. Nell'italiano antico ha assunto anche il valore di 'congegno', 'ordigno', un significato tecnico che si conserva ancora oggi per indicare il 'fusto della chiave che si inserisce nella toppa della serratura'. L'ingegno di Dante continua ad aprirci nuove porte!

R.S.

(Inferno V, 137)

“[...] la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.

Galeotto è l’adattamento italiano del nome proprio Galehaut, personaggio di una delle numerose versioni in francese antico del Lancelot, noto romanzo del ciclo arturiano. Amico di Lancillotto, Galeotto lo aiuta a conquistare il cuore della regina Ginevra, favorendo il primo incontro amoroso tra i due. Francesca narra a Dante come il suo amore con Paolo fosse iniziato proprio mentre leggevano insieme il romanzo di Lancillotto, per cui il libro ha svolto per loro la stessa funzione del personaggio, quella di ‘intermediario d’amore’. Trattandosi di un nome proprio di persona riferito a una cosa (il libro), in funzione di predicato nominale (interpretabile dunque anche come aggettivo) Galetto costituisce uno dei più antichi esempi di deonomastica, come si definisce oggi il passaggio da un nome proprio a un nome comune. La parola è stata ripresa in tal senso da Boccaccio, che definisce il suo Decameron “prencipe Galeotto”, e poi, tra gli altri, da Carducci, D’Annunzio, Campana. La scarsa conoscenza del Lancelot, e quindi la mancata percezione di Galeotto come nome proprio (dovuta anche alla collocazione dopo un punto fermo) e l’omonimia con galeotto nel senso di ‘rematore di una galea’, parola usata anch’essa da Dante (in Inferno VIII, 17 nella grafia galeoto e in Purgatorio II, 27) e poi diffusa anche nel significato di ‘carcerato’ (visto che il compito era spesso riservato ai detenuti) e quindi, in senso esteso (e pure con valore aggettivale), di ‘briccone, furfante’, potrebbe creare una sorta di cortocircuito e far credere erroneamente che questo sia il senso di Galeotto nel passo dantesco riportato.

P.D'A.

(Paradiso XIV, 47)

[...] per che s'accrescerà ciò che ne dona
di gratüito lume il sommo bene,
lume ch'a lui veder ne condiziona [...]

Dal latino gratuitus, cioè ‘dato per grazia’, come riporta già la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) citando come prima attestazione proprio questo passo dantesco. L’aggettivo, introdotto da Dante e diffusosi nel corso del Trecento, ha avuto larga fortuna fino all’italiano attuale, in cui prevale l’accezione di ‘ricevuto senza pagamento’ e appare scolorito quel legame con la Grazia divina, fondante nella concezione teologica medievale. Resta la sensazione di bellezza e profonda pace che suscita ogni dono “gratuito” che offriamo o riceviamo e che questa terzina rappresenta mirabilmente.

R.S.

(Paradiso VII, 13 )

Ma quella reverenza che s'indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l'uom ch'assonna.

Questo verbo deriva dal nome donno, cioè ‘signore’, preceduto dall’elemento in- e seguito dall’uscita -are, propria dell’infinito dei verbi di prima coniugazione. Nell’italiano antico significava ‘insignorirsi’, ‘impadronirsi’, ‘farsi signora o signore’. Non è un’invenzione dantesca: prima che nel settimo canto del Paradiso, è documentato in una poesia di Iacopone da Todi.

G.P.

(Inferno XXIII, 92)

Poi disser me: "O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio".

Unica occorrenza nella Commedia, il termine ipocrita deriva dal greco hypocrites ‘attore’, passato attraverso il latino hypocrita, e indica ‘chi parla o agisce con ipocrisia, simulando buone qualità e virtù, per ingannare gli altri o per guadagnarsene il favore’. Dante fa riferimento ai dannati della sesta bolgia dell’ottavo cerchio ("ipocriti tristi"), costretti a camminare indossando pesanti cappe di piombo coperte d’oro. Nell’immaginare una tale pena, Dante è probabilmente persuaso da una falsa etimologia medievale di ipocrita, avallata da Uguccione da Pisa, che fa risalire la voce al latino superauratus.

L.F.

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(Paradiso IX, 91)

Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.

I sostantivi orto (dal latino ortus, dal verbo oriri ‘sorgere’) e occaso (dal latino occasus, dal verbo occidere ‘tramontare’) sono speculari e vengono accostati da Dante in questo e in un altro passo del poema (Purgatorio XXX, 2). Dal punto di vista astronomico indicano due punti cardinali e sono dunque l’uno sinonimo di oriente, levante, est, e l’altro di occidente, ponente, ovest (significato che certamente ha occaso in Purgatorio XV, 9, anche se il passo è di interpretazione controversa). Indicano inoltre, rispettivamente, il sorgere e il tramontare del sole, come nella terzina riportata, in cui si dice che nelle città di Bugia e di Marsiglia, patria di Folchetto (che sta parlando), il tramonto e il sorgere del sole avvengono quasi nello stesso istante, perché i due centri si trovano pressappoco sullo stesso meridiano. I due termini possono ancora significare, figuratamente, l’inizio e la fine di qualcosa (come nel passo sopra richiamato del Purgatorio in cui figurano di nuovo ancora accoppiati). Infine, orto, riferito a persona, indica anche la nascita, come nella terza occorrenza della voce, in Paradiso XI, 55, dove si parla di san Francesco, in piena coerenza con la metafora del Sole, a cui il santo viene paragonato. Mentre occaso ha avuto una lunga vitalità nella lingua letteraria, orto, pur se anch’esso ben documentato, spesso proprio insieme a occaso, ha goduto di molta minore fortuna; forse ciò è avvenuto a causa dell’omonimia con orto (dal latino hortus), usato dallo stesso Dante nel significato etimologico di ‘giardino’.

P.D'A.

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(Inferno XXVII, 95)

Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro [...]

La lebbra è una malattia infettiva caratterizzata da una sintomatologia deformante della cute, in passato molto diffusa e pericolosa. La parola deriva dal latino lepra, a sua volta dal greco lépra ‘squama’ (derivato del verbo lépō ‘scorticare’), con sonorizzazione e raddoppiamento della consonante prima di r (ma in italiano antico è diffusa anche la forma lepra, più vicina al latino). La forma lebbre (usata in questo passo dell’Inferno, in rima con febbre ed ebbre) è stata spiegata con l’accostamento tra i nomi femminili in -a di I declinazione latina e quelli in -e di III e V (un caso analogo, sempre in Dante, è ale per ala). Dato il grande stigma che la parola lebbra si porta con sé sin dai tempi antichi, oggi in medicina si preferisce parlare piuttosto di morbo di Hansen.

K.D.V.

(Paradiso XVII, 21)

[...] mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto [...]

Le occorrenze di defunto nella Commedia sono soltanto due, come aggettivo. La terzina che abbiamo riportato è citata nel Vocabolario degli Accademici della Crusca fin dalla prima impressione, alla voce defunto "morto. Lat. defunctus, vita defunctus". Nella quinta impressione l’esempio rimane, ma nella quarta accezione della voce, inserita proprio con riferimento a questi versi danteschi: "E aggiunto di Mondo, trovasi poeticam. per Proprio dei dannati" (alla citazione dalla Commedia si affianca poi unicamente un passo del commento di Francesco Buti: "E descendendo nel mondo defunto; cioè e descendendo per lo inferno, lo quale chiama mondo defunto, perchè quello è luogo dei dannati che sono defunti e privati della grazia d’Iddio"). Nella quinta edizione sono riportati anche i versi che contengono la seconda occorrenza: "Comincia dunque; e dì ove s’appunta/ l’anima tua, e fa ragion che sia/ la vista in te smarrita e non defunta" (Paradiso XXVI, 7-9). Anche in questo caso la citazione compare nella voce come esempio (l’unico) di un’accezione appositamente inserita in riferimento a Dante: "Figuratam. e poeticam. detto di vista, vale Perduto".
La parola è frequente anche oggi, persino là dove non te lo aspetteresti. Per esempio nella poesia ’a Livella di Antonio De Curtis, in arte Totò: "Ogn’anno, il due novembre, c’è l’usanza/ per i defunti andare al Cimitero…"; poesia che vale sempre la pena di leggere fino alla fine: "Sti ppagliacciate ’e ffanno sulo ’e vive:/ nuje simmo serie...appartenimmo â morte!".

M.B.

(Purgatorio XIII, 51)

E poi che fummo un poco più avanti,
udia gridar: "Maria, òra per noi"
gridar "Michele" e "Pietro" e "Tutti santi".

Nella Commedia pochissime sono le occorrenze di santo come sostantivo nel significato di "Quegli, il quale è eletto da Dio nel numero de’ beati, e dalla Chiesa tenuto, o canonizzato per tale", per usare la definizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612, rimasta immutata anche nelle successive edizioni. Come esempio dantesco gli accademici scelsero "ditemi de l’ovil di San Giovanni" (Paradiso XVI, 25), in cui compare la variante san, con riferimento al patrono di Firenze.
La prima attestazione del sostantivo, sempre nella forma ridotta san, è contenuta nell’Inferno XIX, 90-92 ("Deh, or mi dì: quanto tesoro volle/ Nostro Segnore in prima da san Pietro/ ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?"). Nella stessa cantica si trova una seconda occorrenza, al plurale ("Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa/ coi santi, e in taverna coi ghiottoni", Inferno XXII, 14-15), con un uso proverbiale che non sfuggì agli accademici, che registrano i versi come esempio alla voce ghiottone. Eccezion fatta per i riferimenti a toponimi o a ordini religiosi (San/Santo Pietro, Santa Zita, San Zeno, San Benedetto, San Vittore, Sant’Antonio), il sostantivo si registra poi nel canto XIII del Purgatorio (nella terzina che abbiamo selezionato, dove è accompagnato da tutti) e due volte nel Paradiso: nel passo del canto XVI citato sopra e nel canto XXXI ("Vidi a lor giochi quivi e a lor canti/ ridere una bellezza, che letizia/ era ne li occhi a tutti li altri santi", vv. 133-135).
Dell’aggettivo santo si hanno invece 82 occorrenze nella Commedia (in un comprensibile crescendo: Inferno 5, Purgatorio 25, Paradiso 52), a cui si aggiungono 8 occorrenze di Santa Chiesa, 9 di Spirito Santo e una di Terra Santa.

M.B.

(Purgatorio XIX, 58)

Vedesti, disse, quell'antica strega
che sola sovr'a noi omai si piagne;
vedesti come l'uom da lei si slega.

Nella Commedia compare solo una volta, ma strega (anche nella variante striga; dal latino strix, ‘rapace notturno’) è una parola già diffusa al tempo di Dante. Lo testimonia la nostra tradizione letteraria, in cui strega ricorre fin dalla seconda metà del XIII secolo: “Anticamente fur orchi e gigante, / e streghe che andavan in tregenda” (cioè al sabba), così raccontava , per esempio, il poeta senese Iacomo de’ Tolomei in un sonetto giocoso.
La strega del Purgatorio dantesco è la “femmina balba” che è appena apparsa in sogno a Dante: una vecchia balbuziente, guercia, deforme, che per un momento sembra trasformarsi in sirena, seducente come il vizio di cui è allegoria. Virgilio, che ne conosce la reale identità, le straccia la veste e così la smaschera, ammonendo Dante con le parole della nostra terzina: in questo modo ci si libera dal peccato, vecchio tanto quanto il genere umano (l’“antica strega”).
Perché per Dante il vizio è una strega? Forse perché sa dissimularsi in svariate piacevoli forme (per Baldassarre Lombardi, che commenta il verso nel XVIII secolo, la strega è “maliarda, ammaliatrice, incantatrice degli umani cuori”), come le streghe sapevano incantare e mutarsi, per esempio, in animali (nel commento antico di Francesco da Buti leggiamo “imperò che li vulgari diceno che le streghe sono femine, che si trasmutano in forma d'animali e succhiano lo sangue ai fanciulli”; e ancora, in quello ottocentesco di Luigi Bennassuti “La falsa felicità mondana è detta strega, perché le streghe fanno vedere quel che non è, od è menzogna”); o forse perché il vizio logora, in quanto della felicità è solo un simulacro (“perché chiama questa falsa felicità strega” – si chiede Cristoforo Landino alla fine del XV secolo – “perché ci succia gli spiriti et e sensi”.

S.C.

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(Paradiso I, 95)

S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito [...]

La sequenza "sorrise parolette brevi" si riferisce alle poche parole con cui Beatrice, sorridendo, chiarisce un dubbio di Dante prima ancora che il poeta lo esprima. Anche se non si tratta di una delle tante espressioni della Commedia entrate nella lingua comune, sorrise parolette ha avuto alcune riprese letterarie, da parte di Torquato Tasso ("Teneri sdegni, e placide e tranquille / repulse, cari vezzi, e liete paci, / sorrise parolette, e dolci stille / di pianto, e sospir tronchi, e molli baci", Gerusalemme liberata, canto XVI, ottava 25), Giosue Carducci e, in prosa, Gabriele d’Annunzio. Sono da segnalare sia il diminutivo parolette (col suffisso in -etto invece di -ino), che al plurale, nel senso di ‘breve discorso’, è oggi meno frequente di paroline, sia soprattutto il participio passato sorrise, che costituisce una “invenzione” dantesca, in quanto il verbo sorridere sarebbe intransitivo (è normale infatti deriso, ma deridere è transitivo). Quanto all’aspetto semantico, sorridere, come pure ridere, come scrive lo stesso Dante nel Convivio, è espressione di "un’allegrezza moderata [...] con onesta severitade e con poco movimento de la sua [fa]ccia".

P.D'A.

(Inferno XX, 61)

Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.

Accanto a su la lingua antica conosce anche suso, che nella Commedia ha oltre 40 occorrenze, sempre in funzione di avverbio (e non di preposizione). Si tratta della forma più vicina al latino sursum, in cui si è semplificato il nesso -rs-; da suso si è poi arrivati a su inseguito a un’aplologia, cioè alla caduta di una sillaba per la presenza subito dopo di un’altra uguale o simile sul piano fonetico: suso è stato interpretato come su su e si è quindi ridotto al primo elemento. La stessa cosa è avvenuta per il contrario giuso (dal lat. deorsum), che è stato influenzato da suso, con cui talvolta Dante lo fa rimare, sia per la chiusura della vocale tonica, sia per la possibile riduzione a giù, per analogia con su. Nel poema c’è anche, sempre in funzione di avverbio, la forma sue, con solo tre esempi, tutti in rima: il plurilinguismo di Dante si documenta dunque anche negli elementi grammaticali. Nel passo riportato, l’avverbio va inteso in senso geografico: suso in Italia bella significa ‘nell’Italia settentrionale’, a cui rimandano infatti i numerosi toponimi citati.

P.D'A.

(Paradiso XXXII, 141)

Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna,
qui farem punto, come buon sartore
che com’elli ha del panno fa la gonna [...]

Il canto XXXII del Paradiso, in cui San Bernardo descrive al poeta la struttura dell’empireo, è il terzo dedicato alla descrizione di questo cielo. Esso interrompe per un momento la tensione lirica e drammatica che Dante ha tessuto nei canti precedenti e prepara all’incontro finale con Dio: tra le parole di Bernardo spicca una metafora legata alle attività quotidiane, che documenta il concreto realismo dantesco. Poiché il viaggio di Dante è quasi terminato, il santo stabilisce che è arrivato il momento di interrompere il suo racconto, così come farebbe un buon sarto, che decide quale abito ("gonna") cucire in base al tipo di stoffa che ha. Il termine gonna, tuttora in uso, indica un indumento di varia lunghezza che va dalla vita in giù, che all’epoca di Dante non era esclusivamente femminile. Il sostantivo deriva dal latino tardo gŭnna(m) (VI secolo), che significava ‘pelliccia’, riferendosi alla pelliccia portata ai fianchi. Lo si considera un prestito di origine gallica o, più probabilmente, balcanica visto che le voci corrispondenti nelle lingue balcaniche mantengono ancora il significato primario di ‘mantello di pelle di capra’, che si è perso nel mondo romanzo.

E.A.

(Purgatorio IV, 111)

“O dolce segnor mio”, diss’io, “adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se pigrizia fosse sua serocchia”.

È questa una delle due occorrenze (l’altra è in Purgatorio XXI, 28), entrambe in rima (ed entrambe in senso figurato, dato il riferimento a cose astratte), del termine serocchia ‘sorella’ (con le varianti sirocchia e sorocchia), che costituisce invece la forma più frequente nei testi documentari fiorentini dell’epoca di Dante. A ulteriore riprova del plurilinguismo dantesco, rileviamo che nella Commedia troviamo anche sorella, che è anzi più frequente (10 occorrenze, in due delle quali significa ‘monaca’), e suora (8 esempi). Mentre quest’ultima parola deriva, per via popolare, dal nominativo latino soror, divenuto in volgare suoro e poi, per attrazione dei nomi femminili, suora, serocchia costituisce l’esito, sempre per via popolare, del diminutivo latino sorōcula ‘sorellina’; quanto a sorella, è forma nata in volgare, modellata sul corrispondente fratello (dal latino parlato *fratellus, diminutivo di frater). Il successo di sorella nell’italiano posteriore è dovuto non solo al parallelismo formale con il corrispondente maschile e alla specializzazione di suora, al pari di frate, all’ambito religioso, ma anche, molto probabilmente, alla preferenza accordata da Dante a questo termine. Serocchia, invece, cadde gradualmente in disuso, anche in Toscana; ma proprio la sua presenza nella Commedia spiega la sopravvivenza, sia pure occasionale, di sirocchia nella lingua letteraria tra i secc. XVIII e XX (da Goldoni a Foscolo, da D’Annunzio a Sbarbaro).

P.D'A.

(Purgatorio XXIII, 49)

“Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora”, pregava, “la pelle,
né a difetto di carne ch’io abbia” [...]

Nella preghiera che Forese rivolge a Dante, il termine scabbia, generalmente inteso come malattia cutanea simile alla rogna e di solito accompagnata dalla lebbra, indica, per metafora, la sete provata dai golosi: la secchezza provocata dalla mancanza d’acqua è simile a quella che la scabbia causerebbe sulla pelle. La parola deriva dal lat. tardo scabia, da scabere ‘grattare’

K.D.V.

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(Inferno I, 3)

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

La prima rima della Commedia si realizza grazie al participio passato femminile del verbo smarrire, che ha altre attestazioni nel corso del poema (a volte nella variante ismarrire, con la i prostetica dopo parola terminante in consonante), non di rado nella forma riflessiva e con varie sfumature semantiche, da ‘perdere’ a ‘confondersi’ a ‘sbigottire’. Lo stesso participio ritorna al maschile, quasi a chiudere il cerchio, nell’ultimo canto del Paradiso, nella visione dell’essenza divina, dalla quale non si può distogliere lo sguardo senza smarrirsi ("Io credo, per l’acume ch’io soffersi / del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, / se li occhi miei da lui fossero aversi", XXXIII, 77).
Si tratta di un verbo derivato dal germanico *marrjan ‘essere di malumore’, entrato già nel latino tardo e inserito nella classe dei verbi in -ire, con l’aggiunta del prefisso intensivo s-. Rispetto a perdere, smarrire indica un evento momentaneo e lascia aperta la possibilità di un ritrovamento: in tal senso, e probabilmente proprio per suggestione di Dante (che nel suo viaggio torna sulla retta via), nella versione italiana della parabola evangelica del Buon Pastore è diventata pecorella smarrita quella che in Luca è "ovem meam quae perierat" e in Matteo "quae erravit".

P.D'A.

(Inferno XXIX, 75)

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati [...]

Si tratta di un termine medico che ha il significato di ‘crosta o squama della pelle, formatasi su una pustola o una piaga ulcerosa’. Nel contesto usato da Dante, le schianze si riferiscono alle èscare, cioè alle lesioni cutanee provocate dalla scabbia sui corpi dei due falsatori di metalli, Griffolino e Capocchio. L’etimo del vocabolo è incerto: c’è chi postula una derivazione dal latino parlato *usclantia (forma sincopata di *ustulantia, da ustulare), nel senso di ‘crosta abbruciacchiata del pane’; altri pensano a una variante di chiazza ‘macchia’ (voce a sua volta etimologicamente discussa), con inserimento di una s- intensiva e di una nasale prima di z.

K.D.V.

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(Paradiso XXXIII, 87)

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna […]

Il sostantivo universo compare 13 volte nella Commedia (5 nell’Inferno, 8 nel Paradiso, mai nel Purgatorio). L’ultima occorrenza del termine è in questa terzina: nella profondità di Dio, Dante vede che tutto ciò che nell’universo è separato e diviso ("si squaderna") si trova raccolto, custodito dentro ("s’interna"), legato con amore. Nell’unità divina si unificano tutte le divisioni e le contraddizioni dell’universo.

L.F.

(Inferno XXIX, 46)

Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali [...]

Spedale è forma aferetica, tipica del fiorentino, di ospedale, dal latino medievale hospitāle ‘alloggio per forestieri’ (l’aferesi si spiega come discrezione dell’articolo: l’ospedale > lo spedale). Compare in Dante col significato ancora oggi attuale di ‘luogo in cui vengono curati i malati’ all’interno di una similitudine: se tutti i malati presenti negli ospedali di Valdichiana, Maremma e Sardegna fossero adunati in un’unica fossa, il lamento e il fetore che allora si produrrebbero sarebbero simili a quelli della bolgia infernale in cui si trova il poeta e dove le diverse malattie costituiscono la punizione dei dannati.

K.D.V.

(Inferno XXVIII, 27)

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.

Il verbo, che è documentato già prima di Dante, il quale lo usa soltanto in questa terzina, spesso citata come documento dello stile comico che caratterizza alcuni canti dell’Inferno, è da considerare un parasintetico denominale, formato sul sostantivo gogio, dal settentrionale gos ‘gozzo’, con il prefisso tra- (qui nel senso di ‘attraverso’) e la desinenza -are. Il significato è quello di ‘ingoiare’, ‘inghiottire’ (e proprio l’influsso di questi sinonimi giustificherebbe l’inserimento di -n- dopo il prefisso, che peraltro si potrebbe anche spiegare partendo dal latino trans-). Trangugiare significa ‘mandare giù rapidamente il cibo’ o per voracità quasi animalesca (come nel passo citato, dove compare all’indicativo, col si passivante) oppure per non sentirne il sapore, evidentemente sgradevole. Non a caso il verbo (al pari dei citati ingoiare e inghiottire) è spesso usato figuratamente, nel senso di ‘essere costretti a sopportare’ (trangugiare bocconi amari).

P.D'A.

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(Inferno VI, 19)

Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.

Nell’italiano antico, il verbo urlare è semanticamente sovrapponibile al verbo ululare, da cui deriva, e fa riferimento al verso del lupo o al latrato del cane. Generalmente, per riferirsi a voci e suoni umani nella Commedia Dante usa gridare, ma nel caso dei dannati del sesto canto dell’Inferno (Inferno VI, 19), dove sono puniti i peccati di gola, e in quello delle “svergognate” donne fiorentine del ventitreesimo canto del Purgatorio (Purgatorio XXIII, 108), dove espiano le anime dei golosi, l’uso del verbo animalesco risulta maggiormente efficace: le anime urlano in modo disumano, con suoni strazianti assimilabili a versi animali; il loro urlo indica la bestialità del loro peccato e della loro pena.

L.F.

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(Purgatorio XIII, 83)

[...] da l’altra parte m’eran le divote
ombre, che per l’orribile costura
premevan sì, che bagnavan le gote.

Nella II cornice del Purgatorio Dante incontra gli invidiosi i quali, oltre a indossare una sorta di cilicio pungente, hanno gli occhi cuciti con un filo di ferro, da cui sgorgano lacrime. La parola costura indica la cucitura che unisce i lembi dell’occhio e nasce nell’ambito della sartoria per indicare la sovrapposizione di due lembi di stoffa. Proprio per questo la costura è "orribil" perché è raccapricciante e turba l’animo di Dante. La parola deriva dal latino volgare *cosutūra(m) (da cui sutura e il francese couture), der. di consūtum, part. pass. di consuĕre ‘cucire insieme’, da suĕre ‘cucire’ con il prefisso co(n)-. La parola è stata usata anche all’interno del Fiore (CCXXVIII 14): "la scarsella sì era san costura" ossia la borsa del pellegrino (o la tasca che di solito veniva cucita con il fil di ferro) era senza cucitura, similitudine usata in senso osceno.

M.D.C

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(Inferno XXVI, 28)

[...] come la mosca cede alla zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara [...]

Unica attestazione all’interno della Commedia, la parola zanzara viene usata da Dante all’interno di una perifrasi per indicare il passaggio dal giorno alla notte: "come la mosca cede alla zanzara", cioè quando scompaiono le mosche e si apprestano le zanzare, ossia il crepuscolo. La circonlocuzione viene inserita poi all’interno di una similitudine più ampia in cui viene paragonato il contadino, che la sera si riposa sopra un poggio guardando la vallata piena di lucciole, a Dante che guarda dall’alto le fiammelle delle anime dannate. In questo passo Dante inserisce tre insetti (mosche, zanzare e lucciole) che si rifanno alla tipica ambientazione campestre estiva dell’Italia centrale appenninica. La voce zanzara (anche nella variante zenzara e zinzara) è voce onomatopeica: dal latino tardo zinzala(m) in cui le affricate riproducono il ronzio. La parola ha attestazioni anteriori a quella dantesca: Garzo nella Lauda di Santa Chiara (1225 ca.) (“Zanzara trafigge / ovunque s’affigge”) e nel Bestiario Toscano di area pisana risalente alla fine del XIII secolo. Forse si deve proprio al fatto che l’insetto sia particolarmente fastidioso e insidioso che, nonostante nel latino classico la zanzara venisse chiamata culex (da cui anche un poemetto di Virgilio), sia prevalsa la voce onomatopeica latina tarda zinzala(m). L’asprezza del suono della parola ben si addice al repertorio lessicale dell’Inferno, ricco di suoni duri.

M.D.C.

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(Paradiso X, 96)

Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
u’ ben s’impingua se non si vaneggia.

In questo famosissimo passo messo in bocca a san Tommaso d’Aquino, nel verso che chiude la terzina, e che Dante riprende poi in parte (Paradiso XI, 25) o integralmente (ivi, 139), figura il verbo deaggettivale vaneggiare, formato da vano con il suffisso -eggiare, accostato a un altro deaggettivale (impinguare), formato invece per parasintesi (da pingue con in- e -are). Il verbo ricorre in altri passi del poema (e, in precedenza, nella Vita nuova, che ne fornisce probabilmente la prima o comunque una delle prime attestazioni). In Dante vaneggiare ha vari significati: ‘aprirsi’ (detto di un vuoto sotto un ponte o di un pozzo; Inferno XVIII, 5 e 73) oppure ‘vagare con la mente, fantasticare’ (Purgatorio XVIII, 143) o ancora ‘non riuscire a mettere a fuoco un oggetto’ (Purgatorio X, 114). Qui può significare ‘inseguire cose vane’ o, piuttosto, ‘vagare’ e quindi (all’interno della metafora del gregge a cui sono paragonati i domenicani) ‘passare da un pascolo a un altro’, senza rimanere nel campo indicato dal fondatore dell’ordine.

P.D'A.

(Inferno XXXII, 15)

Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe! 

Zeba è un termine zoologico piuttosto raro dell’italiano antico che significa ‘capra’. L’etimo è incerto: per Rohlfs è possibile ipotizzare un collegamento con la voce germanica *tsiba, mentre Iacomo della Lana, glossandolo nella forma cebe, sostiene una derivazione dal verbo cembalare ‘saltare’. Ci troviamo nel IX cerchio dell’Inferno, nella ghiaccia di Cocito. In questo canto e in quelli successivi Dante incontrerà i traditori, colpevoli del più grave tra i peccati. Per il poeta sarebbe stato meglio che costoro fossero stati sulla terra delle bestie, come le pecore e le zebe, le quali sono comunque incapaci di tradire. I peccatori invece, attraverso le loro azioni nefande, non solo hanno rinunciato alla dignità umana, ma si sono dimostrati inferiori anche ai più ottusi degli animali.

K.D.V.

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(Inferno XXX, 54)

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia [...]

La parola ventraia è un termine anatomico che indica il ‘ventre prominente e dilatato’. In questo passo, Dante descrive la figura deformata dalla malattia di Maestro Adamo: la grandezza del suo viso non corrisponde infatti a quella del ventre, che a causa della idropisia risulta oltremodo gonfio. Sebbene si possa affermare sulla base di diversi dati che la voce ventraia circolasse già prima dell’opera dantesca, essa trova la sua prima attestazione proprio in questo passo dell’Inferno

K.D.V.

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(Inferno XXII, 93)

Omè, vedete l’altro che digrigna;
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna.

Dal lat. tĭnea o tĭnia ‘verme’, la parola tigna indica una malattia contagiosa della pelle (più specificamente del cuoio capelluto) simile alla rogna. Dante la utilizza in senso traslato sia in Inferno XV, 111 con il significato di ‘sozzura’ - qui Brunetto Latini intende con "tal tigna" la colpa dei sodomiti - sia nella terzina sopra riportata in cui ricorre all’interno della locuzione "grattare la tigna" ‘graffiare’, ‘picchiare’. A parlare è infatti il barattiere Ciampolo di Navarra, personaggio storico pressoché sconosciuto, che confessa a Dante di essere preoccupato per i tormenti che gli infliggeranno i diavoli. Questo modo di dire, attestato per la prima volta in Dante, è molto simile a quello che si legge in Paradiso XVII, 129 "e lascia pur grattar dov’è la rogna". Ricordiamo infine che la parola tigna in alcune zone d’Italia assume anche altri significati, ad esempio nell’area centrale vale ancora oggi ‘ostinazione’.

K.D.V.

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(Inferno XIII, 106)

Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta.

È uno dei tre passi dell’Inferno in cui compare, sempre in rima, l’aggettivo mesto (un latinismo, dal latino maestum, derivato da maerere ‘piangere, essere addolorato’). Anteriormente la parola è documentata in italiano soltanto in una lettera in prosa di Guittone e quindi dipende da Dante la sua fortuna nella lingua posteriore, in cui spesso l’aggettivo è usato come sinonimo di ‘triste’. In Dante il suo significato è più vicino al latino e dunque più forte, equivalendo a ‘disperato’, ‘sconsolato’: sono infatti definiti "gente mesta" (Inferno XVII, 45) i dannati. Qui l’aggettivo, al femminile, è messo in particolare rilievo dall’enjambement e si riferisce per metonimia alla selva dei suicidi, dove questi peccatori, dopo il giudizio universale, trascineranno le loro spoglie per appenderle ciascuno all’albero che racchiude la propria anima, nemica del corpo.

P.D'A.

(Inferno XXX, 56)

[...] faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in su rinverte. 

Si tratta di un termine medico che deriva dal gr. hektikόs ‘abituale’ (poi in lat. hecticus) e indica chi è colpito dalla febbre etica, una malattia che comporta per l’appunto una febbre persistente e un grave deperimento organico. In alcuni commenti danteschi è stata spesso data un’interpretazione di etico come ‘tisico’, confondendo la febbre etica con il termine etisia ‘tisi’. In questo passo, Dante, paragonando Maestro Adamo, malato di idropisia, a chi è affetto da febbre etica, sfrutta le sue grandi conoscenze mediche per offrirci un’immagine estremamente cruda. Il poeta insiste con il campo semantico della patologia per avere un mezzo espressivo atto a descrivere la deformazione del corpo dei dannati.

K.D.V.

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(Paradiso XXIV, 22)

[...] e tre fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.

La parola fiata significa ‘volta’ e, in certi contesti, ‘tempo’ o ‘circostanza’. Non caratterizza specificamente la lingua di Dante, perché è già presente nei poeti siciliani, ma la frequenza con cui ricorre nella Commedia e in altre opere dantesche ha certamente contribuito alla sua stabilizzazione nella lingua letteraria italiana, e soprattutto nel linguaggio poetico, in cui è rimasta almeno fino al sec. XIX. Spesso la parola è preceduta da un numerale cardinale, come in questo passo del Paradiso, in cui una luce splendente (che si rivelerà poi essere san Pietro), uscita dal cerchio in cui si trova insieme ad altre, ruota per tre volte ("tre fiate") intorno a Beatrice intonando un canto talmente divino che Dante non è in grado di descriverlo. I dizionari etimologici concordano nel ritenere fiata un gallicismo, dal francese antico fiée; derivato dal latino parlato *vicata, a sua volta da vix, vicis ‘vicenda’, ‘alternativa’, ‘turno’ (dall’accusativo vicem derivano invece l’italiano vece e il francese fois). I due puntini sopra la i indicano che in questo verso siamo di fronte a una dialefe: -ia- non è qui un dittongo, ma uno iato, sicché la parola va considerata di tre sillabe e non di due.

P.D'A.

(Inferno XXX, 102)

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’essere nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.

Dal gr. hêpar (in lat. hēpar), cioè ‘fegato’, il termine ricorre per due volte all’interno del canto XXX dell’Inferno con il significato di 'ventre'. Dante descrive con estremo realismo il pugno che il greco Sinone, personaggio dell’Eneide, dannato tra i falsari di parola, sferra sul ventre gonfio e duro dell’idropico Maestro Adamo. Questa immagine trae ulteriore espressività dall’utilizzo dell’aggettivo croia, probabilmente dal provenzale croi, a sua volta dal lat. corium ‘cuoio’, che per la prima volta viene utilizzato da Dante non con l’accezione moraleggiante di ‘vile, spregevole’, ma con quella più concreta di ‘duro’.

K.D.V.

(Inferno X, 120)

Dissemi: "Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio".

Riprendiamo un'espressione già in parte commentata da Francesco Sabatini il 21 settembre scorso, per dire che a volte i parlanti italiani citano Dante senza saperlo. Non è raro che oggi nei dibattiti si concluda con un "…mi taccio", intransitivo pronominale, non estraneo a logorroici frequentatori di salotti televisivi. La forma può dispiacere, ma l'ha usata Dante, Inferno X, 120: "e de li altri mi taccio". Dante mette mi taccio in bocca a Farinata, dopo che ha menzionato due eretici compagni di pena, l'imperatore Federico II e il cardinale Ottaviano degli Ubaldini. Come spiegava Giovanni Boccaccio, Farinata intendeva dire "Io te ne potrei molti altri contare". Dante usa "mi taccio" anche nel Convivio: "…vedrà quello che io mi taccio per non abominare alcuno". Nulla di strano, perché era forma comune nel toscano del suo tempo. La si trova anche in Petrarca e in Boccaccio.

C.M.

(Inferno I, 29)

Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

Piaggia in Dante, nelle varie occorrenze, ha un significato più ampio della nostra parola spiaggia, la quale peraltro ha la medesima etimologia, con in più il prefisso s-. La piaggia, in italiano antico, non era solo quella marina, ma in italiano moderno piaggia non è più in uso. La spiaggia ora è solo quella legata alle vacanze; ma girando per l'Italia è possibile incontrare molti toponimi e microtoponimi che tramandano ancora la piaggia nel significato dantesco.

C.M.

(Inferno XXI, 89)

E 'l duca mio a me: "O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi".

Dante si trova nella bolgia dei barattieri, coloro che in vita approfittarono della loro carica pubblica per arricchirsi illegalmente, macchiandosi di quello che oggi diremmo reato di concussione. Il luogo è spaventoso: i Malebranche straziano i dannati gettandoli nella pece bollente e torturandoli fisicamente e moralmente, in un’atmosfera di puro terrore. In un contesto tanto inospitale, è facile comprendere come Dante segua il consiglio di Virgilio (“Acciò che non si paia che tu ci sia, mi disse, giù t'acquatta dopo uno scheggio” ‘per non farti vedere, rannicchiati dietro una roccia”, vv. 58-60) e si sistemi, quatto quatto, a osservare la scena là dove spera di esserne al riparo. Attestata per la prima volta nella Commedia, lemmatizzata già nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), quatto significa ‘chinato e raccolto’: “come fa la gatta quando uccella, che si stiaccia in terra per non esser veduta”, commenta il Borghini. Nell’italiano contemporaneo la parola è particolarmente viva nella stessa forma iterata e dal valore avverbiale in cui la usa Dante, quatto quatto.
La parola deriva probabilmente dal latino coactus, participio passato di cogere ’raccogliere’, che è anche alla base dell’inglese squat ‘posizione accovacciata’, oggi molto diffuso anche in italiano: lo sanno bene i nostri lettori più sportivi.

S.C.

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(Purgatorio III, 15)

[...] la mente mia, che prima era ristretta,
lo ‘ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ‘l viso mio incontr’al poggio
che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga.

Dislaga è uno dei tanti neologismi danteschi, formato, come il gemello dismaga nella terzina precedente ("l’onestade ad ogn’altro atto dismaga" ‘diminuisce la dignità ad ogni atto’), e come altri verbi della Commedia (disgrava, dismala, dispaia, disuna, ecc.) con il prefisso dis-, che indica separazione. Il suo significato più proprio e trasparente in questa unica occorrenza è, quindi, ‘esce, emerge dal lago, cioè dall’acqua’ (si veda il Vocabolario dantesco), in riferimento al monte che più alto di ogni altro si erge verso il cielo, come Dante precisa in Paradiso XXVI, 139, definendo il purgatorio "il monte che si leva più da l’onda". Più cervellotica, e improbabile, l’interpretazione semantica diversa della parola dislaga che si legge in alcuni dei commentatori della Commedia, secondo cui il verbo vale qui ‘si dilata’.

I.B.

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(Inferno XXVII, 33)

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: "Parla tu; questi è latino".

Dante viene sospinto da Virgilio a parlare con Guido da Montefeltro, il quale racconta la propria drammatica storia, che lo ha portato all’Inferno tra i consiglieri fraudolenti: diversamente dal greco Ulisse, protagonista del canto precedente, Guido è latino, cioè ‘italiano’: in questo come in altri passi dell’Inferno e del Purgatorio, latino vale infatti ‘italiano’, secondo un uso dei primi secoli che sottolinea la continuità tra l’Italia antica e l’Italia medievale. Nel Paradiso invece latino assume significati diversi: come sostantivo, vale ‘linguaggio’ (Paradiso X, 120: "quello avvocato dei tempi cristiani [Orosio] / del cui latino Augustin si provide"), ‘discorso’ (Paradiso XVII, 35: "per chiare parole e con preciso / latin rispuose quello amor paterno"); come aggettivo significa ‘chiaro’ (Paradiso III, 63: "ma ora m’aiuta ciò che tu mi dici, / sì che raffigurar m’è più latino"). Italiano, che Dante, come Petrarca, non usa, era pochissimo attestato al suo tempo, e si affermerà poco dopo, a partire dai testi in prosa. Dante, per riferirsi all’Italia, ben presente nella Commedia (ricordiamo la forza dell’invettiva "Ahi, serva Italia, di dolore ostello!", Purgatorio VI, 76), anche se non come concetto politico, usa, oltre a latino, l’aggettivo italico (Paradiso IX, 26: "In quella parte de la terra prava / italica che siede tra Rialto"; Paradiso XI, 105: "reddissi al frutto dell’italica erba").

I.B.

(Paradiso XXVI, 76)

[...] così de li occhi miei ogne quisquilia
fugò Beatrice col raggio d'i suoi,
che rifulgea da più di mille milia [...]

Dopo essere stato abbagliato, Dante riesce di nuovo a vedere distintamente grazie al raggio rifulgente dello sguardo di Beatrice che rimuove ogni quisquilia, cioè ogni minima impurità, dai suoi occhi, preparandoli alla visione divina. Per riferirsi alla concretezza dei corpuscoli che - anche in senso figurato - gli impediscono di vedere chiaro, Dante ricorre direttamente a una parola latina, in rima con altri due latinismi, vigilia e milia. In senso letterale, le quisquilie sono i minuscoli frammenti volanti di foglie e rametti, compresi i residui delle granaglie ventilate sull’aia, cioè le tipiche pagliuzze che possono finire in un occhio (ricordate anche nei Vangeli) e per estensione qualsiasi corpuscolo di origine vegetale. A partire da questa accezione più estesa, quisquilia ha assunto il senso, oggi prevalente, di inezia, forse proprio per effetto del testo dantesco che ha veicolato il latinismo in italiano. Perciò la parola si trova spesso in coppia con bazzecola, sia nella lingua letteraria, sia nelle riprese parodiche dei comici (si pensi a Totò, che aggiungeva anche le pinzellacchere). Tuttavia, ancora nell’Ottocento, in scritti tecnici di oculistica o di entomologia, in riferimento a insetti frammisti alle quisquilie, risalta talvolta il significato materiale, a conferma di una sporadica continuità della parola nell’uso, riecheggiata anche in qualche dialetto e nella grafia quisquiglia che (come accade per miglia) riflette appunto la pronuncia corrente del latinismo.

N.D.B.

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(Inferno X, 25)

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto.

Farinata riconosce Dante come suo conterraneo, identificandolo precisamente come fiorentino ("di quella nobil patria natio") per il suo modo di parlare. Loquela è una parola latina usata nel Convivio e in altri versi del poema (Paradiso XXVII, 134 e XXIX, 131) nel senso di ‘idioma’ o di ‘facoltà di linguaggio’. Il v. 25 allude qui, con una citazione letterale, al passo del Vangelo (Matteo 26, 73) in cui Pietro è riconosciuto come seguace di Gesù proprio per la sua parlata: "loquela tua manifestum te facit". Non è impossibile che tale citazione, attribuita da Dante a Farinata, fosse in qualche modo diffusa nella comunicazione corrente (come accade tuttora per molte frasi dei Vangeli), in riferimento al fatto che nella variabilità geografica della realtà linguistica italiana non era difficile riconoscere le origini di una persona dal suo modo di parlare. Del resto, anche il pisano Ugolino, sentendo parlare Dante si accorge che è fiorentino ("ma fiorentino / mi sembri veramente quand’io t’odo", Inferno XXXIII, 11-12). La variabilità dei volgari, descritta nel de vulgari eloquentia, secondo l’autore, è destinata a essere superata nella scrittura letteraria, ma il personaggio Dante, nella comunicazione parlata a cui allude l’opera, mostra evidentemente segni riconoscibili del suo volgare municipale materno. Una ripresa di questi versi (e del passo evangelico) si coglieva nei Promessi sposi del 1827 (cap. 8) a proposito della "loquela" di un bravo del contado di Bergamo, che avrebbe dovuto far credere ad Agnese che il tentativo di rapimento di Lucia "proveniva da quella parte". Nell’edizione definitiva Manzoni sostituisce loquela con linguaggio, ma permane il riferimento alla variabilità linguistica tra le diverse località, anche all’interno di una stessa area regionale.

N.D.B.

(Purgatorio XXXI, 129)

Mentre che piena di stupore e lieta
l'anima mia gustava di quel cibo
che, saziando di sé, di sé asseta [...]

Assetare è un verbo parasintetico derivato dal sostantivo sete con l’aggiunta del suffisso ad- e la desinenza -are. Pur non essendo un’invenzione dantesca, a differenza di molti altri verbi analoghi (è attestato infatti già prima del 1311), è utilizzato altre due volte nel poema (Paradiso I, 33; III, 72) non nel senso proprio di ‘mettere sete’, ma con quello figurato di ‘rendere bramoso di qualcosa’, che si ritrova anche in questo passo del Purgatorio. Dante osserva il grifone che si riflette negli occhi di Beatrice, come se fossero specchi: la bestia resta immobile e immutata, mentre la sua immagine riflessa varia continuamente, mostrando ora la sua natura di aquila, ora quella di leone. La meraviglia è tale che lo spettacolo che Dante avidamente osserva non rende paga la sua anima, come un cibo che, pur saziando, accresce sempre di più la voglia di sé in chi lo gusta.

E.A.

(Inferno X, 93)

Ma fu' io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto.

“A viso aperto”: per indicare il coraggio e la nobiltà del gesto di Farinata, che si oppose da solo alla distruzione di Firenze, Dante attinge al linguaggio delle giostre cavalleresche. In queste contese il combattente che voleva intervenire per vincere e ottenere come premio la liberazione di una persona che riteneva ingiustamente condannata, poteva presentarsi o con la visiera dell’elmo abbassata, condizione che lo rendeva irriconoscibile, o con la visiera alzata, che faceva vedere il suo viso. Era questo il gesto più onorevole.

F.S.

(Inferno VII, 104)

L'acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giù per una via diversa.

Il termine di colore bigio è sostanzialmente sinonimo di grigio, e può indicare una sfumatura che dà sul cenere o una tonalità genericamente scura; è attestato in italiano già prima di Dante, a fine Duecento. È probabilmente un derivato del francese e provenzale bis e la sua etimologia è molto discussa. Dante usa il cromonimo in un passo in cui dominano atmosfere cupe e tenebrose: il poeta e Virgilio sono accompagnati nel loro cammino dal corso di un ruscello perso dalle onde bige che, scorrendo lungo "piagge grige" (v. 108; da notare la rima con il termine quasi sinonimo) si immette nella palude Stigia, nel cui pantano spiccano le anime degli iracondi, intente a percuotersi a vicenda.

E.A.

(Inferno XVIII, 24)

A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.

Il termine bolgia, dall’antico francese bolge o bouge, vuol dire propriamente ‘tasca’, ‘borsa’, significato che è tuttora in uso in Toscana nel diminutivo bolgetta, mentre bolgia indica oggi piuttosto, in sartoria, la ‘piega o il rigonfiamento di un abito’. Ma Dante ha dato alla voce un nuovo significato, quello di ‘fossa’, con riferimento alle dieci fosse circolari e concentriche dell’ottavo cerchio dell’Inferno, chiamato appunto Malebolge. Grazie all’uso dantesco, la parola è entrata nel linguaggio comune appunto con il senso di ‘fossa infernale’ e poi, più in generale, con il significato di ‘luogo di peccato e di sofferenza’ e, soprattutto, con quello di ‘confusione, disordine’ o di ‘calca, affollamento di gente’. Oggi la riferiamo spesso al traffico cittadino.

F.S.

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(Inferno XXI, 20)

I' vedea lei, ma non vedea in essa
mai che le bolle che 'l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.

Dante, appena entrato nella V bolgia, dove sono i barattieri, scorge una pozza di nera pece, che straborda lungo le rive e la rende "mirabilmente oscura" (v. 6). In questo fossato colmo di liquido denso che ribolle sono immersi i peccatori; il poeta però non riesce a vederli immediatamente: le bolle e i sommovimenti sono tali da nascondere le anime ai suoi occhi. In questo passo Dante descrive accuratamente i moti della pece bollente, tanto che il lettore riesce quasi a sentirne il rumore. L’uso del sostantivo bollore (derivato del verbo bollire e attestato dalla fine del XIII secolo) ha infatti, insieme a bolla e bollia (v. 17) una funzione onomatopeica, che richiama appunto il suono di bolle d’acqua che scoppiano; i due sostantivi e il verbo si legano all’interno di una figura retorica di derivatio. Molto potente è anche il verso successivo, in cui Dante mostra il continuo alzarsi e abbassarsi dell’enorme massa scura.

E.A.

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(Inferno XXVIII, 107)

[...] gridò: "Ricordera'ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta",
che fu mal seme per la gente tosca".

Sia pur leggermente modificato in “Cosa fatta capo ha”, una cosa fatta chiude la vicenda, anche questo modo di dire è giunto da Dante fino a oggi. È un detto fiorentino, di cui parlano già i cronisti coevi al poeta, che lo attribuiscono a un fatto avvenuto ai primi del Duecento, quando un giovane dei Buondelmonti ruppe il fidanzamento con una giovane degli Amidei. Discutendosi molto sul modo di punire il fedifrago, un partigiano degli Amidei, tal Mosca de’ Lamberti, avrebbe proposto senza mezzi termini di farlo ammazzare, pronunciando il fatidico detto.

F.S.

(Inferno II, 1)

Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno [...]

L’aggettivo bruno è cronologicamente il primo ad essere entrato nell’italiano antico per definire l’area di colore bruno-marrone, assente nella lingua latina, che possedeva solo termini indicanti genericamente tonalità scure, più o meno prossime al nero o al rosso. Bruno deriva dal germanico *bruna- ‘colore scuro, bruno’, è attestato dalla fine del XII secolo ed è stato introdotto in italiano forse per indicare il colore del manto equino. Oltre ad essere il termine principale per definire la tonalità di marrone, poteva anche avere il significato generico di ‘scuro, tendente al nero’ ed è proprio con questa accezione che viene utilizzato da Dante. L’"aere bruno" è infatti il crepuscolo, che accoglie il poeta all’inizio del secondo canto infernale e che solleva, inducendoli al sonno, tutti i viventi dalle fatiche quotidiane.

E.A.

(Paradiso XXI, 94)

[...] però che sì s'innoltra ne lo abisso
de l'etterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso.

San Pier Damiano risponde a Dante dicendogli: “quello che chiedi va talmente addentro nella profondità dei disegni eterni di Dio da restare molto lontano dalla vostra capacità di comprensione”. Nasce così il verbo inoltrarsi che da allora ha continuato a circolare, privato di una n superflua, con il significato comune di “andare oltre, avanzare su una strada” o di “penetrare in un ambiente”. E ha generato anche la forma attiva senza il pronome riflessivo, inoltrare, con il significato, molto diffuso oggi, di “far procedere una pratica”, “presentare una domanda a un ufficio”. Dal dialogo teologico al gergo burocratico!

F.S.

(Inferno XXI, 57)

Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.

Nel canto XXI dell’Inferno Dante descrive animatamente le attività dei diavoli, che sono i protagonisti assoluti di quella che potremmo definire una specie di farsa giullaresca. L’immagine culinaria che Dante evoca è uno dei passi più celebri del canto: i diavoli che sospingono le anime nella pece sono paragonati a cuochi che, con i loro uncini, tuffano la carne nel brodo, facendo in modo che essa non galleggi e favorendone dunque la cottura. L’immagine è realistica, concreta e attinge all’esperienza della vita quotidiana: il poeta utilizza infatti un lessico trasparente, di uso comune, sicuramente familiare a tutti i lettori. Di questa tipologia è anche il sostantivo carne, parola appartenente al lessico fondamentale, derivata direttamente dal latino carnem (accusativo di caro) e attestata già dalla fine del XII secolo.

E.A.

(Inferno III, 51)

Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Il verso 51 è uno dei più celebri e popolari della Commedia: “non soffermiamoci nemmeno a parlare di costoro (degli ignavi, che non meritano attenzione), da' solo un’occhiata e va' avanti”; ma, singolarmente, è stato ricordato ed è divenuto quasi proverbiale in una forma che modifica un po’ il testo di Dante: “non ti curar di lor, ma guarda e passa”, espressione del disprezzo per chi non vale nulla.

F.S.

(Paradiso III, 92)

Ma sì com'elli avvien, s'un cibo sazia
e d'un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia [...]

Il sostantivo gola, che deriva dal latino gulam, è un termine di alto uso, attestato già dalla fine del Duecento. Oltre ad avere, in senso proprio, accezione anatomica, può indicare anche l’ingordigia di cibi e bevande, un peccato capitale punito nel terzo cerchio dell’Inferno. Ma questo passo è ben distante dalle anime dannate dei golosi: ci troviamo nel III canto del Paradiso, nel cielo della Luna, in cui Dante incontra la beata Piccarda, sorella di Forese Donati. Il termine è inserito in una delle similitudini legate al cibo e al mangiare, spesso usate per descrivere la bramosia di sapere e l’appagamento che ne deriva. Dopo aver ascoltato la risposta di Piccarda riguardo la pace eterna di cui godono i beati, Dante la ringrazia e si appresta anche a chiederle quale sia la sua storia terrena, al pari di un uomo che, sazio di un determinato cibo, ringrazia chiedendone un altro, di cui resta ancora il desiderio insoddisfatto.

E.A.

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(Inferno X, 120)

Dissemi: "Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio".

"E de li altri mi taccio”: perché quel mi oggi grammaticalmente superfluo (diremmo: taccio!), ma capace, ai nostri orecchi, di conferire espressività? Una scelta stilistica di Dante? In realtà per l’italiano del suo tempo questa forma del verbo era assolutamente normale, perché la forma pronominale dei verbi era molto più usata di oggi: si diceva tacersi, pensarsi, starsi, ecc. e perfino essersi e morirsi. A volte questi usi sono rimasti nascosti in qualche combinazione di parole (qual-siasi, dove il secondo segmento nasconde la forma essersi) o affiorano in espressioni colloquiali (statti fermo! invece di stai fermo!). Ma in altri casi, come questo, si riprendono a scopo espressivo, come quando, dopo un lungo discorso, diciamo, tra ironico e solenne: “e qui mi taccio”.

F.S.

(Inferno XIX, 14)

Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d'un largo tutti e ciascun era tondo.

La scena che apre il XIX canto dell’Inferno è desolata e pietrosa, così come tutto il resto del paesaggio delle Malebolge, caratterizzato da profondi crepacci concentrici ricolmi di peccatori. La pietra domina il suolo e le pareti ed è ricoperta di fori, in cui sono conficcati a testa in giù e con i piedi in fiamme i simoniaci: i venditori di indulgenze che dimorano nella III bolgia. Nella descrizione della pietra che ricopre l’intero crepaccio, Dante usa l’aggettivo livida (dal lat. lividum ‘bluastro, nerastro’, derivato di livere ‘essere livido’), che ha in questo caso accezione cromatica e indica per estensione un colore grigio plumbeo, scuro e cupo, che può tendere al nero o al verdastro. È cioè il "color ferrigno" (Inferno XVIII, 2) che pervade l’intero cerchio e che tornerà ancora nel "livido color de la petraia" in Purgatorio XIII, 9.

E.A.

(Inferno I, 132)

E io a lui: "Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch'io fugga questo male e peggio [...]"

Alla fine del canto I dell’Inferno Dante, già rassicurato da Virgilio che lo accompagnerà nel cammino nell’oltretomba, prega la sua guida di avviarlo al più presto in quel percorso, attraverso il quale potrà uscire dalla sua vita di peccato ed evitare la dannazione eterna. Dante definisce insieme il peccato e la dannazione con i termini di “male e peggio”, messi in coppia con valore di singolare: questo male e peggio. La fonte dell’espressione è molto probabilmente la Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino, nella quale il peccato e la dannazione sono nominati con la coppia di termini latini male et peius. Probabilmente dalla stessa fonte, mediata dalla predicazione ecclesiastica (e non direttamente dalla Commedia dantesca), dipende l’attribuzione del nome di maleppeggio (nelle regioni dell’Italia centrale, in particolare Lazio e Abruzzo, e in Sardegna) a un martello a due “penne”, l’una con il taglio piatto orizzontale e l’altra con il taglio piatto verticale, utilizzato dai muratori per battere sulle pietre in due modi diversi, con il taglio orizzontale che, se colpisce, fa male, e il taglio verticale che fa ancora più male. Insomma, è una strana coincidenza!

F.S.

(Paradiso XXVI, 65)

Le fronde onde s'infronda tutto l'orto
de l'ortolano etterno, am'io cotanto
quanto da lui a lor di bene è porto.

Il sostantivo ortolano (attestato dal XIII secolo, dal latino hortulanus, derivato di hortus ‘orto’) è utilizzato solo questa volta nella Commedia ed è inserito dal poeta all’interno di una metafora di origine evangelica, legata all’ambito semantico dell’agricoltura. In risposta alle domande che San Giovanni gli pone riguardo alla carità, una delle virtù teologali di cui si discute nel XXVI canto del Paradiso, Dante afferma di amare profondamente il creato e tutte le creature, tanto quanto Dio stesso le ama. In questo passo, infatti, le "fronde" di cui si "infronda" (verbo parasintetico di invenzione dantesca) "l’orto", cioè il mondo, sono tutti i viventi e "l’ortolano etterno" è Dio, che li crea e li nutre.

E.A.

(Purgatorio XIV, 43)

Tra brutti porci, più degni di galle
che d'altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.

Il passo si trova in uno dei canti del Purgatorio dedicati agli invidiosi, che accoglie quasi per intero un elevato discorso politico, in cui Guido del Duca descrive la corruzione della Toscana e della Romagna. Tutti gli abitanti della valle in cui scorre l’Arno, dice, sono vili come bestie, tanto che sembra quasi di intravedere il passaggio della maga Circe. Gli abitanti delle varie città sono paragonato a un animale, la cui principale caratteristica descrive i loro difetti morali. I casentinesi sono maiali (porci, dal latino porcum), indegni addirittura di mangiare cibo umano e destinati a nutrirsi soltanto di ghiande. Gli aretini sono poi "botoli" (v. 46), piccoli e fastidiosi cani; i fiorentini sono avidi "lupi" (v. 50); i pisani sono "volpi" (v. 53) maliziose.

E.A.

(Paradiso XXXII, 90)

Io vidi sopra lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante
create a trasvolar per quella altezza [...]

Trasvolare, 'volare su una grande distesa di terra o di acque' è parola nata con Dante, ben prima della moderna aviazione, anche se essa e i suoi derivati, come trasvolata e trasvolatore, sono usati con grande enfasi da scrittori e poeti del Novecento, come Gabriele d’Annunzio, pilota lui stesso, e i futuristi. Dante la usa per descrivere la scena degli angeli (chiamati "menti sante" 'pure intelligenze celesti') che avvolgevano di voli la Vergine Maria versando su di lei la gioia dell’amore di Dio.

F.S.

(Purgatorio I, 13)

Dolce color d'oriental zaffiro,
che s'accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro [...]

Alle soglie del Purgatorio, il tono del poema dantesco cambia improvvisamente: abbandonate le tinte forti e cupe dell’Inferno, che hanno "contristati li occhi e ’l petto" (v. 18) del poeta, si entra in un mondo dominato da bellezza, serenità e purezza. Ciò che colpisce subito gli occhi di Dante è il cielo, unica cosa visibile, che riempie il cuore della dolcezza di un colore, quello dell’"oriental zaffiro", che incarna pienamente lo spirito della nuova cantica. Il colore dello zaffiro, un azzurro limpido e trasparente, era paragonato a quello del cielo già nei lapidari medievali e il sostantivo, databile al 1225 circa e derivato dal latino sapphiru(m), a sua volta dal greco sáppheiros, assume, per metonimia, accezione cromatica già alla fine del Duecento.

E.A.

(Inferno V, 142)

[...] l'altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com'io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

Questa non è la morte di Dante, ma solo un suo svenimento di fronte a Paolo e Francesca, tuttavia simile alla morte. La Commedia è un viaggio nel regno dei morti, ma che conduce autore e lettore oltre alla morte, verso l'eternità spirituale e letteraria. Non a caso, la parola di ieri, ultimo giorno di Dante in vita, era "come l'uom s'etterna"; le due parole, di oggi e di ieri, vanno lette assieme.

C.M.

(Inferno XV, 85)

[...] m'insegnavate come l'uom s'etterna:
e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna. 

Nel Tresor di Brunetto Latini, nel volgarizzamento di Bono Giamboni, si leggono le seguenti parole: "quelli che trattano di grandi cose testimoniano, che gloria dona al prode uomo una seconda vita, cio è a dire che, dopo la sua morte, la nominanza che rimane di sue opere buone mostra che egli sia ancora in vita".

C.M.

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(Purgatorio XXIV, 61)

[...] che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l'uno a l'altro stilo.

In questi celebri e importanti versi, il poeta Bonagiunta da Lucca precisa che, se uno si mettesse a esaminare a fondo ("a gradire oltre") le differenze tra il "dolce stil novo" e il vecchio "stilo" (in cui lui si riconosce), non vedrebbe tra i due altra differenza che quella data dalla maggior fedeltà del primo alla tematica e al linguaggio d’Amore. Gradire è qui un latinismo (gradior), col significato di 'camminare', 'procedere', 'avanzare' e non appartiene alla famiglia di gratum (grato), come il nostro abituale gradire, apprezzare, ma a quella di gradum ('passo', 'gradino'); non ha avuto fortuna propria, ma ha lasciato traccia in verbi comuni come aggredire e regredire. La lezione gradire è stata a lungo controversa (alcuni codici ed editori hanno adottato la variante più banale riguardar), ma resta l’ennesimo segno della ricchezza, nella Commedia, del serbatoio latino.

V.C.

(Inferno I, 28)

Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

Dopo che ebbi (ei) riposato un po’ il corpo stanco, dice Dante con un aggettivo di grande fortuna poetica: lasso, cioè 'stanco', 'affranto', 'misero', molto frequente nella Commedia e sopravvissuto a lungo, specie nel teatro tragico e lirico, anche nella forma esclamativa preceduta da oh, ah, come nel celebre verso 112 del V dell’Inferno, quando il poeta si turba e commuove davanti a Paolo e Francesca: "Oh lasso/ quanti dolci pensier, quanto disio/ menò costoro al doloroso passo".

V.C.

(Purgatorio II, 10)

Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.

Lunghesso è preposizione dell’italiano antico, col valore di 'lungo', 'accanto a'. Lungo è rafforzato da esso, spesso impiegato nella lingua medievale in funzione rafforzativa ('proprio'), sia agganciandosi a preposizioni (sovresso, sottesso) che precedendo pronomi e nomi (anche seguito da articolo), come in Purgatorio IV, 27: "Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,/ montasi su in Bismantova e ‘n Cacume/ con esso i piè".

V.C.

(Paradiso XIV, 93)

E non er'anco del mio petto essausto
l'ardor del sacrificio, ch'io conobbi
esso litare stato accetto e fausto [...]

“Non si era ancora esaurito nel mio petto l’ardore della devozione, che mi resi conto che quel sacrificio era stato accettato e aveva avuto esito felice”: sono versi gremiti di colti latinismi (tra cui anche la costruzione della dipendente da conobbi con l’infinito): tra questi litare, verbo latino ripreso pari pari da Dante col suo senso di 'offrire', 'sacrificare felicemente', preceduto da esso, qui, come non raramente nell’italiano antico e letterario, in funzione non di pronome personale, ma di aggettivo dimostrativo.

V.C.

(Inferno X, 104)

Ma quell'altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa [...]

Per completare il celebre ritratto di Farinata, Dante usa l’aggettivo magnanimo, che, se per noi oggi ha il significato generico di 'generoso', 'indulgente', per lui rappresentava una categoria morale precisa, descritta da Aristotele e da S. Tommaso, e indicava chi è e si ritiene di essere degno di grandi cose; davvero, come recita l’etimo della parola, 'di animo grande' (magnus animus), opposto al pusillanime, 'di animo piccolo', 'vile'. Nello stesso spazio semantico del magnanimo si collocava anche il Magnifico, la cui natura, scriveva Brunetto Latini, "si è ch’egli è maggiormente sollecito acciò che’ suoi fatti si facciano con grande onore".

V.C.

(Paradiso II, 34)

Per entro sé l'etterna margarita
ne ricevette, com'acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.

La margarita o margherita qui è metafora della Luna, identificata in una pietra preziosa, che splende, secondo il significato latino originario della parola: ‘perla’. Solo molto più tardi, nel Rinascimento, diventa anche il nome del comune fiore. Il Vocabolario della Crusca lo registra nel significato botanico soltanto a partire dalla terza edizione del 1691; prima lo conosce esclusivamente come altro nome della gemma, di ciò che è prezioso e brilla, proprio com’era per Dante.

V.C.

(Purgatorio XVI, 69)

Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.

La necessitate, la necessità, l’inevitabilità teorizzata dal determinismo, è qui stigmatizzata da Marco Lombardo. Si tratta di un concetto molto importante nella filosofia di Dante, che lo esprimeva in due forme dalla stessa radice: in rima, come qui, quella latineggiante necessitate (presente nel Convivio anche nella forma volgarizzata di necessitade) e, fuori rima, quella pienamente volgare e tronca necessità, come in Paradiso XVII, 40: "necessità però quindi non prende".

V.C.

(Purgatorio XIV, 105)

Non ti maravigliar s'io piango, Tosco,
quando rimembro, con Guido da Prata,
Ugolin d'Azzo che vivette nosco [...]

Ugolino d’Azzo, nel ricordo di Guido del Duca, “vivette nosco”, visse tra noi, con noi (in Romagna): nosco è forma dell’italiano antico, dal latino nobiscum, 'con noi', "con esso no’", chiosava nel Trecento il Buti, che evidentemente riteneva già allora utile spiegare la parola ai contemporanei. Si tratta di un pronome personale composto con cum enclitico, come meco, teco, vosco, di cui Dante faceva comunemente uso.

V.C.

(Inferno VI, 66)

E quelli a me: "Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con molta offensione".

Ciacco anticipa i disastri di Firenze e la “molta offensione” che i Neri subiranno dai Bianchi. Offensione è variante dotta e latineggiante del comune offesa. Deriva dal latino offensiooffensionis, corradicale del più diffuso offensa, da cui l’italiano offesa, che Dante usa anche nella forma più latineggiante offensa (Paradiso IV, 108).

V.C.

(Paradiso XIV, 99)

Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno [...]

La terzina in cui appare il termine galassia costituisce la prima parte di una similitudine con la quale Dante paragona la via lattea ai beati del cielo di Marte. La prima, distesa tra i poli della terra, biancheggia di notte per la moltitudine di stelle che la compongono, i secondi irradiano allo stesso modo una luce abbagliante, ma si dispongono a formare nel cielo il "venerabil segno" della croce. Il termine, di ambito astronomico, era già stato usato e a lungo spiegato nel Convivio, ma sono i versi della Commedia a fissarlo, grazie all’immagine suggestiva in cui è inserito, nella mente e nella memoria del lettore.

R.L.

(Paradiso XV, 63)

Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi [...]

Il pensiero, spiega Cacciaguida, si manifesta ancora prima di essere pensato nello speglio, nello specchio di Dio: pandi è da pandere, altro puro latinismo di Dante: significa 'manifestare', 'esprimere'. Nella Commedia (Paradiso XXV, 20) ha come oggetto anche l’affezione che un colombo mostra al compagno "girando e mormorando" intorno a lui. Pandere sopravvive in italiano nei suoi discendenti, come quelli della famiglia di espandere.

V.C.

(Paradiso VIII, 115)

Ond'elli ancora: "Or dì: sarebbe il peggio
per l'omo in terra, se non fosse cive?".
"Sì", rispuos'io; "e qui ragion non cheggio".

È questo uno dei 126 casi in cui un verso della Commedia si apre con onde, che nel poema ha oltre 250 attestazioni, sia in funzione di pronome interrogativo (propria del lat. unde, da cui deriva), sia con quella di pronome relativo, nel senso di ‘da cui’, ‘di cui’, ‘con cui’ (che manterrà a lungo nei secoli, specie in poesia), sia soprattutto come congiunzione coordinativa, con valore di volta in volta casuale (‘pertanto’), consecutivo (’cosicché’) o di semplice collegamento tra frasi, analogo a quello di e. In 23 casi introduce un discorso diretto, in una frase priva di verbo: ond’elli (a me), ond’io (a lui o a lei), come nel passo del Paradiso riportato, in cui, nel cielo di Venere, Carlo Martello invita Dante a riflettere su quanto sia importante per l’uomo essere cittadino, vivere cioè in società.

 

P.D'A.

(Purgatorio XXX, 54)

[...] né quantunque perdeo l'antica matre,
valse a le guance nette di rugiada
che, lagrimando, non tornasser atre.

È questa una delle tre occorrenze nella Commedia dell’aggettivo atro, documentato una sola volta prima di Dante, un latinismo che indica un termine di colore. Il latino distingueva infatti ater ‘nero opaco’ da niger ‘nero lucido’ (così come albus ‘bianco opaco’ si contrapponeva a candidus ‘bianco splendente’), ma nel passaggio al volgare la distinzione si perse, con generalizzazione di nero/negro. In Dante atro, oltre al significato di ‘nero’ (che sembra mantenere in Inferno VI, 16, dove si riferisce alla barba unta di Cerbero, probabilmente in contrapposizione agli occhi vermigli), ha anche quello di ‘funesto, terribile’ (come in Paradiso VI, 78, dove è usato per la morte subitana della trista Cleopatra); proprio grazie agli esempi danteschi, l’aggettivo verrà usato in entrambi i sensi, spesso sovrapposti, nella letteratura posteriore (anche nella variante sonorizzata adro, forma settentrionale documentata nella stessa tradizione manoscritta della Commedia). Nel passo del Purgatorio Dante è restato solo, senza la guida di Virgilio, nel paradiso terrestre e si abbandona a un pianto che neppure le delizie del paradiso terrestre concesse ad Eva avrebbero potuto impedire: l’aggettivo atre è riferito alle sue guance, che la rugiada aveva ripulite dalla caligine infernale ma che ora tornano a sporcarsi, segnate dalle lacrime del poeta.

 

P.D'A.

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(Inferno XXVIII, 26)

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.

In una delle terzine più espressive dell’intera Commedia, Dante descrive (siamo nella nona bolgia) come appaiono i seminatori di discordia, i quali hanno la parte anteriore del corpo squarciata e lasciano in vista la corata, ovvero l’insieme degli organi interni (cuore, polmoni, fegato, milza). Oggi sopravvive l’alterato coratella, con cui si indicano i visceri commestibili di piccoli animali.

C.G.

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(Purgatorio XXXII, 32)

Sì passeggiando l'alta selva vòta,
colpa di quella ch'al serpente crese,
temprava i passi un'angelica nota.

Crese per credette ('diede retta') è un passato remoto sigmatico di credere, formato per analogia (come il ruolo del lat. perdidi è stato coperto in italiano da perdetti, perdei ma anche da persi, così quello di credidi, lo era stato da credetti, credei e anche da cresi) e attesta una morfologia antica del verbo, presto abbandonata dalla lingua, ma conservata da alcuni dialetti centrali (Rohlfs 581).

V.C.

(Purgatorio XIV, 43)

Tra brutti porci, più degni di galle
che d'altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.

Nella sprezzante descrizione del Casentino, alle fonti dell’Arno, Dante ne qualifica gli “abitator” come porci, a cui somiglianza mangiano non cibo umano ma galle, 'ghiande'. La parola galla è un tecnicismo del latino scientifico, in cui indicava (lo fa anche oggi in italiano) le escrescenze patologiche delle piante. Da lì era passata a designare la ghianda. Oggi la parola ci è più nota nella locuzione a galla, 'in superficie' (dell’acqua), nata dalla leggerezza delle galle.

V.C.

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(

Paradiso XXII, 151

)

L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom'io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve da' colli a le foci [...]

Anche in Paradiso XXVII, 86: “E più mi fora discoverto il sito / di questa aiuola”. Dante usa due volte questa metafora (aiuola = piccola aia) per sottolineare l’infinitesima piccolezza della Terra vista dall’altezza infinita del cielo. Il confronto tra la piccolezza della Terra e l’infinità dell’universo è presente in diversi autori classici e anche volgari, anche se il punto di riferimento di Dante pare Boezio.

C.G.

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(Paradiso VI, 118)

Ma nel commensurar d'i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi.

Confrontare i premi ricevuti a ciò che abbiamo fatto è parte della nostra gioia, dice Giustiniano, perché non sono né minori né maggiori (del giusto). Premi è dunque qui gaggi, plurale di gaggio, un gallicismo attestato nella lingua del Trecento nel senso di 'pegno', 'garanzia' (ce n’è traccia nel nostro ingaggio). Dante lo usa invece nel senso di 'premio', 'ricompensa', forse spiegabile col fatto che a volte il gaggio veniva dato al vincitore di un torneo, come si legge in un passo della Cronica di Matteo Villani.

V.C.

(Inferno XXI, 117)

Io mando verso là di questi miei
a riguardar s'alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei.

L’ordine di Malacoda ai due poeti è espresso dall’imperativo gite, 'andate': un residuo del verbo latino ire (che Dante riprende in volgare ripetutamente e alterna, come in questi versi, con la forma più popolare gire), soppiantato in italiano da andare, ma sopravvissuto nella lingua poetica con una certa fortuna. Per il lettore moderno le forme coniugate di gire attestate nella Commedia sono di non facile decifrazione: gio, 'andò', gimmo, 'andammo', gia, 'andava', e a volte, come qui, o in gita, 'andata' (Inferno XVI, 69), hanno l’equivoco aspetto di “falsi amici”.

V.C.

(Inferno XXVI, 42)

[...] tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra 'l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.

Nel celebre canto di Ulisse, i peccatori sono sottratti alla vista dalla fiamma che li avvolge. Invola significa 'sottrae' e in effetti il significato antico di involare, a lungo rimasto in poesia, è quello, già latino, di 'rubare' (cfr. francese voler), mentre nel Trecento era minoritario quello oggi consueto di 'prendere il volo'. Nella Commedia è attestato anche nella forma più popolare imbolare (Inferno XXIX, 103).

V.C.

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(Inferno XXIX, 2)

La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebriate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.

Il verbo inebriare, da ebrius, 'ebbro', all’inizio, etimologicamente, 'ubriacarsi', ha assunto presto e poi conservato solo quello traslato dello stordimento piacevole (ebbrezza) che dà una sensazione. Tale è il significato che ha in Paradiso XXX, 67 (dove sono gli odori a inebriare) e XXVII, 3 (dov’è il canto). Qui, invece, Dante lo usa per esprimere una sensazione visiva dolorosa, che induce addirittura al pianto.

V.C.

(Purgatorio XXXII, 31)

Sì passeggiando l'alta selva vòta,
colpa di quella ch'al serpente crese,
temprava i passi un'angelica nota.

Anche se altrove nella Commedia passeggiare è costruito intransitivamente, come quasi sempre oggi, in questi versi (e non solo) il verbo ha costruzione transitiva e a Inferno XVII, 6 ha addirittura forma passiva ("vicino al fin d’i passeggiati marmi"). Anticamente il verbo valeva anche semplicemente 'camminare', come in Purgatorio XXXI, 30.

V.C.

(Paradiso XXII, 78)

Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.

Dante parla di farina una sola volta nella Commedia, nella nostra terzina; e curiosamente lo fa in negativo: si tratta infatti di farina ria. In questa immagine, che descrive la decadenza degli ordini monastici, i conventi (le mura) si trasformano nelle spelonche dei ladroni di evangelica memoria, e le cocolle (le tonache monacali) diventano sacchi di farina guasta. Viene subito in mente il proverbio la farina del diavolo se ne va tutta in semola o la farina del diavolo va tutta in crusca, un proverbio antico attestato anche nella raccolta cinquecentesca di Serdonati (nella prima variante con semola) e poi depositatosi nella memoria collettiva fino a oggi. Dante non usa mai la parola crusca, né usa semola: ma in questa terzina è come se lo facesse, puntando sulla farina di scarto più che sul suo fiore, come faranno gli accademici della Crusca secoli dopo. Naturalmente il verso è citato fra gli esempi del Vocabolario fin dalla sua prima edizione, alla voce farina "Grano, o biada macinata".

M.B.

(Purgatorio XXX, 70)

[...] regalmente ne l'atto ancor proterva
continuò come colui che dice
e 'l più caldo parlar dietro reserva.

Chi è proterva qui è sorprendentemente (per noi) Beatrice, ma il senso dell’aggettivo non è quello di 'arrogante' che ci è noto e già lo era al Dante delle Rime, ma quello di 'nobilmente altero', 'fiero', 'sdegnoso', attestato anticamente e poi perduto. In Purgatorio XXVII, 77 protervo vale invece 'inquieto', 'irrequieto' ed è usato per "le capre, rapide e proterve". Lo spostamento di significato della parola, verso una connotazione positiva, è attestato, sia pur con senso un po’ diverso, anche nell’Orlando Furioso XII (dove è Angelica a ridersi “proterva” dei suoi inseguitori).

V.C.

(Paradiso XVI, 145)

Ma conveniesi, a quella pietra scema
che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.

Dante in questo verso allude alla statua mutila di Marte che si trovava nei pressi di Ponte Vecchio e vicino la quale fu ucciso Buondelmonte, evento dal quale Dante fa nascere l’inizio delle guerre intestine a Firenze. In questo verso l’aggettivo scema vale ‘priva di alcune parti’, e con tale significato, o altri affini, il poeta lo usa (sempre in rima) in altri luoghi della Commedia. Anche in riferimento a concetti e qualità astratte, l’aggettivo scemo suggerisce un’idea di carenza, di mancanza; un solo esempio tratto da Purgatorio XVII, 85: “Ed elli a me: L’amor del bene, scemo / del suo dover”; il riferimento è agli accidiosi il cui amore del bene è privo del dovere, e quindi è debole, manchevole.

C.G.

(Inferno XXVIII, 26)

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.

Nella descrizione dei dannati seminatori di discordia e degli scismatici Dante elenca gli organi anatomici di costoro, messi in bella mostra dai loro corpi squarciati. Il tristo sacco è lo stomaco; l’aggettivo tristo vale ‘ripugnante’, perché Dante gli attribuisce le funzioni proprie dell’intestino.

C.G.

(Paradiso VIII, 97)

Lo ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.

Dante usa qui (una sola volta) un latinismo appena adattato alla morfologia dell’italiano: scandi, 'sali', “monti” (come chiosava il Buti), dal latino scandere, 'salire', continuato solo nell’attuale scandire, sviluppatosi nel lessico grammaticale (nel significato di 'muovere in pendenza' il verbo continua oggi in di-scendere, a-scendere, tra-scendere). La costruzione transitiva per un verbo di moto non era inusuale. Nello stesso canto, al v. 106, si legge: "il ciel che tu cammine" (cfr. anche Purgatorio XXXII, 31 passeggiare).

V.C.

(Inferno XXXIV, 97)

Non era camminata di palagio
là 'v'eravam, ma natural burella
ch'avea mal suolo e di lume disagio.

Dante usa qui in rima palagio invece di palazzo (che compare in Purgatorio X, 68 e Paradiso XXI, 8). Entrambe le forme derivano da Palatium, il nome di uno dei sette colli di Roma dove aveva sede la reggia imperiale, che divenne nome comune passando a indicare prima, appunto, la reggia (pensiamo al palazzo di Diocleziano a Spalato e a quello di Carlo Magno ad Aquisgrana) e poi, più in generale, qualunque edificio sontuoso e monumentale. Nel contesto, Dante usa il termine per dire che la cavità naturale in cui sta scendendo con Virgilio nel fondo dell’Inferno (burella), buia e difficile da percorrere, è tutt’altra cosa dalla sala maggiore (camminata, così detta per la presenza del camino, anticamente anche cammino) di un palazzo signorile. La forma palagio, diffusa per secoli nell’uso letterario, oggi si conserva solo per indicare alcuni edifici storici di Firenze come il Palagio di Parte Guelfa e, soprattutto in Toscana, come nome proprio di alberghi, ristoranti, tenute e castelli.

P.D'A.

(Purgatorio XXXII, 33)

Sì passeggiando l'alta selva vòta,
colpa di quella ch'al serpente crese,
temprava i passi un'angelica nota.

Il verbo temprare/ temperare aveva per Dante non solo il significato di 'correggere', 'mitigare gli eccessi', 'mescolare cose diverse in giuste proporzioni', ma anche quello tecnico musicale di 'accordare' (come in Paradiso I, 78) e quindi pure, come nel verso citato, di 'regolare', di 'accompagnare musicalmente' (l’angelica nota, il canto degli angeli, regolava il passo di Dante e della processione santa nell’alta selva del Paradiso terrestre).

V.C.

(Inferno XXI, 139)

[...] ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.

Verso celeberrimo, portato ad esempio della capacità di Dante di trascorrere verso il registro basso del volgare giungendo sino al turpiloquio. Il protagonista è Barbariccia. il capo dei diavoli, il quale risponde a un cenno prestabilito degli altri diavoli emettendo un sonoro peto. L’espressione fare la trombetta si alternava in italiano antico con sonare la trombetta, sempre col medesimo significato metaforico.

C.G.

(Inferno XVI, 73)

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.

Nel terzo girone del settimo cerchio Dante incontra tre esponenti della vita politica della Firenze del suo tempo e uno di loro gli chiede conferma delle tristi notizie sulla situazione della città giunte alle loro orecchie. Gli antichi costumi di Firenze, risponde Dante, si sono corrotti con l’arrivo e il rapido arricchimento della gente nuova. Il sostantivo gente acquista nella Commedia un diverso valore semantico a seconda dell’aggettivo cui viene abbinato; si pensi umana gente o gente umana, cioè ‘l’umanità intera’ che troviamo con frequenza, per esempio "state contenti, umana gente, al quia" (Purgatorio III, 37). Qui gente vale ‘insieme di persone’ e nuova significa ‘recente’, ossia ‘venuta di recente’ in città dal contado, ma, come hanno sottolineato diversi commentatori, il valore è dispregiativo: sono rustici che vengono dal nulla, senza tradizioni e ascendenti. Dante ritorna sull’argomento nel Paradiso (XVI, 49-72).

A.N.

(Purgatorio XII, 17)

Come, perché di lor memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel ch'elli eran pria [...]

Dante usa (per primo in italiano) due volte l’aggettivo terragno (dal lat. terraneum), che in un verso dell’Inferno (XXIII, 47) ha il senso di ‘posto sulla terraferma’, riferito – all’interno di una similitudine – a un mulino collocato a una certa distanza da un corso d’acqua e quindi alimentato non direttamente da questo, ma grazie a una doccia, cioè a una canalizzazione. In questo passo del Purgatorio, invece, l’aggettivo significa ‘a terra’, ‘al livello del suolo’ e indica una specifica tipologia di sepolture scultoree medievali, quelle pavimentali a bassorilievo, molto diffuse all’epoca di Dante nelle chiese italiane, ben diverse da quelle ‘a muro’, decorate con sculture a tutto tondo, più monumentali. Con tale specifico significato, grazie proprio all’esempio dantesco, terragno è tuttora usato nel lessico della storia dell’arte.

P.D'A.

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(Inferno XVIII, 2)

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.

Dante ci offre quella che al momento è la più antica attestazione di questo aggettivo, formato da ferro col suffisso -igno, che indica un rapporto di relazione o di somiglianza con la base. Qui ferrigno non significa ‘fatto di ferro’, ma ‘simile al colore del ferro’, dunque ‘grigio scuro’, riferito infatti al colore della pietra di cui è fatto Malebolge, l’ottavo cerchio infernale, ma forse con allusione anche alla durezza del cuore dei fraudolenti che vi sono puniti.

P.D'A.

(Inferno XXXIII, 152)

Ahi Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?

Deverbale di magagnare, dal provenzale maganhar ‘guastare’ (a sua volta forse di origine germanica): 'vizio', 'colpa', 'difetto nascosto'. Dante lo attribuisce ai Genovesi nella celebre invettiva che prende spunto dall’episodio del nobile genovese Branca Doria, la cui anima è condannata (lui ancora vivo) ad essere immersa nel ghiaccio della Tolomea e a piangere lacrime gelate. Il Doria si era macchiato del peccato di tradimento dell’ospitalità, avendo fatto uccidere, dopo averlo invitato a banchetto, il suocero Michele Zanche (già incontrato nell’Inferno tra i barattieri) per strappargli il Giudicato del Logudoro. Non sembra abbia fondamento la notizia, riportata dallo storico genovese cinquecentesco Oberto Foglietta, secondo cui sarebbe stato Dante stesso a cadere vittima, a Genova, dell’aggressione da parte dei seguaci di Branca Doria. La voce, presente anche in Purgatorio VI, 110 e XV, 46, è viva nell’italiano odierno (e nei dialetti liguri, riferita a uomini, animali, piante) e vale anche (e soprattutto) come 'guasto o imperfezione in un manufatto' o come 'affezione della tarda età'.

L.C.

(Purgatorio XXVII, 76)

Quali si stanno ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse [...]

Riferito ad animali vale ‘addomesticato, docile’. Dante usa l’aggettivo solamente questa volta; nel Convivio (II, i 3 ) troviamo mansueto. Dal participio passato del latino mansuēscere, composto da manŭm e suēscere, letteralmente ‘abituare alla mano’, provengono sia mansueto (mansuētum) di tradizione dotta, sia manso (dal latino volgare *mānsum) di tradizione popolare. Col significato dantesco mansu si ritrova in corso e in siciliano e l’uso è esteso anche a piante o a frutti ‘domestici’ in opposizione a quelli ‘selvatici’.

A.N.

(Inferno II, 17)

Però, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare indegno ad omo d'intelletto [...]

Effetto molte volte ricorre in Dante come parola tecnica, filosofica, in dipendenza dalla teoria della causa, per indicare appunto il risultato o compimento dell'azione causale. Qui però, il significato risulta un po' più generico, equivalente a ciò che in italiano moderno chiameremmo risultato o conseguenza. Il verso è stato utilizzato nella propria pala dall'accademico Carlo Rinuccini (1679-1748), in Crusca con il nome di "Lieto": la sua pala, che riprende il verso dantesco, raffigura sullo sfondo una montagna innevata, e, in primo piano, un campo di grano verdeggiante che promette un buon raccolto. La pala risulta al tempo stesso di soggetto dantesco e di figurazione squisitamente paesaggistica, cosa non frequente (i motivi più comuni sono nature morte, animali, oggetti). La pala del Lieto presenta analogie con la moderna pala dell'attuale presidente della Crusca, Claudio Marazzini, la quale raffigura una montagna innevata (il Monviso) con un florido campo di grano in primo piano (il motto, "Sotto la neve pane", è stato ricavato da un proverbio toscano del Giusti, non da Dante). Nell'uno e nell'altro caso, il tema scelto fa riferimento all'effetto benefico della montagna e delle nevi. In Dante, invece, l'effetto benefico era l'Impero Romano, derivato da Enea, a cui fu concesso il privilegio della visita nell'aldilà.

C.M.

(Paradiso XII, 29)

[...] del cor de l'una de le luci nove
si mosse voce, che l'ago a la stella
parer mi fece in volgermi al suo dove [...]

Nel cielo del Sole risplendono le anime dei sapienti: dal profondo di una di quelle anime luminose giunte per ultime, e formanti la seconda corona, si muove una voce (San Bonaventura, come si scoprirà al v. 127) che fa apparire Dante simile all'ago della bussola che si volge alla stella polare. Il poeta si volge verso il luogo da cui essa proviene, e lo fa con la stessa irresistibile prontezza con cui l'ago della bussola si rivolge verso la stella polare. La bussola, già in uso in Oriente, era stata perfezionata in Italia dagli amalfitani, ed era frequente nei paragoni della lirica del tempo (cfr. Guido Guinizzelli, Rime, ed. Contini: “che sì dirizzi l'ago ver' la stella"). Così la descrive il commentatore trecentesco di Dante Francesco da Buti: "Ànno li naviganti uno bussulo che nel mezzo è impernato una rotella di carta leggieri, la quale gira in sul detto perno, e la detta rotella àe molte punte et ad una di quelle, che v'è dipinto una stella, è fitta una punta d'ago; la quale punta li naviganti, quando vogliano vedere dove sia la tramontana, imbriacano colla calamita toccandola molto con quella, e poi girano intorno al bussolo la detta calamita, e l'ago seguita la calamita, e quando ànno fatto pigliare lo moto di girare intorno, rimoveno e cessano la calamita, e stanno a vedere quando si posa lo moto della detta rotella, la quale sempre ferma quine dove è la tramontana, et allora s'avvedono dove elli sono, che via debbono tenere". Ago ricorre altre volte nella Commedia, con un senso diverso: è l'ago del cucito (Inferno XX, 121), oppure il pungiglione della vespa (Purgatorio XXXII, 133).

[La professoressa Antonella Costanzo, insegnante di Lettere, che assieme ai propri allievi segue con passione la serie delle nostre "Parole di Dante", ci ha scritto proponendone una sua. L'abbiamo accolta, anche se fino ad oggi le collaborazioni erano state ristrette ai soli Accademici e ai Collaboratori della Crusca. La proposta, infatti, testimonia il successo della nostra iniziativa, che ci piace condividere con il maggior numero possibile di persone, C.M.]

Antonella Costanzo

(Paradiso VIII, 61)

[...] e quel corno d'Ausonia che s'imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.

La parola corno compare nella Commedia sia in senso proprio, per indicare la protuberanza che hanno sulla fronte molti animali (anche simbolici), sia estensivamente, per significare ‘punta’, ‘estremità’ (di una fiamma, del timone di un carro, dei bracci di una croce). Nel brano in questione vale ‘punta’ in senso geografico e corno d’Ausonia designa l’estremo sud d’Italia, il Regno meridionale; Carlo Martello, amico di Dante, primogenito ed erede di Carlo II d’Angiò, avrebbe posseduto quel Regno se non fosse morto prematuramente, appena venticinquenne, nel 1295. I confini del territorio sono indicati in dettaglio (nei limiti delle conoscenze del tempo): Bari, vertice orientale del corno, a occidente Gaeta e Catona (sulla costa calabra dello Stretto), a partire dalla linea a sud delle foci del Tronto e del Garigliano (il fiume Verde, cioè il Liri, confluisce nel Garigliano, che sgorga in mare a sud di Gaeta). 

R.C.

(Paradiso I, 34)

Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.

La parola fiamma assume, nelle tre cantiche della Commedia, diverse sfumature di significato: ‘fuoco, incendio’, ‘fuoco dell’inferno’, ‘luce, raggio di luce’, in senso figurato ‘intensità di un sentimento’ (specie amoroso), ecc. Il verso citato significa ‘a una piccola scintilla può seguire un vasto incendio’ (in cui il verbo seconda vale ‘segue, tiene dietro’), riprendendo alla lettera una frase di Girolamo ("de parva scintilla [Dominus] maxima suscitavit incendia"); allude alle sollecitazioni che l'impresa di Dante potrà esercitare in futuro su poeti migliori di lui. Il fuoco, elemento che avvolge e divora, in questo caso si associa all’idea di rinnovamento e di miglioramento dell’attività poetica. Dopo Dante (di retro a me), poeti ancora più bravi (con miglior voci) forse saranno capaci di esprimersi in modo confacente alla qualità che la poesia richiede (Cirra è una delle due cime del monte Parnaso, dove risiedono le Muse).

R.C.

(Paradiso XVII, 58)

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altri, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.

Il vocabolo sale ricorre nella profezia di Cacciaguida di cui abbiamo parlato a proposito della parola saetta. In un contesto premonitore e fortemente ispirato, il bisavolo usa termini concreti per alludere all’esperienza dolorosa e umiliante dell’esilio che attende Dante. Nella terzina si indicano in maniera quasi impietosa due beni fondamentali (il cibo e la casa) di cui l’esule viene privato, per i quali deve dipendere dall’elemosina altrui. L’espressione come sa di sale / lo pane altrui si presta a una duplice interpretazione. In senso allegorico potrebbe alludere all'amarezza del pane dell'esilio, significherebbe ‘come è amaro il pane degli altri’. Tra i commentatori antichi sono di questa opinione Ottimo: "amaro e chiaro testo"; e Benvenuto da Imola: "quam sapidus est panis alienus; est enim valde amarus et panis doloris; nam veh illis qui ad alienum appetitum comedunt" (con eco biblica: "Nos autem memores salis, quod in palatio comedimus" (Libro di Esdra 4, 14). Secondo una diversa interpretazione il significato non sarebbe metaforico ma reale, la frase rinvierebbe al sapore sgradevole che il pane salato assume per il palato dei fiorentini, abituati a quel cibo non salato (documenti attestano che fin dal sec. XII a Firenze e in Toscana si produce pane senza sale). Consumando pane confezionato in maniera diversa da quella abituale nella propria terra, Dante sarebbe portato a ricordare, giorno dopo giorno, per quasi un ventennio, la propria condizione di esule.

R.C.

(Paradiso XVII, 27)

[...] per che la voglia mia saria contenta
d'intender qual fortuna mi s'appressa:
ché saetta previsa vien più lenta.

La parola saetta ricorre più volte in Dante (in poesia, mai nelle opere in prosa) con il significato proprio di ‘freccia’. Spesso si riferisce metaforicamente alle saette amorose che colpiscono la persona amata; in senso traslato, allude ai ‘raggi’ del sole in Purgatorio II, 56. Nel canto del Paradiso a cui facciamo riferimento Dante, preoccupato per le oscure profezie che lo riguardano ascoltate nell’Inferno (Farinata, Brunetto, Vanni Fucci) e nel Purgatorio (Corrado Malaspina e Oderisi), al trisavolo Cacciaguida chiede di conoscere (la voglia mia saria contenta d’intender) il suo destino (qual fortuna mi s’appressa) quando sarà tornato sulla terra. La conoscenza anticipata potrà attenuare il dolore che gli infliggeranno gli eventi futuri della vita (noi sappiamo che sarà condannato, bandito da Firenze, esiliato fino alla fine dei suoi giorni). La conoscenza anticipata aiuta, perché la freccia prevista colpisce con minor forza e provoca meno dolore (saetta previsa vien più lenta). La frase, di sapore proverbiale, ha antecedenti d’identico significato in testi del medioevo latino (Gualtiero Anglico, Gregorio Magno: praevisa minus laedere tela solent, tela praevisa minus feriunt), che Dante riutilizza recuperando inoltre concetti della filosofia classica.

R.C.

(Paradiso VII, 140)

L'anima d'ogne bruto e de le piante
di complession potenziata tira
lo raggio e 'l moto de le luci sante [...]

Si tratta di un termine tecnico proprio della filosofia e della medicina medievale di tradizione ippocratica, utilizzato da Dante anche all’interno del Convivio. Il poeta si riferisce alla costituzione fisica degli esseri viventi, interpretata come la combinazione dei vari elementi di cui sono composti.

K.D.V.

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(Purgatorio XXVI, 57)

[...] non son rimase acerbe né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture.

Il termine ricorre in tutte e tre le cantiche, ma solo qui ha valenza anatomica e indica precisamente le articolazioni del corpo umano, significato che del resto è in uso ancora oggi.

K.D.V.

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(Inferno XXX, 52)

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l'omor che mal converte,
che 'l viso non risponde a la ventraia [...]

L’idropesì (o idropisìa) è la terribile malattia che affligge maestro Adamo: provoca infatti l’accumulo di liquidi nel corpo, causando gonfiore, specialmente dell’addome, e continuo senso di sete. Dante non si limita a usare un tecnicismo medico, ma descrive anche la sintomatologia della patologia in questione, dimostrando una grande padronanza e conoscenza anche in quest’ambito. Il termine (che si trova ancora in alcune novelle di Pirandello) oggi è disusato e in ambito medico si preferisce parlare di anasarca o ascite.

K.D.V.

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(Purgatorio VIII, 1)

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ’ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio [...]

Lo splendido e giustamente famoso inizio del canto VIII del Purgatorio presenta alla fine del primo verso, in rima con addio, una delle più caratteristiche voci dell’intera tradizione poetica italiana, disio, che è documentata (anche nella variante desio) già in Giacomo da Lentini e fino (almeno) a Umberto Saba. Il significato della voce (il cui etimo è tuttora dibattuto, come pure il suo rapporto con l’analogo desire) è quello di ‘desiderio’ (soprattutto dell’oggetto amato), e anche ‘nostalgia’, ‘rimpianto’.

P.D'A.

(Inferno VII, 23)

Come fa l'onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
così convien che qui la gente riddi.

A proposito degli avari e dei prodighi, separati in due schiere che si scontrano percorrendo ciascuna, nei due sensi opposti, una metà del cerchio infernale, è ricordato l’urto delle onde che si scontrano tra Scilla e Cariddi. Tra diverse voci espressive, in riferimento alle onde che si infrangono una contro l’altra, Dante usa un verbo che evoca la concretezza di un impatto violento. Questa forma dimostra che le parole letterarie sono a volte vicine a quelle dei dialetti (pensiamo a intuppare, intuppà e forse anche alla variante intruppare). In questo caso il punto di partenza etimologico è probabilmente la toppa, cioè la parte di un albero tagliato che resta infissa nel terreno (quindi determina un possibile inciampo). Il verbo si incontra in altri due casi, sempre nell’Inferno, canto XXV, 24 (s’intoppa) e come transitivo nel canto XII, 99. Rispetto al verbo, nell’italiano di oggi è molto più comune il sostantivo intoppo, che Dante usa per indicare lo scontro tra due cavalieri in battaglia (Purgatorio XXIV, 96).

N.D.B.

(Paradiso XXXIII, 108)

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.

Usato qui in senso proprio, il termine anatomico ancora oggi vitale è inserito all’interno di un dolce, ma potente paragone che racchiude il topos dell’ineffabilità: di fronte alla verità di Dio, la lingua del poeta è ancor meno capace di parlare di quanto lo sia un neonato che viene ancora nutrito dal seno materno.

K.D.V.

(Inferno XXIV, 114)

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch'a terra il tira,
o d'altra oppilazion che lega l'omo [...]

All’interno di una similitudine Dante mette in relazione lo smarrimento del dannato Vanni Fucci con due possibili cause, una soprannaturale e una scientifica. Quest’ultima è indicata da un termine medico, il latinismo oppilazion(e), che indica la chiusura improvvisa dei canali anatomici, che si credeva causasse l’epilessia, impedendo il passaggio agli spiriti vitali.

K.D.V.

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(Purgatorio VIII, 5)

[...] e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more [...]

La parola squilla, che ha in Dante se non le prime, certo alcune tra le più antiche attestazioni, indica la campana della torre campanaria, di piccole dimensioni e dal suono acuto, che segnala l’ora del mattutino, all’alba, e quella del vespro, la sera, come in questo celebre passo del Purgatorio, nonché, per metonimia, il suo suono acuto e anche l’ora della giornata segnata dal suo rintocco. Si tratta di una voce di origine germanica (dal gotico *skilla), alla base del verbo squillare e del nome maschile squillo, anch’esso documentato in Dante. La poesia posteriore userà squilla anche nel senso generico di ‘campana’.

P.D'A.

(Inferno XVII, 86)

Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo
de la quartana, c'ha già l'unghie smorte,
e triema tutto pur guardando 'l rezzo [...]

All’interno di una similitudine Dante descrive i sintomi causati dalla febbre quartana, così chiamata perché l’accesso febbrile compare ogni quarto giorno, quali il riprezzo ‘i brividi’ e le unghie smorte ‘le unghie livide’. Il poeta sfrutta la forza espressiva del linguaggio medico per rendere più realistica la sensazione di paura da lui provata prima di salire sulla groppa di Gerione.

K.D.V.

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(Paradiso XX, 18)

Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond'io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli [...]

Il passo offre la prima attestazione finora nota della parola, che è considerata un deverbale del verbo squillare (peraltro documentato solo posteriormente), a sua volta derivato da squilla ‘piccola campana dal suono acuto’, altra voce usata da Dante. In genere con squillo si indica un suono acuto, vibrante, per lo più di breve durata, tipico di trombe, campanelli, ecc. Nel passo citato si riferisce invece ai canti dei beati del cielo di Giove.

P.D'A.

(Inferno XIII, 114)

[...] similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.

Il verbo, che in questo passo dell’Inferno ha la sua prima attestazione italiana (l’unica nella Commedia), è un germanismo (dal longobardo *sturmjan ‘infuriare’, di vento, temporale, ecc.) e si è ben presto specializzato per indicare il fruscio delle fronde mosse dal vento o dagli animali, come nel verso dantesco, dove però potrebbe essere riferito anche a bestie e avere quindi il significato di ‘produrre un rumore confuso’.

P.D'A.

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(Paradiso XVII, 129)

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov'è la rogna.

Il termine rogna, che indica una malattia cutanea contagiosa detta anche scabbia, non è esclusivo del linguaggio medico, ma è diffuso anche nella lingua popolare. Qui è inserito all’interno del detto proverbiale, pronunciato da Cacciaguida, lascia pur grattar dov’è la rogna, che ha il significato di ‘lascia che ciascuno si dolga dei propri mali’.

K.D.V.

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(Inferno XXII, 2)

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo [...]

Diversamente dal corrispondente verbo stormire, il sostantivo stormo (dal longobardo *sturm ‘tempesta’) non ha in Dante la sua prima attestazione italiana, perché è usato già in precedenza nel senso di ‘tumulto’, ‘zuffa’. Qui cominciare stormo significa ‘dare inizio allo scontro’, ‘iniziare l’assalto’. In seguito la parola verrà usata soprattutto per riferirsi a gruppi di persone (anche non armate) o di animali, in particolare di uccelli o insetti in volo (e quindi anche di aerei militari).

P.D'A.

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(Paradiso XXVIII, 93)

L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.

Il 19 gennaio già commentammo una parola di questo medesimo verso, cioè inmilla. Oggi, giorno dei campionati mondiali degli scacchi, vogliamo ricordare che la parola scacchi, come ci ha giustamente segnalato il Maestro nazionale di scacchi Adolivio Capece, è presente in Dante, e il riferimento alla moltiplicazione dei chicchi di grano posti sulle caselle mostra che Dante aveva competenze d'abaco e scacchistiche. Il riferimento va alla leggenda di Sissa Nassir, l'inventore degli scacchi, che aveva chiesto in ricompensa al re di Persia tanti chicchi di grano quanti ne risultassero ponendo un chicco nella prima casella della scacchiera, due nella seconda, quattro nella terza, e così via, sempre raddoppiando, fino alla sessantaquattresima. Ne risultò un numero enorme, superiore alle possibili disponibilità; secondo i matematici, 2 elevato a 64 -1, all’incirca 10 miliardi di miliardi di chicchi.

C.M.

(Inferno V, 39)

Intesi ch'a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

I versi si riferiscono ai peccator carnali, che più della ragione seguono il talento, cioè il proprio desiderio e, in rapporto a questo contesto, la propria inclinazione al piacere. Con il significato figurato di ‘desiderio’, talento si è affermato nella lingua letteraria a partire dal provenzale, perciò in questo senso si tratta di un gallicismo. Talento, che per noi oggi indica una qualità o una dote (anche per effetto della parabola evangelica riferita da Matteo 25, 14-30), è un esempio di come certi significati siano oggi diversi da quelli diffusi ai tempi di Dante. La parola talento, che dal greco è passata al latino e poi alle lingue romanze, in origine si riferiva all’inclinazione della bilancia, poi ha indicato anche una moneta il cui valore era legato al peso. Dal senso concreto di inclinazione della bilancia, quindi, il talento passa a indicare da un lato l’inclinazione del desiderio, dall’altro la moneta, quindi (secondo il senso del Vangelo) il possesso di una dote o di una capacità particolare. Sempre con il significato di ‘desiderio’, talento si legge anche in altri versi dell’Inferno (II, 81 e X, 55) e del Purgatorio (XXI, 64).

N.D.B.

(Purgatorio XX, 89)

Veggiolo un'altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.

Il sostantivo aceto (attestato dal secolo XIII), dal latino acētu(m), a sua volta dalla radice indoeuropea *ak- ‘acuto, pungente’, indica un liquido derivato dalla fermentazione del vino (o di altri elementi naturali), dal sapore acido, acre. Un misto di aceto e di fiele fu la bevanda offerta a Cristo per dissetarsi sul Calvario, a cui Dante qui allude: la terzina parla, infatti, delle offese perpetrate contro Bonifacio VIII durante l’oltraggio di Anagni. Il papa diventa qui un nuovo Cristo, costretto a sopportare i colpi inferti alla Chiesa dalla casa reale francese, contro cui Dante si scaglia nel corso dell’intero canto, l’ultimo della cornice degli avari.

E.A.

Vai al grande Vocabolario dantesco dell'Accademia della Crusca

(Purgatorio VIII, 3)

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ’ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio [...]

In rima con disio e in dipendenza del verbo dire, la Commedia ci offre qui una delle prime attestazioni di questa formula di saluto di congedo (propriamente a Dio, cioè ‘ti/vi raccomando a Dio’, ‘ti/vi affido a Dio’), che è la più antica tra quelle tuttora in uso. Allora, però (e così ancora fino a tempi recenti), con addio non si intendeva marcare un distacco definitivo.

P.D'A.

(Paradiso XXX, 136)

[...] sederà l'alma, che fia giù agosta,
de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia
verrà in prima ch'ella sia disposta.

Equivale ad augusta, cioè legata alla dignità imperiale (che tale sarà la carica di Arrigo VII "giù", cioè sulla terra, prima della morte), perché, come commenta Benvenuto da Imola (1375-80), "omnis enim imperator vocatur augustus a Caesare Augusto". Ma augusta è forma colta, che conserva la patina latina, mentre agosta è forma spontanea, come nel mese di agosto, che è appunto dedicato ad Augusto, o nella moneta detta agostaro, o nel nome Agostino. Questi versi sono una dichiarazione di fede politica: Dante sostenitore dell'impero e di Arrigo imperatore, con l'amara profezia del fallimento della spedizione imperiale nella riottosa e ribelle Italia.

C.M.

(Inferno X, 33)

Ed el mi disse: "Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in su tutto 'l vedrai".

Virgilio indica Farinata che si alza in piedi nel suo sepolcro e si rende visibile appunto “dalla cintola in su”. Tali parole in realtà non richiedono una spiegazione, ma proprio questo è l’aspetto interessante. Dalla lingua viva del suo tempo Dante riprende un’espressione, che, per effetto del verso dantesco, noi usiamo ancora adesso sempre per riferirci, come lui, alla parte del corpo che si colloca al di sopra della posizione della cintura. Diversamente da quanto accadeva al tempo di Dante, però, la parola cintola nel nostro italiano contemporaneo, al di fuori di questa sequenza, è ormai molto rara, mentre anticamente designava correntemente, al pari di cintura, anche l’oggetto concreto. In una novella del Decameron (III, 3), infatti, incontriamo sia cintola che cintura. D’altronde anche Dante usa cintura, che si trova nel Paradiso, canto XV, 51. Nella nostra comunicazione parlata, invece, cintola, in riferimento alla cosa, circola oggi solo in alcune zone della Toscana (ma ormai non sembra più in uso nella città di Firenze).

N.D.B.

(Paradiso XVII, 117)

[...] e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s'io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume [...]

Il sostantivo agrume deriva dal latino volgare *acrūme(n) ‘frutto aspro’, dal latino classico ācrus ‘acre’; entrambe le forme risalgono alla radice indoeuropea *ak- ‘acuto, pungente’. Nel Trecento, secolo delle prime attestazioni, il sostantivo aveva un significato ben diverso da quello attuale: non indicava infatti i frutti e gli alberi del genere Cedro, ma alcuni tipi di ortaggi dal gusto forte e pungente, come il porro, la cipolla o l’aglio. Proprio questa antica accezione permette a Dante di sviluppare una metafora dalle tinte realistiche e concrete: tutte le verità che egli apprende nel Paradiso attraverso le parole profetiche dei beati, spostandosi di "lume in lume" (v. 115), avranno per molti di coloro che le ascolteranno un sapore intenso e spiacevole, analogo, appunto, a quello tipico di alcuni aspri ortaggi.

E.A.

Vai al grande Vocabolario dantesco dell'Accademia della Crusca

(Inferno I, 3)

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.

Nelle edizioni moderne della Commedia troviamo vari esempi di ché, ma va precisato che l’accento è stato sempre aggiunto dagli editori, che hanno così voluto indicare il valore di congiunzione causale di questa parola grammaticale, intesa come forma ridotta di perché o poiché. In realtà, non è sempre facile distinguere questo ché dal che con valore puramente esplicativo (che nelle edizioni non viene accentato) e neppure dal che pronome relativo, che poi in italiano antico, come pure nel parlato spontaneo, si usa anche al posto di cui o in cui, specie con valore temporale. Nel terzo verso del poema, dunque, il ché ‘perché’ che si legge nell’edizione Petrocchi potrebbe anche essere inteso come congiunzione con valore modale, oppure come pronome relativo, nel senso di ‘in cui, nella quale’, riferito alla selva oscura.

P.D'A.

(Inferno XX, 16)

Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.

Il termine parlasia (con sincope e assimilazione vocalica da paralisia, dal francese paralysie) è un tecnicismo medico dell’italiano antico. Indica una malattia che deforma il corpo e rende disordinato il suo movimento. Dante se ne serve come possibile termine di confronto per la punizione infernale riservata agli indovini, il cui viso è completamente rivoltato indietro.

K.D.V.

Vai al grande Vocabolario dantesco dell'Accademia della Crusca

(Inferno VII, 124)

[...] ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra.

Nella palude dello Stige Dante incontra gli iracondi, i quali sono immersi, come dichiarano loro stessi, “ne la belletta negra”. La voce belletta (documentata già prima di Dante) significa ‘melma, fanghiglia’, come chiariscono altre parole presenti nel canto: paludepantanomelmalimolorda pozzafango. L’etimo è però incerto: secondo alcuni deriverebbe da belletto (a sua volta da bello) nel senso di 'impasto', secondo altri da melmetta, diminutivo di melma, per altri ancora dalla voce toscana melletta, che ha lo stesso significato; ma la parola è più antica di quelle da cui dovrebbe derivare.

P.D'A.

Vai al grande Vocabolario dantesco dell'Accademia della Crusca

(Purgatorio XXV, 50)

[...] e, giunto lui, comincia ad operare
coagulando prima, e poi avviva
ciò che per sua matera fé constare.

Il verbo, usato al gerundio, è un latinismo che significa ‘raddensare’, detto solitamente del latte o del sangue. Qui Dante lo impiega su modello biblico per descrivere il processo di formazione dell’embrione.

K.D.V.

Vai al grande Vocabolario dantesco dell'Accademia della Crusca

(Purgatorio XXIV, 24)

[...] ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l'anguille di Bolsena e la vernaccia.

Dante si trova nella cornice dei golosi, in cui incontra il poeta Bonagiunta, che pronuncerà la celebre definizione dello stile poetico "dolce" e "novo" (v. 57). Il verso citato è celebre, perché rappresenta l’unico riferimento esplicito a cibi o bevande nella Commedia. Tra i volti dei dannati non emerge solo quello di Bonagiunta, ma anche quello di papa Martino V, colpevole di essere stato in vita particolarmente goloso e di aver, appunto, mangiato anguille di Bolsena e bevuto vernaccia. Emerge in questo passo, ancora una volta, il particolareggiato realismo dantesco: le anguille del lago di Bolsena erano infatti già note ai romani per la loro bontà e ancora oggi sono considerate un prodotto di eccellenza italiana. Il sostantivo vernaccia (attestato già dalla fine del Duecento) indica invece un particolare tipo di vino bianco, il cui nome deriva dal toponimo Vernazza, località ligure delle Cinque Terre in cui ebbe origine la coltivazione del vitigno, diffusa anche in Toscana; la sostituzione di -azza con -accia si può considerare una sorta di adattamento alla fonetica toscana.

E.A.

(Purgatorio XIX, 7)

[...] mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.

Letteralmente ‘che balbetta’, cioè incapace di parlare chiaramente. Dante usa questo aggettivo (insieme ad altre caratterizzazioni espressive, quali guercia ‘strabica’, sovra i piè distorta, / con le man monche ‘con i piedi e le mani deformate’, e di colore scialba ‘dalla carnagione terrea, senza vita’) per caratterizzare una figura femminile, rappresentazione allegorica, probabilmente, di tre vizi capitali (avarizia, gola e lussuria).

K.D.V.

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(Purgatorio XVI, 113)

[...] però che, giunti, l'un l'altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch'ogn'erba si conosce per lo seme.

Nella terza cornice del Purgatorio Dante incontra gli iracondi e parla della corruzione e dei vizi del mondo attraverso le parole di uno dei peccatori, Marco Lombardo, accecato dal denso e nero fumo che pervade l’ambiente. Proprio in una frase proverbiale da lui pronunciata occorre il sostantivo spiga, derivato dal latino spīca(m), letteralmente ‘punta’, di origine indoeuropea. Il passo descrive il pericolo che scaturisce dall’unione forzata dei poteri spirituale e temporale, rispetto alla quale non esiste più nessuna autorità che possa limitarne la forza. Se Dante non crede che ciò possa costituire un pericolo, dice Marco Lombardo, osservi i frutti che questa unione ha dato: un albero non può essere riconosciuto se non attraverso i frutti che produce e la spiga si riconosce grazie al seme che racchiude.

E.A.

(Paradiso XVII, 59)

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.

Dal forte significato simbolico, anche dal punto di vista religioso, il pane è cibo fondamentale, primo a soddisfare i bisogni essenziali dell’uomo, ma anche quelli intellettuali: il "pane delli angeli" (Convivio I, I 7) è sinonimo di ‘cibo della mente’. La parola pane è qui usata da Dante all’interno di metafora ed è pronunciata da Cacciaguida, che predice al poeta le pene che dovrà patire in esilio. Dante, cacciato dalla sua città, sarà costretto a chiedere aiuto e proverà dunque quanto sia amaro il cibo offerto da altri e quanto sia faticoso entrare in case altrui con il solo scopo di chiedere ospitalità. Così come il pane è cibo fondamentale per l’uomo, anche il sostantivo pane è vocabolo fondamentale in italiano, documentato dal 1158 e derivato direttamente dal latino pāne(m) che risale (insieme a pastus ‘pasto’ e pastor ‘pastore’) a *pas-nis, dalla radice di pāscĕre ‘nutrire’.

E.A.

(Inferno XXIX, 74)

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com'a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati [...]

Il sostantivo tegghia ‘recipiente da cucina’, dal latino tēg(ŭ)la(m), documenta anzitutto la schietta fiorentinità della lingua della Commedia. L’esito -ghi- del nesso latino -gl- era quello normale del fiorentino trecentesco, che Dante accoglie senza eccezioni: con tegghia rimano infatti, nei versi successivi, due voci che presentano lo stesso sviluppo: stregghia (‘specie di spazzola’, dal latino *strig(ĭ)la(m)) e vegghia (da vĭg(ĭ)lat, III persona singolare del presente indicativo di vĭgĭlāre ‘stare sveglio’). Nel fiorentino quattro-cinquecentesco questo normale sviluppo sarebbe stato poi sostituito da -gli-, tipico di altre zone di Toscana, e poi passato anche all’italiano, in cui infatti le parole corrispondenti sono teglia, striglia (con chiusura della vocale), veglia. Ma la parola è importante anche sul piano letterario, perché documenta il preciso realismo dantesco. Il poeta è nella bolgia dei falsari, che giacciono disordinatamente ammassati, e sta descrivendo la posizione assunta da due peccatori: seduti in terra, essi tengono le loro schiene poggiate l’una contro l’altra, quasi a sorreggersi a vicenda, così come fanno due teglie che vengono messe sul focolare poggiate l’una all’altra, a capanna, per essere riscaldate.

E.A.

(Inferno XV, 30)

[...] la conoscenza sua al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”

Nel girone dei sodomiti, rivolgendosi al proprio maestro Brunetto Latini, che lo ha riconosciuto per primo, Dante non impiega il pronome tu, di uso generale nella Commedia, ma ricorre all’allocutivo di cortesia voi, in segno di rispetto. È la prima volta che ciò si verifica, ma non l’unica. Il voi sarà usato da Dante in qualche raro altro caso: nel canto successivo, con Iacopo Rusticucci, condannato per lo stesso peccato, poi nel Purgatorio XXXIII, parlando a Beatrice, e infine in Paradiso XVI, 16-18, nei confronti dell’avo Cacciaguida, al quale aveva dato del tu nel canto precedente (XV, 85-87), quando ancora non sapeva chi fosse. Il cambio di allocutivo, in questo caso, dà a Dante il destro per criticare (XVI, 10-11) l’abitudine della Roma del suo tempo di dare del tu a tutti. Un’abitudine, questa, che da almeno un cinquantennio si va sempre più espandendo nell’italiano di oggi, con buona pace di Dante.

P.D'A.

(Purgatorio XXIII, 66)

Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ’n sete qui si rifà santa.

Siamo nel canto XXIII del Purgatorio, Dante entra nella cornice in cui si trovano i golosi. Prima dell’incontro con l’amico poeta Forese Donati, egli osserva le anime avvicinarsi, accompagnate da un canto che suscita "diletto e doglia" (v. 12): sono magrissime, hanno gli occhi infossati, la pelle aderente alle ossa. La descrizione della loro pena è affidata alle parole di Forese ed è proprio in questo passo che occorre la parola fame: le anime sono condannate, per evidente contrappasso, a un ferreo digiuno fino a che non avranno espiato i loro peccati di gola. La parola ha dunque un significato estremamente concreto, che descrive la terribile sensazione provata dai dannati e contribuisce a suscitare nel lettore, insieme alla precedente descrizione fisica, un forte moto di compassione. Vocabolo fondamentale della lingua italiana, il sostantivo fame è attestato già dalla fine del XIII secolo e deriva direttamente dal latino făme(m) ‘fame, avidità; miseria, carestia’, di origine incerta.

E.A.

(Paradiso XXIV, 34)

Ed ella: "O luce etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
ch’ei portò giù, di questo gaudio miro [...]"

Si tratta di un latinismo, da virum ‘uomo’ (che in latino ha connotazione diversa rispetto a homo, indicando il maschio, dotato appunto di qualità virili, in contrapposizione alla foemina). Dante usa il termine in poche occasioni, sempre in rima, al singolare e al plurale. Nei versi del Paradiso sopra riportati è riferito a san Pietro, a cui Beatrice si rivolge. In precedenza, in Inferno (IV, 30) sono detti viri gli uomini retti che si trovano nel Limbo (accanto agli infanti e alle femine), mentre ancora in Paradiso (X, 132), a proposito di Riccardo di San Vittore si dice "che a considerar fu più che viro". La parola non è poi entrata stabilmente in italiano; oggi si trova nella locuzione probo viro (anche univerbata in proboviro), singolare del più usato probi viri (o probiviri), che però, storicamente, sarebbe un termine latino (plurale quindi di probus vir).

P.D'A.

(Inferno XXV, 84)

[...] sì pareva, venendo verso l'epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe [...]

Un'unica occorrenza nella Commedia ha il sostantivo pepe, che deriva (a partire dal nominativo) dal latino pĭper -ĕris, a sua volta dal greco péperi -ios, di provenienza orientale (cfr. sanscrito pippalī ‘pepe, grano di pepe’), a indicare il condimento particolarmente saporito e piccante usato fin dalla preistoria. Anche se molto costoso, il pepe, già noto nella classicità, arriva senza soluzione di continuità fino al Medioevo e oltre. La spezia e il suo sapore dovevano dunque essere ben noti a Dante, che usa pepe per realizzare un’efficace metafora, che contribuisce a rendere ancora più “piccante” il carattere del "serpentello" (v. 83) che, velocissimo, guizza verso le pance di due dannati, per attaccarli e trasformare le loro membra umane in quelle di un serpente. Ci troviamo nella bolgia dei ladri, in cui è affidato proprio a questi rettili il compito di tormentare le anime peccatrici.

E.A.

(Inferno I, 42)

[...] mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle [...]

L’aggettivo è usato da Dante una sola volta al femminile per riferirsi al pelame della lonza, la prima fiera da lui incontrata all’inizio del poema. Nei manoscritti accanto a gaetta si trova anche la variante gaietta e la scelta tra l’una e l’altra forma è connessa anche al valore che si attribuisce all’aggettivo. C’è chi (come quasi tutti i commentatori antichi) pensa che vada collegato a gaio (o al provenzale gai) e significhi dunque ‘piacevole’, ‘gradevole’; chi ritiene che derivi dal provenzale caiet ‘screziato’, ‘picchiettato’ (a sua volta dal latino volgare *gallius, aggettivo di gallus ‘gallo’, per via della coda variopinta) e chi invece lo ha ricollegato a vaio, dal latino varium ‘variegato’, che però in italiano ha assunto il significato di ‘nero’. Visto che nello stesso canto, poco prima, Dante dice della lonza "che di pel macolato era coverta" (v. 33) e che in Inferno (XVI, 108) compare nuovamente "la lonza a la pelle dipinta", il significato di ‘screziato’ sembra quello più probabile

P.D'A.

(Inferno XXII, 15)

Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

Ghiottone, documentato in italiano già nel XII secolo, deriva dal latino volgare gluttōne(m), da gluttīre ‘inghiottire’, derivati dalla radice di gŭla ‘gola’. Glut(t)o ‘ghiottone’ e glŭt(t)īre ‘inghiottire’ sono forme popolari che presentano raddoppiamento espressivo della consonante. Il sostantivo indica propriamente ‘chi mangia con foga e smodatamente’, ma poteva significare, nel XIII secolo, anche ‘furfante, persona disonesta’. Quale che sia il significato qui inteso da Dante, il senso della frase proverbiale non cambia: in ogni luogo si trova la compagnia adeguata, ogni persona ha il posto che gli spetta. Se dunque in chiesa si trovano i santi, nell’Inferno è naturale che le presenze incontrate siano demoniache, così come in una taverna si troveranno mangioni e furfanti. La terzina ha un evidente tono comico, che ben si accorda con il resto dei canti XXI e XXII, dominati dalla narrazione dell’incontro ravvicinato di Dante con i demoni, che si offrono di scortarlo fino al successivo arco.

E.A.

(Inferno VII, 60)

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.

Si tratta di uno dei tanti parasintetici coniati da Dante, formati con l’aggiunta sia di un prefisso (per lo più in- o ad-) sia della desinenza verbale (-are o -ire) a una base che non è esclusivamente nominale o aggettivale (come avviene invece nella lingua comune). In questo caso il verbo, usato da Dante solo in questo passo, significa ‘abbellire’, ‘ornare’, e ha varie peculiarità: la base è costituita da un latinismo come pulcro ‘bello’ (insieme al quale è in rima con un precedente sepulcro), che a quanto pare Dante è stato il primo ad aver usato in volgare; sintatticamente l’oggetto diretto è rappresentato da parole mentre l’oggetto indiretto, il pronome ci, si riferisce al precedente qual ella sia (la zuffa). Letteralmente, quindi, parole non ci appulcro significa ‘non ci abbellisco parole’, ma di fatto la frase vuol dire ‘non adorno il discorso con altre parole, perché la bruttezza della cosa è evidente di per sé’. Il verbo non è entrato nella lingua comune, tanto che, non prendendo in considerazione le citazioni nei commentatori antichi e moderni, si potrebbe ritenerlo un hapax dantesco; ma l’espressione è diventata proverbiale, ed è tuttora usata, in tono scherzoso o ironico, quasi col valore della locuzione inglese no comment. Ma così, data anche la costruzione sintattica sopra rilevata, appulcro finisce quasi per avere il senso generico di ‘aggiungo’.

P.D'A.

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(Paradiso XVII, 48)

Qual si partio Ipolito d'Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.

Cacciaguida predice a Dante l'esilio. E Dante si paragona a Ippolito che, accusato calunniosamente dalla matrigna Fedra, fu scacciato da Atene per decisione del padre suo Teseo. Interessante è l'uso del verbo convenire che, per altro in altri luoghi del poema, Dante utilizza per indicare ciò che è decretato, ciò che avverrà, ciò che è fatale che avvenga: secondo un'accezione diversa, quindi, da quella che tale verbo ha nell'italiano contemporaneo.

E.B.

(Inferno XVII, 63)

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un'altra come sangue rossa,
mostrando un'oca bianca più che burro.

Nell’incontro con gli usurai, nella parte centrale del canto XVII dell’Inferno, si ha l’unico passo dell’intera cantica in cui il poeta dipinge l’ambiente (generalmente grigio, cupo o infuocato) con tinte colorate e vivide. I peccatori, accovacciati nella sabbia come animali, hanno infatti appese al collo delle tasche per il denaro, simbolo della loro attività in vita, su cui campeggia lo stemma di famiglia: armi nobiliari di colore giallo, bianco, azzurro, rosso colpiscono gli occhi di Dante, che le descrive nel dettaglio. Il burro (prestito dall’antico francese bure, derivato dal latino tardo būtӯru(m), a sua volta dal greco), che, in quanto derivato dalla parte grassa del latte, possiede un caratteristico colore bianco lattiginoso, è citato proprio nel corso di questa descrizione: su una tasca rossa come il sangue spicca la figura di un’oca, dalle penne più bianche del burro.

E.A.

(Purgatorio XXVII, 109)

E già per li splendori antelucani,
che tanto a’ pellegrin surgon più grati,
quanto, tornando, albergan men lontani [...]

Usato al plurale solo in questo passo del Purgatorio, antelucano è uno dei tanti latinismi immessi nel volgare proprio da Dante. Deriva infatti dal latino antelucanus e significa ‘che precede la luce del giorno’, indicando il chiarore riflesso che si diffonde prima che sorga il sole. L’aggettivo ha avuto successo nella lingua letteraria posteriore, specie tra Otto e Novecento: lo ritroviamo sia in poesia (Monti, Boito nel libretto del Falstaff, Pascoli), sia in prosa (Croce, Soffici, Gadda) ed è usato anche nella narrativa contemporanea e nella lingua comune, spesso in modo scherzoso e iperbolico, con sostantivi come ora, sveglia, levata(ccia), per riferirsi alle occasioni in cui si è costretti ad alzarsi di mattina molto presto o più presto del solito.

P.D'A.

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(Paradiso XV, 134)

Maria mi diè, chiamata in alte grida; 
e ne l'antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.

Quella presente in questo verso è la prima attestazione della parola battistero (qui nella forma antica batisteo). Il Battistero, quello di Firenze, è una chiesa molto cara a Dante che lo definisce "mio bel San Giovanni" (Inferno XIX, 17), ricordando così a tutti che è appunto consacrato al patrono della città, che si festeggia il 24 giugno. Alla voce batisteo della prima impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca si legge: "luogo dove si battezza, che in Firenze è ’l Tempio di San Giovanni", e la citazione è ovviamente quella dantesca.
Il Battistero di San Giovanni per Dante (e per i fiorentini di ogni tempo) è il simbolo della città. È il luogo dove egli fu battezzato. È il luogo dove sperava di essere incoronato poeta se fosse un giorno tornato in patria ("con altra voce omai, con altro vello/ ritornerò poeta, e in sul fonte/ del mio battesmo prenderò ’l cappello"; Paradiso XXV, 7-9). Non è stato così, ma nel Battistero ideale della poesia è stato certamente incoronato da ogni suo lettore.

M.B.

(Inferno V, 102)

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. 

La parola modo compare nella Commedia con una notevole gamma di significati, che in parte coincidono con quelli dell'italiano moderno: 'atteggiamento', 'modo di presentarsi' o di 'essere'. Uno dei significati remoti si lega al latino: 'tono', 'canto' (in Purgatorio XVI, 20, dove le anime degli iracondi intonano l'Agnus Dei). Nel canto di Francesca, a cui qui abbiamo fatto riferimento, la parola sembra di semplice interpretazione: la donna pare ancora offesa dalla "maniera" in cui la vita le fu tolta. Quasi italiano corrente. In realtà non tutti hanno interpretato così. Come mai Francesca è offesa dal "modo" in cui fu uccisa? In qual modo speciale fu uccisa? O forse quell'uccisione avvenne in un momento particolare, magari quello del rapporto sessuale? Oppure l'offesa è ben altra, cioè non sta nel "modo" della morte, ma nel "modo" dell'amore, smodato e disordinato, dunque vizioso? Ma allora perché ricordare ancora quell'amore, che del resto sembra non essere finito? Si aggiunga che molti codici non portano "modo", ma una parola diversa, cioè "mondo", e così, se questa lezione fosse giusta (ma viene generalmente reputata deteriore), vorrebbe dire che ancora la società offende Francesca per memoria di questo suo amore. Insomma, anche le cose semplici, in Dante, a ben vedere, si fanno complesse.

C.M.

(Inferno I, 1)

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Fin dal primo verso, la Commedia esibisce parole comuni, che esistono vive e vitali anche nell'italiano di oggi, così come erano correnti nel toscano del Duecento, e anche nelle parlate italiane di altre regioni. Del resto, vita prosegue una comune parola latina, e ha abbondanti corrispondenti romanzi. Quindi il primo verso della Commedia non ci porta a registrare neologismi, cultismi, lessico raro, ma ci pone di fronte a un termine comune, vivo dalla latinità fino all'epoca moderna. Quanto poi dovesse durare la vita qui menzionata, è altro problema. Dante non la misura con la media statistica, come faremmo noi moderni, ma ha in mente Aristotele e soprattutto Cristo, che è morto a 34 anni, perché la vita è come una parabola, e il trentacinquesimo anno segna il punto più elevato della curva, cioè il "sommo", e dopo comincia la decadenza. Questa l'idea di Dante, s'intende. Evidentemente non viveva in una società gerontocratica.

C.M.

(Inferno VI, 99)

[…] ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch'in etterno rimbomba.

Il verbo onomatopeico rimbombare ricorre nella Commedia esclusivamente nell’Inferno, come anche il sostantivo rimbombo. È usato in senso proprio in Inferno XVI, 100, dove indica il suono fragoroso dell'acqua che si riversa impetuosamente nelle cascate di San Benedetto ("Come quel fiume c'ha proprio cammino / prima dal Monte Viso 'nver' levante, / da la sinistra costa d'Apennino, / che si chiama Acquacheta suso, avante / che si divalli giù nel basso letto, / e a Forlì di quel nome è vacante, / rimbomba là sovra San Benedetto / de l'Alpe per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto…"). Nell'occorrenza di Inferno VI, 99, invece, è usato in senso figurato a indicare il perpetuarsi nel tempo, con il fragore di un tuono che riecheggia, della sentenza finale di Dio, che proclama la punizione eterna. La posizione di rima, con tomba tromba dei versi precedenti, amplifica ulteriormente l'onomatopea, riproducendo il fragore e suggerendo l'ineluttabilità del giudizio divino.

C.Mu.

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(Inferno XXV, 142)

Così vid'io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.

La zavorra è propriamente il materiale pesante posto nella stiva della nave per darle equilibrio e da gettare in mare in caso di necessità. Nella Commedia il vocabolo è utilizzato solo in senso traslato, con una metafora che si riferisce alla settima bolgia dell’Inferno e in particolare a una parte dei dannati in essa contenuti, i ladri (con riferimento al loro gravare sul fondo dell’Inferno col peso dei loro peccati e della loro miseria). Col vocabolo zavorra Dante non indica generalmente tutti i dannati della bolgia, ma una parte di essi: quelli che vede "mutare e trasmutare", i peggiori tra i dannati lì collocati, che ne costituiscono dunque il fondo.

C.Mu.

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(Purgatorio XII, 27)

Vedea colui che fu nobil creato
più ch'altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l'un lato.

Folgoreggiare è un verbo di conio dantesco che ha il significato di ‘precipitare rapido e luminoso come la folgore’. Indica il rapido muoversi verso il basso, l'atto del precipitare dunque, di Lucifero, che scende dal cielo folgoreggiando. Nella Commedia ricorre anche il verbo folgorare, che della folgore richiama il movimento rapido, improvviso e violento e che è usato per descrivere il susseguirsi incessante delle imprese di Cesare ("da indi scese folgorando a Iuba; / onde si volse nel vostro occidente, / ove sentia la pompeana tuba", Paradiso VI, 70).

C.Mu.

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(Purgatorio XI, 30)

[…] disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.

Unica occorrenza nelle opere dantesche, la caligine rappresenta l'ottenebramento causato dal peccato di superbia e dalle passioni terrene, il "sudicio sedimento del peccato" (come scrive Giorgio Inglese nel suo commento al passo) che le anime del Purgatorio devono mondare. L'immagine della caligine come rappresentazione dell'offuscamento che acceca la mente è topica: in particolare, nel Trecento la caligine è spesso utilizzata in senso figurato per indicare sia in generale il peccato che ottenebra la mente, sia nello specifico il peccato di superbia.

C.Mu.

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(Inferno XXXII, 117)

El piange qui l'argento de' Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi".

Stare freschi è divenuta un'espressione che usiamo comunemente per far riferimento a una situazione poco piacevole o addirittura rischiosa da cui mettere in guardia qualcuno: "stai attento, se non obbedisci, stai fresco!" è, ad esempio, il tipico rimprovero che un genitore può rivolgere a un figlio. Questa locuzione la usa Dante per presentarci, con tono decisamente sarcastico, i dannati dell'ultimo cerchio dell'Inferno, traditori dei parenti e della patria, che egli immagina confitti fino al collo insieme a Lucifero nella distesa di ghiaccio che ricopre la superficie del lago Cocito. Una visione che solo il genio di Dante poteva creare, offrendo un panorama di gelida e mortifera arsura nel contesto del fuoco infernale.

R.S.

(Paradiso XX, 1)

Quando colui che tutto 'l mondo alluma
de l'emisperio nostro sì discende,
che 'l giorno d'ogne parte si consuma […]

Dal francese allumerallumare ricorre già nella lirica del Duecento col significato di 'ardere', 'infiammare', specie con significato metaforico in riferimento al fuoco amoroso. Nella Commedia il verbo ricorre cinque volte, esclusivamente nel Purgatorio e nel Paradiso, soprattutto in connessione con la grande tematica della luce, che domina il mondo paradisiaco e ne plasma potentemente il lessico. Nell’occorrenza del canto XX del Paradiso, allumare ha il significato di 'rischiarare con la propria luce': "colui che tutto 'l mondo alluma" è il sole, che dà luce a tutto l'universo.

C.Mu.

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(Inferno I, 89)

Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi.

Oltre ai molti usi anche oggi correnti di aiutare col significato di 'dare aiuto, soccorrere', Dante ha adoperato il verbo pure nel significato di 'difendere, proteggere qualcuno da qualcosa', con duplice complemento, diretto e indiretto, come in questo celebre passo dell’incontro con la lupa. Lo stesso fa nelle Rime CIII, 13: “sì ch’io non so da lei né posso atarme”, dove ci mostra una variante del verbo (atare), mediata dal provenzale.

V.C.

(Inferno I, 87)

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m' ha fatto onore.

Dello stilus, dunque degli stili, Dante tratta nel De vulgari eloquentia (II, iv, 7), graduando con Orazio i tre livelli, il tragico, il comico, l’elegiaco. Lo stilo tragico, che conviene obbligatoriamente ed esclusivamente ai sommi temi "salus, amor et virtus", era sotteso alla Vita Nuova ("Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni", XXVI, 4), ma si affermava nel Convivio ("conviemmi che con più alto stilo dea [al]la presente opera un poco di gravezza, per la quale paia di maggiore autoritade", I, iv, 13): qui il sostantivo si ripete connotato da una parte, per amor, dall’aggettivo soave, dall’altra, per virtus, da "rima aspra e sottile": è il congedo dalle "dolci rime d’amore" (IV, ii, 3), per trattare "del valore": "’… diporroe’, cioè lascerò stare, ‘lo mio stilo’, cioè modo, ‘soave’ che d'amore parlando [ho]e tenuto; e dico di dicere di quello ‘valore’ per lo quale uomo è gentile veracemente. E avegna che ‘valore’ intender si possa per più modi, qui si prende ‘valore’ quasi potenza di natura, o vero bontade da quella data, sì come di sotto si vedrà" (IV, ii, 11).

Soave ha un'estensione e intensificazione in dolce, aggettivo che sarà ben caro a Francesca, suggellato da memorabili versi e dalla definizione di "dolce stil novo" (Purgatorio XXIV, 57).

L’attributo bello deriva la sua significazione da Convivio (I, v, 14): "Dunque quello sermone è più bello, nello quale più debitamente si rispondono [li vocabuli; e più debitamente li vocabuli si rispondono] in latino che in volgare, però che lo volgare séguita uso, e lo latino arte. Onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile".

Dunque bello rende omaggio a Virgilio, omaggio, si direbbe, che Virgilio intertestualmente riconosce: chiamando a confronto il suo maestro e autore, Dante gli offre una prova retorica per attestare la propria autoelezione a discepolo, "nascondendola" nel verbo di un furtivo apprendimento, "tolsi": che, come luminosamente sottolineato da Giorgio Orelli (il poeta della via Ravecchia), è anagramma di stilo. Un lasciapassare di riconosciuto accosto, come tutta la strumentazione retorica e prosodica, e le autonomie dei significanti. E si potrebbe qui concludere, concordando almeno in parte con Boccaccio: "pon qui il preterito [ha fatto] per lo futuro [farà] faccendo soloecismo".

Per le  molte riflessioni che ne derivano si dovranno scorrere i commenti, dai primi ("commendandolo di eloquentia" postillava l’Ottimo) ai recenti e ai futuri. Forse basta osservare come Dante abbia insegnato che si deve procedere, e di molto, oltre le schede lessicografiche e semantiche, per comprendere, nella collocazione equivoca delle medesime componenti foniche, l’interfacciarsi e lo sfidarsi di significati altri.

A.S.

(Inferno XXVI, 80, 81)

O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco [...]

“S’io meritai di voi mentre ch’io vissi/ s’io meritai di voi assai o poco”: sono le parole con cui Virgilio si rivolge a Ulisse e a Diomede nel celebre episodio dell’Inferno. Il verbo meritare, che altrove in Dante ha costrutto transitivo e significato come quelli odierni ('ottenere giustamente qualcosa di positivo o di negativo'), in questi versi ha costrutto intransitivo e il significato di 'acquisire meriti, rendersi benemerito presso qualcuno, essere degno della sua considerazione'. Forse in omaggio ai due grandi eroi della letteratura classica, è quasi una citazione (con ellissi del complemento diretto) dall’Eneide al Libro IV, v. 235: “si bene quid de te merui”, tradotto da Andrea Lancia, coevo di Dante, con “se io alcuna cosa de te bene meritai” .

V.C.

(Inferno XV, 92)

Tanto vogl'io che vi sia manifesto,
pur che mia coscienza non mi garra,
ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.

Il verbo garrire, che per noi oggi nomina, come già in Petrarca, lo stridio delle rondini, in passato valeva anche 'rimproverare', 'rimordere' e in questo senso lo usa Dante qui e a Paradiso, XIX 147. In entrambi i passi lo adopera al congiuntivo (con forma senza l’interfisso -isc- che si userebbe oggi in garrisca) e in rima col raro arra, 'anticipo, caparra'. 

V.C.

(Purgatorio XXXIII, 90)

[...] e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina.

“Il ciel che più alto festina” è il Primo Mobile, il cielo che ruota veloce più in alto o in alto più veloce (in realtà le due cose contemporaneamente), “quel c’ha maggior fretta” (Paradiso I, 123). Festinare è un latinismo ('affrettare, affrettarsi') ripreso da Dante anche nella forma del participio (la “festinata gente” di Paradiso XXXII, 58 sono i bambini giunti in fretta in paradiso, perché prematuramente morti) e nella forma dell’aggettivo festino (festinus, 'pronto, rapido, veloce'). Anche se non è una sua coniazione, l’unico uso ricordato di questo verbo poi pressoché scomparso è quello di Dante.

V.C.

(Inferno XIV, 76)

Tacendo divenimmo là 've spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

Qui e in altri due luoghi del poema (Inferno XVIII, 68, Purgatorio III, 46) il verbo divenire, che Dante usa ripetutamente nei significati ancora comuni oggi di 'diventare, cambiare rispetto a prima', recupera il significato del verbo venire che lo compone e quindi il valore di 'giungere, pervenire'.

V.C.

(Paradiso XXX, 46)

Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l'atto l'occhio di più forti obietti [...]

“Come subito lampo che discetti/ li spiriti visivi”, che disgreghi gli spiriti visivi, che disturbi la vista. Dante usa il verbo discettare non nel significato che poi assumerà e conserva di 'trattare, discutere autorevolmente di qualcosa', ma con quello più vicino all’etimologia del latino disceptare, cioè 'prendere (captare), scartando (dis-) gli elementi superflui' (DELI), da cui poi l’attuale 'contrastare discutendo'. Il Poeta recupera il senso iniziale del dis captare, 'separare, disgregare, dividere' e lo attribuisce all’azione del lampo che abbaglia.

V.C.

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(Inferno V, 60)

Ell'è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.

“(Semiramide) tenne la terra che ‘l Soldan corregge”: che il Sultano regge, governa. Dante non ignora il significato odierno di correggere, 'eliminare uno sbaglio, cancellare un errore'; ma anche in questo caso gli serve quello etimologico di cum (intensivo) + regere, 'reggere, guidare'. Lo stesso significato il verbo ha a Purgatorio VI, 95 e molto probabilmente anche a Paradiso XI, 138 nel controverso: “e vedra’ il corregger che argomenta”: cioè, "capirai la rettifica, la correzione che precisa" ecc.

V.C.

(Paradiso XVIII, 74)

E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera [...]

Come uccelli levatisi in volo da un fiume, quasi festeggiando, facendo feste al cibo (appena trovato). Oggi, quando è solo, il verbo congratulare si usa unicamente in forma pronominale nel senso di 'rallegrarsi, complimentarsi con qualcuno di, per qualcosa'. Il brano riportato della Commedia lo adopera invece (ed è caso assai raro) con diatesi attiva, costruzione intransitiva e un significato un po’ diverso. Il complemento introdotto da a fa pensare al significato di 'fare festa a qualcuno o a qualcosa'. Il GDLI rinvia a questa bella osservazione dal Dizionario dei sinonimi del Tommaseo (edizione rivista dal Rigutini): "Qui [in Dante] non cadrebbe ‘ congratulandosi ’; ché (gli uccellini) non si congratulano della pastura l’uno dell’altro, ma si rallegrano della propria siccome grata; senso non dell’uso, ma chiaro e proprio".

V.C.

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(Paradiso IV, 43)

Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio, e altro intende [...]

La Sacra Scrittura scende, si abbassa per adeguarsi alla vostra capacità di intendere. Il verbo condiscendere (con + discendere, che Dante usa nella forma antica, latineggiante, descendere) ha oggi solo il significato traslato di 'acconsentire, indulgere, piegarsi (di chi è superiore verso chi sta sotto)'. Ma, nel passo citato, come spesso accade nella Commedia, ha ancora il suo significato etimologico, originario di 'scendere, abbassarsi'. 

V.C.

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(Inferno I, 55)

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutt' i suoi pensier piange e s' attrista [...]

È uno dei casi in cui la Commedia usa il verbo acquistare, che per lo più ospita in forma pronominale o con costrutto transitivo, in costruzione intransitiva e col significato oggi desueto di 'guadagnare'. In altri luoghi, come a Purgatorio IV, 38 e nel celebre Inferno XXVI, 126 “sempre acquistando dal lato mancino”, nello stesso costrutto, il verbo ha un altro significato anch’esso oggi perduto: quello di 'procedere, avanzare'.

V.C.

(Inferno XXXI, 110)

Allor temett'io più che mai la morte,
e non v'era mestier più che la dotta,
s'io non avessi viste le ritorte.

Dotta è un antico francesismo (dall'a.fr. doute ‘dubbio, ‘incertezza’). Dante si accosta al pozzo di Cocito e scorge, incatenati, i giganti (Inferno XXXI, 43-44: torreggiavan di mezza la persona / li orribili giganti…): tra questi Nembrot, Briareo, Anteo, Efialte (o Fialte), Oto e poi Tizio e Tifeo (o Tifo) che, tutti, avevano mosso guerra a Zeus e agli dèi dell’Olimpo sovrapponendo monte a monte. La paura sola (la dotta) bastava a uccidere Dante ("temett’io più che mai la morte"), se egli non avesse visto avvinti da catene quei mostri infernali ("s’io non avessi visto le ritorte").

E.B.

(Paradiso XXIX, 4)

[...] quant'è dal punto che 'l cenìt inlibra
infin che l'uno e l'altro da quel cinto,
cambiando l'emisperio, si dilibra [...]

È un arabismo (altrimenti reso come zenit: si tratta di ar. samt ar-rā’s ‘direzione della testa’ > ‘punto sopra la testa’) ed è termine tecnico dell’astronomia. Apollo (il Sole) e Diana (la Luna), trovandosi in due punti opposti del Cielo – l’uno nella costellazione dell’Ariete, l’altro in quello della Libra –, si bilanciano sul medesimo orizzonte ("fanno de l’orizzonte insieme zona") a ugual distanza dallo zenit. Successivamente ognuno dei due pianeti esce di bilancia ("l’uno e l’altro da quel cinto, / cambiando l’emisperio, si dilibra"). A tale momento Dante paragona l’istante in cui Beatrice, col volto atteggiato a riso e messasi a tacere ("col volto di riso dipinto, / si tacque"), volse lo sguardo verso il punto luminoso che pure aveva colpito Dante ("riguardando / fiso nel punto che m'avëa vinto").

E.B.

(Purgatorio VI, 76)

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!

Il nome dell'Italia ricorre ben undici volte nella Commedia, e non sempre come semplice riferimento geografico per indicare la penisola che si estende dalle Alpi al mare o che sta tra Tirreno e Adriatico. Dante non cullava certo in sé un'idea di nazione italiana come l'abbiamo noi o come l'ebbero gli uomini del Risorgimento, e tuttavia aveva ben chiara l'identità comune che univa e unisce tuttora gli abitanti della terra dove il sì suona. Insomma, non c'è poi tanto da ridere con saccenteria sull'idea che Dante sia uno dei nostri "padri della patria": lo è davvero. Ricordiamocene oggi, festa della Repubblica.

C.M.

(Inferno VIII, 53)

E io: "Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago".

Dante usa termini culinari rigirandoli spesso in altro senso. Questo non è il brodo dei cuochi stellati di oggi, ma l’acqua del fiume infernale, fangosa e paludosa e fumosa, acqua grassa e unta simile a broda, come nota giustamente Boccaccio. 

C.M.

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(Purgatorio V, 71)

[...] che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s'adori
pur ch'i' possa purgar le gravi offese.

Il verbo nella Commedia ha il significato etimologico di ad-orare, cioè rivolgere preghiere a qualcuno, pregare per qualcuno (Paradiso, XVIII, 125: “Adora per color che sono in terra”). Per questo ha costruzione intransitiva come in Inferno IV, 38 “non adorar debitamente a Dio” e non quella transitiva per noi più familiare col significato di ‘venerare’.

V.C.

(Purgatorio XXVIII, 18)

[...] ma con piena letizia l'ore prime, 
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime [...]

Nome della canna di cornamusa o corda della ghironda (tipico strumento a corde medievale) con cui si produceva il suono, grave e continuo, che faceva da base a una melodia. Forse da collegare al francese in cui bourdon valeva anche come ‘calabrone’ con valore onomatopeico. L’espressione tenere bordone in Dante ha ancora il significato di ‘accompagnare una melodia con un suono continuo’, ma assumerà un’accezione peggiorativa nel senso figurato di ‘accompagnare, aiutare qualcuno in una impresa’ (non esattamente edificante).

R.S.

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(Paradiso XXIX, 102)

[...] e mente, ché la luce si nascose
da sé: però a li Spani e a l'Indi
come a' Giudei tale eclissi rispuose.

Nel significato astronomico che ancora oggi possiede, il termine appare per la prima volta nella Composizione del mondo di Restoro d’Arezzo (1282). È presente anche in altri testi di argomento astronomico, ma sarà la Commedia a dargli forza di penetrazione: per la prima volta in un testo in volgare, infatti, Dante pone in relazione la parola eclissi con la morte di Cristo. Il poeta ricorda, però, che secondo la narrazione evangelica (Lc 23,44) il fenomeno fu visto in tutta la terra e dunque non si trattò di un’eclissi ma di un oscuramento del sole voluto da Dio.

R.L.

(Inferno XXX, 50)

Io vidi un, fatto a guisa di leuto,
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.

Nel fiorentino due-trecentesco indica la regione del corpo in cui termina l’addome e iniziano le cosce. È un termine di uso vivo e comune che non avrà continuità; per il tecnicismo anatomico, infatti, si torna alla base latina e inguine (da inguen/-nis) diverrà sia parola di uso comune sia termine specialistico.

R.L.

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(Paradiso XVI, 115)

L'oltracotata schiatta che s'indraca
dietro a chi fugge, e a chi mostra 'l dente
o ver la borsa, com' agnel si placa [...]

Neologismo dantesco usato, nella forma latineggiante indracare (lat. draco), col senso di ‘farsi feroce come un drago’, a indicare il comportamento crudele e aggressivo assunto dalla famiglia Adimari. Il verbo è rimasto circoscritto all’uso letterario e ha trovato successivi riscontri in autori come Pulci, Sannazzaro e, fra i moderni, Alfieri, Leopardi e Carducci.

F.D.C.

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(Paradiso XXVI, 17)

Lo ben che fa contenta questa corte,
Alfa e O è di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte.

Il nome della lettera greca ricorre nella Commedia nell’espressione, derivata dall’Apocalisse, “Alfa e O”, cioè “alfa e omega”, il principio e la fine di ogni cosa: tutta la terzina è infatti un richiamo a Dio, il bene che appaga la “corte” dei beati in Paradiso ma anche l’autore di ogni scritto che Amore legge agli uomini (a volte a voce alta, a volte quasi sussurrando).

B.F.

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(Purgatorio VI, 1)

Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara [...]

Forma popolare per azzara, gioco con tre dadi simile alla morra in cui si gridava “zara!” a ogni uscita di numeri perdenti. Dall’arabo zahr ‘dado’ che con l’articolo diventa az-zahr da cui azar spagnolo, hasard francese e azzardo italiano, la parola è già presente in Brunetto Latini, maestro di Dante.

R.S.

(Purgatorio VIII, 30)

Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate.

Tornato tristemente in auge in questo ultimo anno di pandemia, il verbo ha il significato originario di ‘fare vento, sventolare’. Veniva ventilato il grano, sollevato al soffio del vento o esposto a una corrente d’aria, per far volare via la parte di scorie leggere; in questo passo Dante usa il verbo in forma passiva per indicare le penne degli angeli mosse dal vento assimilate a tenere foglie agitate dalla brezza.

R.S.

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(Purgatorio XV, 14)

[...] ond' io levai le mani inver' la cima
de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio,
che del soverchio visibile lima.

Il termine indica propriamente quell’ampio telo, sostenuto da più aste, che ripara dalla luce solare: in altre parole, un baldacchino. Dante e Virgilio sono infatti investiti in pieno viso ("per mezzo ’l naso", v. 7) dai raggi solari, sempre più intensi, e il pellegrino si protegge gli occhi come può, creando una sorta di baldacchino con le proprie mani.

B.F.

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(Inferno VI, 36)

Noi passavam su per l'ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.

Nell’Inferno e nel Purgatorio Dante descrive il paesaggio come realtà concreta, ma i dialoghi con i personaggi sono talmente intensi che l’autore sente di dover ricordare al lettore che le anime sono senza corpo, “vanità che par persona”. E in Purgatorio XXI, 135-6, Stazio avverte che le anime sono "vanitate", ombre da non trattare “come cosa salda”. Il significato della parola è, dunque, 'inconsistenza corporea', invece in Paradiso XIV, 56, la parola ha il senso corrente di ‘caducità’.

G.B.

(Inferno XIII, 35)

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: "Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?"

La forma deriva dal verbo latino excarpĕre ‘strappare, svellere’ detto di ramo o sterpo, compare qui a sottolineare lo strazio dell’anima di Pier Delle Vigne, suicida, trasformato in arbusto in cui scorre il sangue. Il verbo, fortemente fonosimbolico, arriva fino a Montale in Tramontana: “è un urlo solo, un muglio di scerpate esistenze”.

R.S.

(Paradiso XXIII, 62)

[...] e così, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.

Se nell’Inferno Dante si riferisce alla sua opera usando il termine comedìa (Inf. XVI, 128 e Inf. XXI, 2), nel Paradiso la definisce invece sacrato poema (Par. XXIII, 62) o poema sacro (Par. XXV,1). In questa terzina Dante parla della difficoltà di descrivere il riso di Beatrice, su cui lo sacrato poema è costretto a sorvolare.

L.F.

(Inferno XXXI, 61)

[...] sì che la ripa, ch'era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma [...]

Si tratta della più antica attestazione della parola, qui usata in senso figurato per indicare la sponda del pozzo dei Giganti. Perizoma è un grecismo con significato etimologico di ‘che cinge intorno’ e indica la fascia o veste corta anticamente portata intorno ai fianchi da atleti o da frequentatori delle terme per coprire i genitali.

R.S.

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(Inferno XXXII, 129)

e come 'l pan per fame si manduca,
così 'l sovran li denti a l'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca [...]

Voce di origine araba attestata in italiano a partire dalla Commedia. Nei testi medievali il termine indica il midollo spinale (più raramente, la parte posteriore del collo). Nel canto XXXII dell’Inferno, assieme a cervel, nuca contribuisce dunque a definire – con precisione anatomica – il punto esatto in cui si conficcano i denti del conte Ugolino, chino sull’arcivescovo Ruggieri.

B.F.

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(Inferno XXXIII, 128)

E perché tu più volontier mi rade
le 'nvetriate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l'anima trade [...]

Invetriato, part. pass. di invetriare (derivato del latino vitreus ‘di vetro’), termine tecnico-specialistico appartenente all’ambito dell’arte vetraria, è usato qui con valore attributivo e significa ‘ghiacciato, congelato, reso simile al vetro’. Le lacrime di Alberigo sono invetriate, cioè ghiacciate a causa del freddo, dure come il vetro (visiere di cristallo, come le aveva definite al v. 98).

L.F.

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(Paradiso II, 36)

Per entro sé l'etterna margarita
ne ricevette, com'acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.

Nella Giornata internazionale UNESCO della Luce, siamo ammaliati dalla luce nel poema Dante. Consideriamo il sostantivo, e tralasciamo per ora il verbo lùcere (che ha forme come luce e luci, cfr. lat. luceo, e che ormai esiste solo come parola arcaica e letteraria, ma vive in certi dialetti, si pensi ai versi “Fenesta ca lucive e mo nun luce”). Luce sostantivo ricorre con frequenza nella Commedia, e più spesso, come ovvio, nel Paradiso, dove sovente si assiste a un rutilare di luci. Troviamo il sostantivo 5 volte nell'Inferno, 18 volte nel Purgatorio, e ben 72 volte nel Paradiso (al singolare, al plurale, e in vari significati, tra cui anche 'occhi', per metonimia; il verbo ha invece 2 occorrenze nel Purgatorio e 5 nel Paradiso). Dio stesso appare come luce. I versi che qui abbiamo scelto riconducono a un principio della fisica, seppure adattato ai beati celesti: la luce può attraversare certa materia, come l'acqua, senza per questo dividerla. Insomma, Dante, in una folgorante similitudine, descrive la trasmissione della luce.

C.M.

(Purgatorio XXVI, 69)

Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico s'inurba [...]

Neologismo dantesco, il verbo pronominale inurbarsi, derivato di urbe con il prefisso in-, è usato dal poeta col significato di ‘entrare, recarsi in città’. Il verbo ha avuto un largo successo e oggi è usato principalmente col senso di ‘trasferirsi in città dalla campagna’.

L.F.

(Inferno XI, 44)

[...] qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov'esser de' giocondo.

'Dissipare il denaro in giochi d'azzardo', 'sprecare'. Parola forte e realistica, anche nella forma fonica, per le consonanti "c" e "z", secondo un uso presente di Dante. Non piacque questa parola al Bembo, che la cita come esempio della tendenza di Dante a utilizzare un lessico basso, cosa che (a suo parere) sarebbe stata da evitare. A noi moderni Dante piace di più proprio perché ha usato parole del genere, ineleganti ma incisive.

C.M.

(Paradiso IV, 28)

D'i Serafin colui che più s'india,
Moisè, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria [...]

Neologismo e hapax dantesco, il verbo pronominale indiarsi, da Dio con il prefisso in-, significa ‘avvicinarsi a Dio attraverso la contemplazione, divenendo partecipe della beatitudine e della gloria divina’. A indiarsi sono i Serafini, la più alta gerarchia angelica.

L.F.

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(Inferno XX, 104)

Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede.

Nella bolgia degli indovini Dante chiede a Virgilio di indicargli se ci sia qualcuno “degno di nota” ovvero meritevole di considerazione, costruendo così per la prima volta, sul modello di altre analoghe già attestate precedentemente (degno di lode, di pena, di gloria, d’onore), un’espressione destinata a entrare e a radicarsi nell’uso comune. Si tratta del primo esempio in cui la parola nota assume il senso figurato di ‘traccia lasciata nella memoria’ (e non nell’appunto scritto) da qualcosa che suscita curiosità e interesse.

R.S.

(Purgatorio XXXIII, 48)

E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch'a lor modo lo 'ntelletto attuia [...]

'Perché a modo loro oltrepassa la capacità di comprensione’, riferito alla profezia che Beatrice esprime in termini enigmatici; dove intelletto rispecchia il latino intellectus ‘intelligenza’ e attuia, di solito interpretato come ‘offusca, impedisce’ andrà inteso col significato di ‘oltrepassa, supera’, ancora vivo nei dialetti toscani.

A.No.

(Inferno XXI,118)

Tra' ti avante, Alichino, e Calcabrina,
cominciò elli a dire, e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.

Alichino (o Alichin) è il nome del primo dei dieci diavoli inviati da Malacoda a ispezionare l’argine sinistro di Malebolge, dove stavano i barattieri. Il nome sembra derivare da quello di un diavolo della tradizione medievale francese (ma di origine germanica: germ. Hölle König ‘re dell’Inferno’; a.ingl. Helleking; a.fr. Hellequin Harlekin/Harlequin, latinizzato in Allequinus). Da tale diavolo, caratterizzato da tratti anche comico-giocosi, discenderebbe la maschera del nostro Arlecchino il cui nome è la italianizzazione di bergamasco Arlechì(n): tale maschera coniuga lo zanni bergamasco, tradizionale personaggio della Commedia dell’arte, con personaggi diabolici di matrice germanica mediati dalla tradizione medievale francese.

E.B.

(Purgatorio XXX, 44)

[...] volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto [...]

Questa parola, che nel De vulgari eloquentia è citata tra i vocabula puerilia, inadatti al volgare illustre, ha altre tre attestazioni nella Commedia, due delle quali in rima (come nel passo citato, che presenta dramma e fiamma nella terzina seguente). Due contesti richiamano ancora l’infanzia (“ché non è impresa da pigliare a gabbo / discriver fondo a tutto l’universo, / né da lingua che chiami mamma o babbo”, Inferno XXXII, 9; “E come fantolin che ’nver’ la mamma / tende le braccia, poi che ’l latte prese, / per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma”, Paradiso XXIII, 121), ma è diverso il caso in cui il poeta latino Stazio definisce mamma l’Eneide virgiliana (“Dell’Eneide dico, la qual mamma / Fùmi, e fùmi nutrice poetando: / Senza essa non fermai peso di dramma”; Purgatorio XXI, 97), fonte di ispirazione per lui (e per lo stesso Dante). 

P.D'A.

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(Inferno XXVII, 42)

Ravenna sta come stata è molt'anni:
l'aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni.

Vanni ‘ali’, qui, come sempre negli autori successivi, al plurale. Nella rassegna delle città di Romagna, indicate con i loro tiranni (v. 38), i da Polenta dominano anche Cervia oltre a Ravenna con le loro ali di aquila. Se in Dante, che nella Commedia la usa solo in questo passo, la parola è relativa ai rapaci e al potere, in molti poeti successivi vanni sono le ali di uccelli diversi o di insetti, di divinità mitologiche o di creature fantastiche: si tratta infatti di un poetismo comune nella tradizione lirica, epica e melodrammatica, usato anche in accezioni traslate e metaforiche.

I.B.

(Inferno XXI, 116)

Io mando verso là di questi miei
a riguardar s'alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei.

Contrasta in modo forte con la situazione dei barattieri immersi nella pece bollente l’espressione se ne sciorina, ‘se ne tira fuori’, in cui Dante sceglie, forse per ironica contrapposizione, il verbo sciorinare, di incerta etimologia, che vale propriamente ‘stendere i panni all’aria’, da cui i significati estesi oggi comuni di ‘esporre’ ed ‘elencare in modo prolisso ed enfatico’.

I.B.

(Inferno XV, 41)

Però va oltre: i' ti verrò a' panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni.

Masnada, che troviamo anche in Purgatorio II, 130 (masnada fresca, ‘gruppetto appena arrivato’), indica in questo passo, nelle parole di Brunetto Latini, la schiera di anime, con significato analogo a quello di greggia, che il maestro di Dante usa nella terzina precedente. Nel toccante dialogo tra Dante e Brunetto, dunque, la parola non ha alcun significato peggiorativo, semmai fa leva sulla condizione di sventura e pena di coloro che vi appartengono. La parola masnada, dal lat. parl. *mansionata(m), ‘gente di casa’, nel Medioevo indicava sia l’insieme dei servi che vivevano nella casa di un signore, sia l’insieme degli uomini armati del signore feudale, sia la compagnia di ventura; in seguito vede circoscritta progressivamente la propria area semantica alle armi e alla compagnia di ventura, passando poi ad assumere il valore dispregiativo che ha tuttora.

I.B.

(Inferno XXXI, 59)

La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l’altr’ossa [...]

Pina è la celebre pigna bronzea che, originariamente posta o nel mausoleo di Adriano o sulla cupola del Pantheon, Dante ebbe occasione di vedere nell’atrio della basilica di San Pietro a Roma dove era stata collocata da papa Simmaco (498-514) e che, oggi, è ancora visibile in Vaticano nel Cortile detto "della Pigna". Ad essa, la cui altezza superava i 4 metri, Dante paragona la minacciosa faccia del gigante Nembrot immaginando che il resto del corpo del mostro infernale (l’altr’ossa) fosse a quella proporzionato (a sua proporzione): un corpo gigantesco, appunto.

E.B.

(Purgatorio III, 128)

L’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte, presso a Benevento,
sotto la guardia della grave mora.

Co (da lat. caput) è un dialettismo, voce lombarda e significa ‘capo’, ‘testa’. Il passo dantesco si riferisce al giovane Manfredi che (ibid. 107, biondo […] e bello e di gentil aspetto), figlio di Federigo II, fu vinto e ucciso a Benevento dall’esercito di Carlo d’Angiò nel 1266 e fu sepolto all’imbocco (in co) del ponte del beneventano fiume Calore in un punto segnalato da un ammasso di pietre (sotto la guardia della grave mora); e da quel luogo, poiché Manfredi era stato scomunicato, Bartolomeo Pignatelli, vescovo di Cosenza, ne fece trasportare i resti mortali (l’ossa del corpo) fuori dal regno di Napoli (ibid. 131, fuor dal regno) lungo il Verde (o Liri/Garigliano).

E.B.

(Inferno XXXII, 7)

[...] ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.

Voce di origine provenzale, ormai disusata, che significa ‘burla, beffa’ e ricorre soprattutto nelle espressioni "farsi gabbo di qualcuno o qualcosa", ossia beffarsene, e "prendere" o "pigliare a gabbo", che vale, come nel passo in questione, ‘considerare alla leggera, con noncuranza; sottovalutare’. Oltre che nella Commedia, Dante la impiega anche nella Vita Nuova (insieme alla forma verbale gabbare), per indicare lo scherno di cui è fatto oggetto da Beatrice e da altre donne.

S.G.

(Inferno XXV, 79)

Come 'l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa [...]

Si tratta di una variante antica e letteraria del sostantivo sferza, che vale ‘frusta, scudiscio’ e, in senso figurato, ‘manifestazione intensa e violenta di un fenomeno naturale’, come il vento, la grandine o il calore bruciante dei raggi del sole, come nel passo citato. La forma, che ricorre anche in altri luoghi della Commedia (nella variante con -zferza), avrà delle riprese moderne in Pascoli, Montale e Gadda.

S.G.

(Paradiso I, 13)

O buono Appollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l'amato alloro.

Anche l'impegno letterario e culturale è un lavoro. Teniamolo a mente. Anzi, è un grande lavoro, e Dante può sognare come ricompensa l'alloro poetico. Non gli fu mai assegnato. L'incoronazione poetica toccò però a Petrarca, a Roma, l'8 aprile 1341: infatti l'iconografia lo mostra con in testa il lauro poetico. Uno dei "Poeti laureati", come diceva Montale. Anche a Dante si usa mettere in effigie la corona che non gli fu data in vita. La prospettiva finale dei valori sta nel giudizio del tempo edace, cioè sta nelle mani dei posteri (Bembo lo sapeva bene, e se la rideva dei contemporanei: sublime e solido classicismo). Si noti l'invocazione ad Apollo, divinità pagana, anche se siamo nel Paradiso: sincretismo dantesco e memoria classica.

C.M.

(Purgatorio XXIV, 39)

El mormorava; e non so che "Gentucca"
sentiv'io là, ov'el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.

Il verbo, di etimologia incerta, nel suo significato proprio e originario (con il quale è ancora oggi comunemente impiegato) indica l’azione di mangiare l’uva spiccandone a uno a uno gli acini dal grappolo e, per estensione, quella di mangiare a piccoli bocconi. Dante lo usa qui in senso figurato per ‘tormentare, consumare a poco a poco con tormenti incessanti’: la scelta del verbo è particolarmente azzeccata, se si pensa che l’oggetto di tali tormenti sono le anime dei golosi, afflitte da una fame e una sete insaziabili.

S.G.

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(Inferno III, 36)

Ed elli a me: "Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo".

È una delle molte espressioni di origine dantesca che grazie al successo della Commedia si sono diffuse anche nella lingua comune e risultano ancora oggi vive: nell’italiano contemporaneo "senza infamia e senza lode" è detto di una persona o di una cosa di valore e qualità mediocre, che non si distingue né in positivo, né in negativo. Dante la impiega per riferirsi, in maniera sprezzante, agli ignavi, ossia a coloro che sono vissuti senza prendere mai posizione e quindi senza mai meritare né il biasimo né l’elogio di altri uomini.

S.G.

(Purgatorio XIII, 52)

Non credo che per terra vada ancoi
omo sì duro, che non fosse punto
per compassion di quel ch'i' vidi poi [...]

Ancoi è voce di un dialetto italo-romanzo settentrionale, probabilmente lombardo (cfr. milanese incoeu ‘oggi’), significante ‘oggidì’, ‘al giorno d’oggi’, ‘nel tempo presente’: è uno dei dialettismi presenti nella tessitura lessicale della Commedia ed esso ricorre, e soltanto in rima, anche in due altri luoghi del Purgatorio: XX, 70;  XXXIII, 96.

E.B.

(Purgatorio I, 115)

L'alba vinceva l'ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.

In questi celebri versi, come in tutta la Commedia, il sostantivo ora (óra) equivale al latino hora. Non è mancato qualche commentatore che l’ha sentito come òra, il suo omografo non omofono equivalente del latino aura, 'brezza'. Òra 'brezza', che ha un’attestazione dantesca inequivocabile in Convivio II, I ("dirizzato l’artimone della ragione all’ora del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di dolce cammino") è voce rara e poetica, ma ha anche, ancora oggi, una sua circolazione popolare nelle varietà settentrionali: la Òra, ad esempio, è il più noto tra i venti del Lago di Garda.

G.C.

(Inferno XXIX, 83)

[…] e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.

Nome di un pesce d’acqua dolce dalle squame dure e spesse (meglio noto come scardola): la voce, un latinismo di origine germanica (da *skarda ‘tacca, crepa’, poi passato in molte lingue romanze nel significato di ‘scheggia, scaglia’), è tra quelle di più forte colorito idiomatico della Commedia. Nel Cinquecento, Bembo citerà proprio questo passo per esemplificare (e condannare) la frequente presenza in Dante di un lessico concreto e realistico.

S.G.

(Purgatorio I, 71)

Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.

Due volte appare la forma tronca libertà nella Commedia, altre tre volte libertate, e mai nell'Inferno. Qui, dove si parla di Catone, la parola può ben risuonare adatta a celebrare un giorno quale il 25 aprile. Lasciamo da parte i problemi critici relativi al suicidio di Catone e al suo essere pagano, elementi che non impediscono a Dante di farne un simbolo della morale cristiana. Il suicidio di Catone per motivi etici è comunque considerato da Dante quale supremo atto eroico.

C.M.

(Inferno XVIII, 16)

[...] così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e' fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.

Oltre a quello citato, lo troviamo anche in altri 15 loci di Malebolge, dove indica l’arcata di pietra che fa da ponte tra le bolge infernali nell’ottavo cerchio. Potente immagine dell’architettura infernale. Altre accezioni: quella odierna di roccia marina (Inferno XVI, 135), forse ligurismo (cfr. Anonimo Genovese, fine sec. XIII); a cui si aggiunge scoglio di Purgatorio II, 122 che ha il significato di 'involucro corneo delle serpi lasciato con la muta annuale', scoria'.

L.C.

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(Inferno V, 137)

[...] la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.

È un libro, nel senso proprio e concreto del termine, l’oggetto che Dante immagina al centro della vicenda di Paolo e Francesca: un libro che, come Galeotto nel celebre romanzo arturiano di Lancillotto e Ginevra, diventa intermediario e testimone silenzioso della passione segreta fra i due cognati. Ma i versi del canto V dell’Inferno sono popolati di molti altri libri, che trapelano indirettamente, richiamati dalle dotte citazioni di Francesca o evocati attraverso i loro protagonisti senza tempo (Didone, Elena, Achille, Tristano): "le donne antiche e ’ cavalieri" (v. 71) che, come i due amanti di Rimini, hanno dimenticato la ragione per abbandonarsi all’istinto e qui scontano la loro colpa travolti dall’eterna bufera.
Altrove libro acquista significati figurati, non diversamente da volume (es. Paradiso XXXIII, 86) o quaderno (es. Paradiso XVII, 37). Con riferimento a una lunga tradizione, il termine può indicare metaforicamente la mente umana in cui si “scrivono” i ricordi, come nel proemio della Vita Nuova: "In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere..." (I, 1).

B.F.

(Inferno XVIII, 106)

Le ripe eran grommate d'una muffa,
per l'alito di giù che vi s'appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.

Il termine è attestato per la prima volta nella Commedia, dove ricorre due volte. Nell’Inferno, in particolare, muffa indica il sedimento molle che incrosta le pareti ("ripe") della bolgia degli adulatori. La sostanza è generata dalle terribili esalazioni ("alito") che provengono dallo sterco in cui sono “attuffati” i dannati.

B.F.

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(Paradiso XXII, 141)

Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell'ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.

Ricorre in Dante soltanto quattro volte, sempre nel Paradiso, con particolare riferimento all’aspetto “irregolare” della materia lunare. L’aggettivo, attestato per la prima volta proprio nella Commedia, è un latinismo scientifico rarissimo nell’italiano antico. Oggi, probabilmente grazie anche alla fortuna del poema dantesco, denso è una parola a noi familiare e d’uso comune.

B.F.

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(Purgatorio XI, 25)

Così a sé e noi buona ramogna
quell'ombre orando, andavan sotto 'l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna [...]

Le anime dei superbi, curve sotto il peso di un macigno, invocano buona ramogna, cioè ‘purificazione, benedizione’, con un derivato dell’antico italiano ramognare ‘purificare’ e ‘benedire’, dal latino volgare *remundiare, variante del latino ecclesiastico remundare ‘purificare, mondare dai peccati’.

A.No.

(Inferno XXVIII, 37)

Un diavolo è qua dietro che n'accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma [...]

Neologismo, nel senso di 'attanaglia', si credeva un tempo, o meglio, come interpretano gli esegeti moderni, antifrasticamente, 'acconcia', costruito sul francese acesmer o sul provenzale acesmar. Questo conio su di una lingua straniera non ha avuto seguito nell'italiano, ma è interessante ricordare che Tommaseo, nel suo grande Vocabolario, paragonava accismare al toscano cisma 'odio', 'rancore', pur sospettando, alla fin fine, che l'etimologia della parola popolare toscana dovesse essere ben diversa, da scisma; lo stesso Tommaseo, poi, di fronte a un'evidente ripresa letteraria dell'accisma dantesco da parte del poeta satirico fiorentino Menzini (1646-1704), pur riconoscendo la citazione dotta, arrivava a chiedersi se accismare non fosse per caso ancora vivo tra la gente toscana; non era così, ma il dubbio, espresso da quel grande lessicografo e studioso delle tradizioni popolari, mostra tutto il fascino e il peso che poteva avere una parola di Dante, anche dopo secoli di oblio.

C.M.

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(Paradiso XXXIII, 94)

Un punto solo m'è maggior letargo
che venticinque secoli a la 'mpresa,
che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.

Grecismo (λήθαργος), giunto a Dante per via dotta attraverso il latino. Il termine qui vale ‘oblio’. Dante ha appena contemplato la visione di "ciò che per l’universo si squaderna" (Paradiso XXXIII, 87) e, vinto dall’emozione, ha difficoltà a ricordare: un istante solo ("un punto") del tempo trascorso dopo quella visione ha prodotto in lui maggior oblio di quello prodotto dall’impresa degli Argonauti quando Nettuno, stupefatto e per la prima volta, vide proiettarsi sul mare l’ombra di una nave ("l’ombra d’Argo"). Prima di quel momento il mare, mai solcato da alcun naviglio, non aveva conosciuto ombre.

E.B.

(Inferno XVIII, 37)

Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.

Riferito ai diavoli che fanno correre i dannati a frustate; "levar le berze" equivale ad ‘alzare i tacchi’, dove berze è variante di verze ‘cavoli’ con un valore metaforico ancora vivo in locuzioni dialettali come il milanese "portà foeura i verz d’on sit" ‘andarsene da un luogo’ e il comasco "toeu su la sverza" ‘darsela a gambe’.

A.No.

(Inferno XXI, 7)

Quale ne l'arzanà de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani [...]

Arzanà è un arabismo (ar. dār aṣ-ṣinā‘a ‘casa di costruzione’, ‘cantiere’ > ‘darsena’, ‘arsenale’). Dante paragona il cupo, terribile ambiente di Malebolge al vivace fervore d’opere dell’arsenale di Venezia che - come pare di capire dalla vivezza dell’immagine evocata - egli davvero ebbe modo di ammirare in occasione di un suo passaggio a Venezia collocabile tra il 1308 e il 1310.

E.B.

(Paradiso XXIII, 6)

[...] che, per veder li aspetti disiati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati [...]

Dante lo usa nel senso di 'gradito', 'leggero'. Al tempo di Dante esisteva il verbo aggratare 'essere gradito', usato da Guittone, e in napoletano antico si trova agrato ("non me èy agrato").

C.M.

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(Paradiso I, 109)

Ne l'ordine ch'io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine [...]

Latinismo, usato da Dante con il valore di 'inclinato', 'disposto', cioè 'tutte le cose create partecipano all'ordine dell'universo, hanno una comune inclinazione al fine ultimo'. Sulla parola si soffermarono gli antichi commentatori del Poema. Acclinare, verbo, fu ancora usato da Giovanni Colombini nello stesso secolo di Dante, poi praticamente accline / acclinare sparirono. Accline ricomparve nel Cinquecento con il significato fisico di 'inclinato', 'in discesa' (nel Varchi): Noi moderni diremmo piuttosto incline.

C.M.

(Inferno XVIII, 103)

Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l'altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.

‘Si duole, si lamenta’, riferito agli adulatori immersi nello sterco; nicchiare, che dai commentatori è precisato come il lamentarsi delle donne prossime al parto, deriva da nicchia e descrive la situazione in cui la donna con le doglie si dimena nel proprio letto.

A.No.

(Inferno IV, 96)

Così vid'i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com'aquila vola.

La tradizione per cui l’aquila è capace di volare più in alto degli altri uccelli risale alla Bibbia ed è presente anche nella letteratura classica greco-romana. In questo passo a essere paragonato a un’aquila è il poeta Omero (o, secondo altri, Virgilio) oppure, forse più verosimilmente, lo stile tragico. In ogni caso, l’espressione “com’aquila vola” è così famosa da essere entrata anche nella lingua comune (in cui invece "non è un’aquila" si riferisce a una persona non molto intelligente). In un altro passo (Paradiso VI, 1) con aquila Dante intende l’impero o l’esercito romano (che aveva l’aquila come insegna). Nella Commedia l’uccello è designato anche come aguglia (forma derivata dalla stessa base latina).

P.D'A.

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(Purgatorio IV, 64)

[...] tu vedresti il Zodiaco rubecchio
ancora a l'Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio.

"Il zodiaco rubecchio" ‘il circolo delle costellazioni’, dove zodiaco conserva il suo valore originale di aggettivo dal latino zodiacus ‘zodiacale’ e rubecchio, il cui significato proprio è ‘ruota dentata del mulino’, deriva dal latino volgare *orbiculu(m), diminutivo di orbis ‘cerchio’.

A.No.

(Inferno I, 85)

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.

In questo e in molti altri passi (in un caso nella forma ridotta mastro, in rima con "vincastro" e "’mpiastro"), il sostantivo è riferito a Virgilio e lo qualifica come ‘modello, esempio da seguire’ e anche come ‘guida’. In Dante la parola indica anche l’insegnante di scuola, chi insegna una disciplina o un’arte, l’artefice (e con tal senso si riferisce anche a Dio, in quanto creatore dell’universo).

P.D'A.

(Inferno XXIII, 16)

Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa.

Nel significato di 'aggomitolare', 'far matassa' (dunque Dante teme che nei diavoli ira si possa sommare, aggiungere, a mal volere). Aggueffarsi è confermato come neologismo dantesco, in rima 'difficile' con acceffa. Non è una parola rimasta solo sua, perché, dopo secoli di oblio, aggueffare fu recuperato da ben due scrittori, uno il Menzini, l'altro il romanziere ottocentesco Vittorio Imbriani: potere di Dante! Citando le sue parole più rare, gli scrittori mostravano, quasi esibivano, la propria raffinata cultura linguistica.

C.M.

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(Inferno I, 2)

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

L’aggettivo oscuro è usato molto spesso da Dante per indicare mancanza di luce o di chiarezza, in senso proprio o figurato. Nel famosissimo incipit del poema compare al femminile e si riferisce alla selva poco illuminata in cui il poeta si è smarrito, ma allude anche alla ragione  ottenebrata dal peccato. La variante popolare scuro si trova, sempre al femminile, in Purgatorio XI, 96, riferita alla fama del pittore Cimabue, ormai messa in ombra dal successo di Giotto. 

P.D'A.

(Paradiso XIX, 137)

E parranno a ciascun l'opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze.

È voce di numerosi dialetti italo-romanzi settentrionali per indicare ‘zio’. Dante si riferisce con tale settentrionalismo a Jaume I re di Maiorca (1213-1276); il "fratel" citato nei versi è Jaume II di Maiorca e re d’Aragona (1243-1311). Entrambi con le loro male imprese ("l’opere sozze") hanno disonorato ("han fatto bozze") una già gloriosa ("egregia") stirpe ("nazione") e due regni ("corone"): quello di Maiorca e quello d’Aragona.

E.B.

(Inferno XXV, 2)

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: "Togli, Dio, ch'a te le squadro!".

Dante fa riferimento a un gesto osceno usato ai suoi tempi a scopo di offesa o di scherno, che consisteva nel porre il pollice fra l’indice e il medio serrando la mano a pugno e rivolgendola a qualcuno. Qui il dannato Vanni Fucci osa addirittura rivolgerlo a Dio. Fiche è plurale di fica, a sua volta femminile di fico, che in italiano antico indicava, come il maschile, sia l’albero sia il frutto. Il significato metaforico, tuttora vivo, di ‘organo sessuale femminile’ è documentato solo posteriormente, ma c’è chi ritiene che proprio ad esso si riferisca il gesto di fare le fiche.

P.D'A.

(Paradiso XXXI, 131)

[...] e a quel mezzo, con le penne sparte,
vid’io più di mille angeli festanti,
ciascun distinto di fulgore e d’arte.

Gli angeli per Dante sono le intelligenze celesti che sono state separate dalla materia, creature più vicine a Dio e quindi segno di perfezione; così appaiono nella terzina scelta, festanti nell’esaltazione di Maria Vergine. Nella Commedia gli angeli hanno anche specifiche funzioni di ministri di Dio nel Purgatorio (come ad esempio l’angelo nocchiero di Purgatorio II, 29, o gli angeli che sorvegliano i vari passaggi). Vi sono poi gli angeli neri, che con la loro ribellione hanno rinunciato al proprio abito di luce precipitando all’inferno; e quelli neutrali, che non hanno saputo scegliere tra il bene e il male e che quindi subiscono la stessa sorte degl’ignavi.
Nella Commedia due sono i riferimenti all’arcangelo Gabriele per l’annunciazione a Maria (Purgatorio X, 34 e Paradiso XIV, 36); ma non ve ne sono per l’angelo che annuncia la resurrezione di Gesù Cristo, che invece Dante richiama esplicitamente nel Convivio: "…e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non lo truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo la testimonianza di Mateo e anche delli altri [Evangelisti], era angelo di Dio" (4, XXII, 15).

M.B.

(Paradiso VII, 146)

E quinci puoi argomentare ancora
vostra resurrezion, se tu ripensi
come l'umana carne fessi allora
che li primi parenti intrambo fensi.

La parola resurrezione è strettamente legata alla Pasqua cristiana che festeggia appunto il giorno in cui Gesù Cristo risorge dal sepolcro. Ma fa riferimento anche al ricostituirsi del corpo in veste immortale e al suo ricongiungimento con l’anima nel giorno del giudizio universale. Proprio in questo significato la forma tronca resurrezion compare nell’unica occorrenza all’interno della Commedia, per bocca di Beatrice.
Nel Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612 alla voce Resurressione, e resurrezione si legge: "Il risuscitare, risurgimento, Lat. resurrectio"; e non manca, al primo posto, l’esempio dantesco della Commedia, seguito da quello dello Specchio di vera penitenza di Iacopo Passavanti (dove invero ci si riferisce specificamente alla resurrezione “pasquale” di Gesù). La voce rimane invariata nella seconda edizione e nella terza si arricchisce unicamente con l’aggiunta di un esempio ripreso dal Trattatello in laude di Dante di Boccaccio. Nella quarta, invece, compare la definizione "Pasqua di Resurrezione, si dice la Solennità celebrata dalla Chiesa della resurrezione di Cristo".

M.B.

(Inferno XXXIII, 73)

[...] vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno [...]

Originariamente ha il significato di ‘toccare, ‘tastare’. Nella Commedia indica l'azione del conte Ugolino che, reso cieco dall'inedia, muove le mani procedendo a tentoni sopra i corpi dei figli ormai morti, nell'angusta cella della torre della Muda: l'accezione dantesca di brancolare è alla base dell’uso del verbo dal Trecento fino a oggi.

C.Mu.

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(Inferno III, 9)

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.

Sono gli ultimi tre versi di un’iscrizione, verosimilmente in caratteri cubitali, vergata sulla sommità della porta che immette nell’Inferno. Svincolata dal contesto originario, l’espressione "Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate" (con minime varianti) ricorre largamente nell’italiano contemporaneo per indicare situazioni estreme di difficoltà o di pericolo.

R.C.

(Inferno XXI, 139)

[...] ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta. 

La parola non ha bisogno di spiegazioni, perché è ben viva nell'italiano di oggi, anche se Dante la usa con un troncamento poetico che la fa consuonare con i dialetti settentrionali d'Italia. Lo sconcio segnale del diavolo Barbariccia è una forma di realismo dantesco, ma è anche la prova che Dante non aveva paura di chiamare le cose con il loro nome. Pane al pane e vino al vino, con buona pace di tutti coloro che si fossero eventualmente scandalizzati per l'altra parola realistica e brutale da noi presentata l'8 gennaio, anche questa ben presente nell'italiano del nostro tempo.

C.M.

(Inferno XXXIII, 150)

"Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi". E io non gliel'apersi;
e cortesia fu lui esser villano.

Frate Alberigo, traditore e uccisore dei parenti, rivolge a Dante la preghiera di aprirgli gli occhi velati dalle lacrime congelate. Ma Dante rifiuta commentando: "e cortesia fu lui esser villano" (cioè ‘fu atto di cortesia essere villano’ con tale spregevole essere). Cortesia, parola-chiave della civiltà medievale, ha qui un significato accostabile al nostro: ‘gentilezza di modi’, ‘urbanità’, ‘garbo’. 

R.C.

(Paradiso, XIII, 63)

Quindi discende a l'ultime potenze
giù d'atto in atto, tanto divenendo,
che più non fa che brevi contingenze [...]

Latinismo della filosofia. Dante ne fa spiegare il significato a S. Tommaso, indicando come contingenze le cose generabili e corruttibili, non necessarie. In Paradiso XVII, 37 il poeta fa usare il termine contingenza all’avo Cacciaguida per indicare le cose terrene, materiali e accidentali, in rapporto alla conoscenza eterna di Dio [S.M.]
Termine filosofico che indica ciò che è contingente, accidentale, non necessario, come tutto ciò che accade nella vita (“le cose contingenti” di Paradiso XVII, 16). Oggi è parola nota più nella sua valenza economica di parte variabile delle retribuzioni legata al costo della vita. [V.C]

S.M., V.C.

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(Purgatorio X, 128)

Di che l' animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?

Dal greco automata, che (forse) Dante aveva ripreso dalle traduzioni latine dei trattati scientifici di Aristotele per indicare i vermi che si riproducono come da soli, alla cieca, nel terreno. Un ben singolare antenato del moderno automa

V.C.

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(Paradiso XV, 33)

Così quel lume: ond’io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui [...].

I due avverbi compaiono insieme in tre passi del Paradiso, con l’originario valore locativo di “di qua e di là”, “da una parte e dall’altra”. La locuzione viene tuttora usata con tale significato, ma in contesti prevalentemente scherzosi, perché quinci è uscito dall’uso e quindi ha sviluppato altri significati, come avverbio temporale o come congiunzione testuale.

P.D'A.

(Inferno I, 51)

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame [...]

L’aggettivo, che vale ‘infelice, misero’ ("genti grame") è usato da Dante cinque volte nell’Inferno, che è esso stesso definito "mondo gramo" (XXX, 59); e anche nell’unica occorrenza della seconda cantica il vocabolo ("giostre grame", Purgatorio XXII, 42) allude alle giostre dei dannati del quarto cerchio infernale, gli avari e i prodighi.

S.M.

(Inferno XXIII, 94)

E io a loro: "I' fui nato e cresciuto
sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa,
e son col corpo ch'i' ho sempre avuto".

Non conosciamo il giorno esatto della nascita di Dante, tra maggio e giugno 1265, ma quello del suo battesimo sì, il 26 marzo 1266, e oggi ne ricorre l'anniversario. In questi versi Dante dichiara con fierezza e passione la sua nascita a Firenze, anche se non nomina la città, ma solo il suo fiume.

C.M.

(Inferno I, 1)

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Questo sostantivo, che nel primo verso della Commedia figura apocopato in cammin, è molto frequente nel poema e anche nelle altre opere dantesche. Il suo significato varia a seconda del contesto e può essere, di volta in volta, ‘atto del camminare’, ‘viaggio’, ‘strada’, ‘via’, ‘percorso’, ‘procedimento’, ‘comportamento’. Qui, come in altri passi, equivale a ‘corso (della vita)’, la cui metà corrispondeva a trentacinque anni. Siamo all’inizio del viaggio salvifico di Dante, che, secondo l’ipotesi più accreditata, prende l'avvio il 25 marzo del 1300. 

P.D'A.

(Paradiso XXVII, 77)

Onde la donna, che mi vide assolto
de l'attendere in su, mi disse: "Adima
il viso e guarda come tu se' vòlto".

Neologismo parasintetico dantesco. 'Volgere verso il basso'. Beatrice invita Dante ad abbassare il viso e a guardare quale tratto di cielo ha percorso. Nella forma pronominale (Purgatorio XIX, 100): 'scendere repentinamente verso il basso' ("ad imo", cfr. Paradiso I, 138), 'sfociare (detto di un corso d’acqua)'. 

L.C.

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(Paradiso IX, 100)

[...] né quella Rodopea che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
quando Iole nel core ebbe rinchiusa.

La “Rodopea, che delusa / fu da Demofoonte”, significa che la donna nata vicina al monte Rodope fu illusa da Demofoonte, figlio di Teseo. Deludere, dal latino de-ludere, 'prendersi gioco', e delusione valevano ‘illudere, ingannare, illusione’ e hanno conservato questo significato fino all’Ottocento, tanto che non sono ancora registrate nel senso moderno dal dizionario del Tommaseo e le antiche Crusche rinviavano da illudere a deludere.

V.C.

(Paradiso XXX, 66)

Di tal fiumana uscian faville vive,
e d'ogne parte si mettien ne' fiori,
quasi rubin che oro circunscrive [...]

Pietra preziosa spesso utilizzata nella poesia del Duecento e del Trecento per riferirsi alle qualità della donna amata, nella Commedia è scelta per la sua calda luminosità per indicare gli angeli, rappresentati nella visione dantesca dell’Empireo come faville luminose e più avanti paragonati a topazi.

C.Mu.

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(Inferno VIII, 79)

Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
"Usciteci", gridò: "qui è l'intrata".

Oggi diremmo "giro", come del resto Dante fa molte volte. Aggirata ci ricorda il successo in italiano dei sostantivi da participio passato, maschile o femminile. Ce ne sono molti ancora oggi (entrata, partita, resa, partito, vissuto, reso ecc.), ma Dante ne adopera, come qui, alcuni poi usciti dall’uso (sensato, 'sensi', Paradiso IV, 41, portato, 'figlio', Purgatorio XX, 24), anche se molti più di lui, da lui evitati e oggi perduti, ne avevano usato i poeti che lo precedettero.

V.C.

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(Purgatorio XXII, 62)

Se così è, qual sole o quai candele
ti stenebraron sì, che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?

Probabile formazione dantesca da tenebra o da tenebrare, ha il significato di 'liberare dalle tenebre' e dunque 'illuminare'. Nel Purgatorio, è usato in senso figurato per indicare la conversione di Stazio, che ha trovato la via della fede grazie a Virgilio e alla sua opera.

C.Mu.

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(Inferno XXXII, 9)

[...] ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.

Babbo, insieme a mamma, è per Dante l’appellativo per indicare i genitori nella lingua infantile e familiare. Anche nel De vulgari eloquentia (II, vii, 4) le parole babbo e mamma sono le prime a essere indicate come inadatte al volgare illustre, perché “puerilia propter sui simplicitatem” (puerili per la loro semplicità). Sono quindi particolarmente inadatte per descrivere il punto centrale di tutto il cosmo, come è necessario fare all'inizio del XXXII canto dell'Inferno. Nel Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612 alla voce babbo si legge “Padre, e dicesi solo da' piccoli fanciulli, e ancora balbuzienti”; e solo nella quinta edizione il significato si allarga allo “stile familiare e giocoso”. Nell'italiano odierno la lotta con la variante papà sembrerebbe perduta; ma – chi scrive è un babbo toscano e quindi lo perdoneranno i papà delle altre regioni italiane – si può certamente sostenere che per ogni bambino toscano che dice papà c’è un babbo che soffre.

M.B.

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(Purgatorio XXIII, 86)

Ond'elli a me: "Sì tosto m'ha condotto
a ber lo dolce assenzo d'i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.

L'assenzio è propriamente una pianta erbacea, utilizzata per le sue proprietà terapeutiche e aromatiche, dalla quale si estrae un succo amaro. Nell'espressione ossimorica "lo dolce assenzo", l'assenzio indica la natura delle pene purgatoriali, amare da sopportare ma al contempo dolci in quanto mezzo di salvezza.

C.Mu.

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(Inferno XXXIII, 80)

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti [...]

Bel Paese è un’espressione che spesso usiamo per indicare l’Italia, talvolta anche con ironia, quando la associamo alla notizia di qualcosa di brutto (lo scempio del paesaggio e simili). Ci viene da Dante, che l’ha usata anche lui insieme con parole di sdegno. Nel canto XXXIII dell’Inferno, parlando dei grandi traditori e rievocando la terribile fine che l’arcivescovo di Pisa inflisse al conte Ugolino della Gherardesca – imprigionato in una torre e lasciato morire di fame insieme con un figlio e un nipote – il poeta si scaglia contro la città, che ritiene corresponsabile di questo orrore, e si augura che le isole Capraia e Gorgona, che sono davanti alla foce dell’Arno, si spostino verso lo sbocco del fiume e provochino un’alluvione che uccida tutta la popolazione pisana. E così inveisce contro di essa (vv.79-80): "Ahi Pisa, vituperio delle genti / del bel paese dove ‘l sì sona", cioè dove si usa la particella affermativa , un particolare che Dante aveva già notato nel suo trattato De vulgari eloquentia.
L’espressione dantesca ha avuto, poi, altri rinforzi. È stata ripresa da Petrarca in un sonetto (CXLVI) nel quale l’Italia è descritta come "il bel paese / che Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe" (dove parte vuol dire “divide in due versanti”). Alla fine dell’Ottocento, il naturalista e fervente patriota comasco Antonio Stoppani dette il nome Il Bel Paese a un suo libro (1876), che descriveva l’Italia ed ebbe grandissima fortuna nel clima postrisorgimentale. Sull’onda di questo rilancio, un produttore di formaggi lombardi dette furbamente (nel 1906) lo stesso nome a un tipico formaggio molle, che sull’etichetta delle confezioni recava il profilo geografico d’Italia e il ritratto di Stoppani. Anche il gioco commerciale era fatto! 

F.S.

(Paradiso XI, 99)

[...] di seconda corona redimita
fu per Onorio da l'Etterno Spiro
la santa voglia d'esto archimandrita.

‘Capo (archè) mandria (mandra)’ alla lettera: è il grecismo, dal latino ecclesiastico, che Dante usa per S. Francesco fondatore del nuovo ordine a lui intitolato. Un sinonimo colto e raro del titolo di "pastore" che già Dante usava per indicare vescovi e papi. Oggi è usato per i superiori dei monasteri ortodossi e per i patriarchi cattolici, come quello di Venezia.

V.C.

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(Inferno XXXII, 97)

Allor lo presi per la cuticagna,
e dissi: "El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui su non ti rimagna".

'Collottola'; “prendere per la cuticagna” vale prendere per i capelli, per la collottola. La parola è derivata da cotica, a sua volta dal latino cutem, ‘pelle’ ed è quindi corradicale di cotenna e cotechino

V.C.

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(Inferno XII, 117)

Poco più oltre il centauro s'affisse
sovr'una gente che 'nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.

Dal verbo bullicare, che significa 'formare bolle', bulicame è attestato per la prima volta nella Commedia, dove indica il Flegetonte, fiume infernale di sangue bollente. Bulicame era chiamata anche la fonte termale esistente presso Viterbo (come toponimo ricorre infatti a Inferno XIV, 79-81: "Quale del Bulicame esce ruscello / che parton poi tra lor le peccatrici, / tal per la rena giù sen giva quello."

C.Mu.

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(Paradiso IV, 118)

"O amanza del primo amante, o diva",
diss'io appresso, "il cui parlar m'inonda
e scalda sì, che più e più m'avviva [...]"

È un provenzalismo che significa ‘amata’ (“dal primo amante”): è uno dei sostantivi in -anza che, pur usato da Dante, non ha poi avuto seguito. Tra questi anche beninanza, dilettanza, disianza, fallanza, fidanza, nominanza (cantato ancora nel Simon Boccanegra di Verdi) e permutanza. Tutti gli altri da lui ammessi sono usati ancora oggi, magari in forma un po’ diversa, come onranza (Inferno IV, 74) o orranza (Inferno XXVI, 6) che sopravvive nelle nostre ‘onoranze (funebri)’. 

V.C.

(Inferno XXXIII, 106)

Ond'elli a me: "Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l'occhio la risposta,
veggendo la cagion che 'l fiato piove".

È un avverbio col significato di ‘presto’, ‘velocemente’, dal latino vivacius, comparativo di vivax- vivacis, ‘più vivo, più rapido’. Di qui anche il verbo avacciare, 'affrettare, accelerare', di "Purgatorio" VI, 27 e IV, 116.

V.C.

(Purgatorio XVIII, 22)

Vostra apprensiva da esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l'animo ad essa volger face [...]

È un sostantivo femminile che indica ‘la facoltà conoscitiva’, ‘la capacità di apprendere’ dell’uomo. Erano chiamate (dalle traduzioni latine di Aristotele) con questo tipo di nome in -iva le “virtù” o capacità che aveva la natura, specie quella umana. Nella Commedia si nominano anche la virtù stimativa, che fa riconoscere l’oggetto percepito dai sensi, quella immaginativa, che trattiene le immagini, quella formativa o informativa che dà forma nel processo di generazione.

V.C.

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(Inferno X, 81)

Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa.

La parola arte ha molti significati in Dante, come capacità di fare, capacità tecnica, potenzialità in atto. Ma anche l'E.D. non ha notato che qui, nella profezia di Farinata, dove si riprende la medesima parola usata poco prima da Dante (v. 51), il termine arte è impiegato in modo sarcastico per indicare l'arrabattarsi penoso di chi è condannato all'esilio e si dà da fare per tornare in patria. Oggi, 10 marzo 2021, ricordiamo che il 10 marzo 1302 il podestà Cante de' Gabrielli da Gubbio aveva stilato la sentenza di morte sul rogo (di fatto arbitraria, come nota A. Barbero, D., p. 157) per i 15 condannati per baratteria nei faziosi processi condotti nei mesi precedenti. Tra essi, Dante Alighieri, undicesimo nella lista. Il suo nome si legge, non senza nostra emozione, nel Libro del Chiodo.

C.M.

(Inferno XXI, 54)

Poi l'addentar con più di cento raffi,
disser: "Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi".

"sì che, se puoi, nascosamente accaffi", cioè ‘in modo che, se ti riesce, tu possa arraffare senza esser visto’, battuta sarcastica dei diavoli a un barattiere; accaffare è voce plebea dal significato certo di ‘arraffare, acciuffare’, ma d’incerta provenienza.

A.No.

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(Paradiso XXXIII, 13)

Donna, se' tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre
sua disianza vuol volar sanz'ali.

Per la Giornata internazionale dei diritti della Donna, rendiamo omaggio a tutte le donne con le parole di Dante. Donna è parola molto usata da Dante, sia col senso antico che aveva nel latino, sia con il senso moderno, in un uso poetico che si svolge dal verso famosissimo Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia fino a Donna, se' tanto grande e tanto vali.

U.V.

(Purgatorio XIX, 101)

Intra Siestri e Chiaveri s'adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima. 

Corso d’acqua torrentizio. La "fiumana bella" si riferisce al fiume Lavagna (in Val Fontanabuona, nel Chiavarese, che dalla località di Siestri - oggi frazione abbandonata del Comune di Neirone - sfocia presso Chiavari prendendo nell’ultimo tratto il nome di Entella). "Conti di Lavagna" è il titolo nobiliare dei Fieschi: chi parla è Ottobono Fieschi. Altra occorrenza in Inferno II, 108 (metaf.) e Paradiso XXX, 64. (fig.) in cui vale 'flusso di luce' in cui è immerso il corteo dei beati e degli angeli nell’Empireo.

L.C.

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(Purgatorio, V, 135)

Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
disposando m'avea con la sua gemma.

Si tratta di uno dei tanti verbi parasintetici creati da Dante, meno originale di altri perché normalmente formato a partire da un nome, ma caratterizzato (almeno secondo il testo vulgato) dal raddoppiamento della n del prefisso. Il significato non è uno di quelli che ha oggi il verbo inanellare (‘foggiare ad anello’ o figuratamente, ‘dire o collezionare più cose, una dopo l’altra, come gli anelli di una catena’), ma quello di ‘mettere l’anello, cioè la fede nuziale, a una donna sposandola’. È attestato solo in questo verso (messo in bocca a Pia de' Tolomei, fatta uccidere dal marito), al participio passato femminile (dipendente dal successivo ausiliare avea), nella forma aferetica, accanto al verbo disposare e al nome gemma ‘pietra preziosa’ e quindi, per metonima, ‘anello’.

P.D'A.

(Paradiso XXV, 73)

"Sperino in te", ne la sua teodia
dice, "color che sanno il nome tuo":
e chi nol sa, s'elli ha la fede mia?

Nell’Ottavo Cielo (Stelle Fisse), S. Giacomo interroga Dante su cosa sia, da dove abbia origine e quale sia l’oggetto della Speranza, la prima delle tre virtù teologali. Dante, evocando il verso 11 del salmo IX intonato da David ("Sperent in te qui noverunt nomen tuum"), introduce la parola teodìa ‘canto di Dio’: si tratta di uno pseudogrecismo creato da Dante (Θεός ‘Dio’+ ᾠδή ‘canto’) sulla base e per assonanza di forme quali comedìa, melodìa, tragedìa; grecismi, questi, di tradizione colta e rispettanti appunto l’accentazione delle rispettive parole greche (κωμῳδία, μελῳδία, τραγῳδία) e ben noti a Dante per il tramite del latino (ove avevano però accentazione diversa: ‘alla latina’, appunto). 

E.B.

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(Paradiso X, 138)

[...] essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidiosi veri.

Sigieri di Brabante (1240 c.-1282), filosofo fiammingo, a Parigi "nel vico de li strami" (cioè nella rue du Fouarre, sede della antica Sorbona), leggendo Aristotele (cioè ‘insegnando’: leggere nel significato medievale di ‘insegnare’: cfr. lezione ‘insegnamento’) secondo l’interpretazione eterodossa che di Aristotele aveva dato Averroè, giunse ragionando ("sillogizzò") a verità ("veri") che gli procurarono profondi odii ("invidiosi"). Sigieri fu accusato di eresia dall’arcivescovo di Parigi e, sottoposto al giudizio di Simon du Val, inquisitore di Francia, fu costretto a lasciare Parigi. Il tormentato filosofo giunse infine a Orvieto, ove intendeva scagiornarsi davanti al papa Martino IV che là risiedeva ma, proprio a Orvieto, morì pugnalato dal suo segretario improvvisamente impazzito. L’aggettivo invidioso ha in Dante significato diverso rispetto al valore attuale.

E.B.

(Inferno V, 63)

L'altra è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.

Mentre il sostantivo lussuria, che indica il desiderio smodato di soddisfare i piaceri sessuali (vizio capitale opposto alla virtù cardinale della temperanza), ricorre varie volte in Dante, l’aggettivo corrispondente è attestato solo in questo passo, al femminile, riferito a Cleopatra. Poiché siamo già nel girone dei lussuriosi, alcuni commentatori ritengono che qui significhi “amante del lusso”.

P.D'A.

(Paradiso XV, 92)

Poscia mi disse: "Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent'anni e piùe
girato ha 'l monte in la prima cornice [...]

‘Parentela’, una parola dalla feconda radice di nascinascere, come l’usuale cognato (co+natus). In latino però indicava i consanguinei. Ma già nel Poema i cognati (i due famosi di Inferno V, ricordati a VI, 2) sono, come per noi oggi, gli affini in via collaterale.

V.C.

(Purgatorio VII, 121)

Rade volte risurge per li rami
l'umana probitate; e questo vole
quei che la dà, perché da lui si chiami.

Il sintagma in Dante significa 'attraverso i figli' (con ramo usato al plurale in senso figurato) in un contesto in cui si sostiene che non sempre questi ereditano le virtù paterne. Oggi l’espressione (che mantiene l’articolo dell’italiano antico li, normale dopo per) si usa soprattutto con il verbo discendere per indicare rapporti di filiazione o di derivazione indubbi, anche se non evidenti.

P.D'A.

(Inferno I, 87)

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m' ha fatto onore.

Questo è lo stile poetico di cui Dante è fiero, lo stile che ha imparato leggendo i grandi modelli classici, Virgilio per primo: perché la poesia è prima di tutto arte di lingua, cioè stile. 

C.M.

(Inferno I, 21)

Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m' era durata
la notte ch' i' passai con tanta pieta.

La forma, modellata sul nominativo latino pietas, tende a distinguersi da pietà, pietate, pietade (tratte dall’accusativo pietatem e usate anch’esse da Dante) per significare specificamente 'tormento', 'angoscia', come nel passo citato, oppure 'affetto', 'devozione' che i figli provano per i genitori, come nel passo: “né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre” (Inferno XXVI, 94-95; parla Ulisse, che poco prima ha menzionato il pius Enea).

P.D'A.

(Paradiso XVII, 24)

[...] dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch'io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura [...]

Capace di resistere agli urti della sfortuna. Una parola della geometria mirabilmente promossa alla morale.

C.M.

(Inferno XXVI, 119)

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.

Non uomini, ma quasi animali, o animali a tutti gli effetti, incapaci di desiderio di conoscenza, privi della nobile spinta che agisce nell’uomo, anche se non è priva di rischio, come insegna appunto il canto di Ulisse.

C.M.

(Paradiso IX, 81)

[...] perché non satisface a' miei disii?
Già non attendere' io tua dimanda,
s'io m'intuassi, come tu t'inmii".

Neologismo di Dante per indicare la penetrazione della conoscenza di altri in me stesso, fino all’identificazione e alla comprensione totale.

C.M.

(Paradiso XXVIII, 3)

Poscia che 'ncontro a la vita presente
d'i miseri mortali aperse 'l vero
quella che 'mparadisa la mia mente [...]

Beatrice “imparadisa” la mente di Dante, cioè colloca la sua mente nel cielo, rendendolo atto a contemplare le cose celesti. 

C.M.

(Paradiso VI, 79)

Con costui corse infino al lito rubro;
con costui puose il mondo in tanta pace,
che fu serrato a Giano il suo delubro.

Latinismo per 'rosso', che Dante usa soltanto nell’espressione "lito rubro" (evidentemente calcata sul litore rubro di Virgilio) per indicare 'le coste del mar Rosso', e quindi come toponimo.

P.D'A.

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(Paradiso III, 97)

"Perfetta vita e alto merto inciela
donna più su", mi disse, "a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela [...]

La vita perfetta di santa Chiara di Assisi la “inciela”, cioè la mette nel cielo. Dante non aveva paura di usare parole nuove per descrivere l’esperienza paradisiaca e la dimensione sovra-umana.

C.M.

(Inferno XX, 130)

"[...] ben ten de' ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda".
Sì mi parlava, e andavamo introcque.

Avverbio, col significato di “intanto”, “frattanto”, che compare solo in questo passo (in rima con nocque) e che Dante nel De vulgari eloquentia aveva indicato come proprio della parlata fiorentina e troppo municipale per entrare nello stile curiale.

P.D'A.

(Inferno V, 89)

O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno [...]

‘Di colore scuro’. Si tratta di un termine indicante una tonalità che dal rosso o dall’azzurro scuro tende al nero, usato come aggettivo anche nel senso generico di ‘cupo’.

P.D'A.

(Inferno III, 18)

Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto.

Lo usa Virgilio di fronte alla porta dell’inferno, per indicare le genti infelici, i dannati che hanno perso la possibilità di incontrare Dio. Ma nell’italiano di oggi l’espressione è usata laicamente per indicare la pienezza della razionalità umana nella sua completezza appagante.

C.M.

(Inferno XXXIII, 60)

[...] ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia [...]"

Dante usa solo in questo passo della Commedia la forma popolare derivata dal lat. manducare (a sua volta da mandere “masticare”), presto sostituita, già nell’italiano antico, dal francesismo mangiare. Va segnalato che nel De vulgari eloquentia il poeta aveva citato una forma dello stesso verbo (manichiamo) come particolarità municipale fiorentina che il volgare illustre non avrebbe dovuto accogliere.

P.D'A.

(Paradiso II, 77)

[...] esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e 'l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.

La parola ricorre nella Commedia tre volte, due in senso metaforico (aere grasso = denso; fanno grassi = si arricchiscono), una sola in senso proprio, in riferimento agli strati di grasso e magro presenti in un corpo fisico: il paragone è utilizzato, sorprendentemente, per discutere, niente meno, di una dibattuta questione astronomica, un problema che sarà ancora al centro dell'attenzione di Galileo, cioè la causa delle macchie lunari. 

C.M.

(Paradiso XVI, 114)

Così facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando a consistoro.

Nella condanna di Cacciaguida per la Firenze moderna, ben diversa da quella dei tempi passati, l'espressione "farsi grassi" viene usata in senso metaforico, in un modo che è ben familiare anche all'italiano di oggi: non in senso fisico, come aumento di peso corporeo, ma come incremento di ricchezza venale acquisita in modo non del tutto limpido, a cui facciamo riferimento con un certo spregio.

C.M.

(Inferno V, 103)

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona. 

Oggi, nella giornata di San Valentino, vogliamo rendere omaggio a tutti gli innamorati, tornando per un momento all'interpretazione romantica del passo di Francesca, rileggendolo alla maniera di un grande poeta, Ugo Foscolo. Ecco una sublime storia d'amore di fronte alla quale l'Inferno stesso sembra sparire. Restano solo Paolo e Francesca, con il loro grande amore: la parola-chiave "amor" viene scandita impressivamente per tre volte, con forte anafora, all'inizio di tre terzine (vv. 100-106).

C.M.

(Purgatorio XIV, 46)

Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso. 

Sono cani piccoli e di poca forza, ma che si sfogano nel latrare e abbaiare. Dante lo usa come spregiativo.

C.M.

Vai al grande Vocabolario dantesco dell'Accademia della Crusca

(Paradiso VI, 46-47)

[...] onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ' Fabi
ebber la fama che volontier mirro.

Dante allude a Cincinnato che prese il nome dalla capigliatura scomposta, arruffata: due i latinismi accostati cirro ‘ricciolo’ e negletto ‘trascurato’.

A.N.

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(Purgatorio I, 117)

L'alba vinceva l'ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina [...]

Dante adopera il verbo tremolare, che significa ‘tremare, oscillare leggermente’, soprattutto con riferimento ai bagliori intermittenti della luce.

P.D'A.

(Inferno XVII, 19)

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi [...]

Imbarcazione da trasporto a fondo piatto, a vela o a remi, usata in acque fluviali o lacustri, ma in generale barca a remi. Per similitudine, la posizione del burchio con la prua tirata in secco sulla spiaggia e la poppa nell'acqua descrive quella della fiera Gerione con il busto e la testa sulla riva e la coda nell'acqua.

A.N.

(Paradiso XIII, 57)

[...] ché quella viva luce che sì mea
dal suo lucente, che non si disuna
da lui né da l'amor ch'a lor s'intrea [...]

Neologismo e hapax dantesco formato sul numerale tre, con cui Dante indica lo Spirito Santo che si inserisce tra il Padre e il Figlio come terzo nell'unità trinitaria.

C.G.

(Inferno XVII, 22)

[...] che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s'assetta a far sua guerra [...]

‘Castoro’, parola attestata per la prima volta in Dante, è il latino biber/beber di provenienza gallica o germanica (inglese beaver, tedesco biber). Il castoro è un erbivoro, ma si credeva che si nutrisse di pesce pescato con la coda; nel verso lo bivero s’assetta a far sua guerra Dante allude alla guerra ai pesci.

A.N.

(Inferno XXV, 31)

[...] onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d'Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece.

Detto dello sguardo vale “minaccioso, malevolo”, ma Dante usa l’aggettivo in senso morale per definire le azioni “scellerate” di Caco, represse da Ercole con violenza. Nel verso "opere biece" il plurale dell’aggettivo si presenta come in altri casi danteschi o di autori antichi, con la palatalizzazione del tema; la forma può alternare con quella di uso odierno ("biechi", "bieche").

A.N.

(Inferno, VI, 34)

Noi passavam su per l'ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.

Con valore causativo: ‘piega, obbliga le anime a star chine’; altra occorrenza in Purgatorio, XI, 19: "Nostra virtù che di legger s’adona/ non spermentar", qui con valore riflessivo ‘si piega, cede’ e quindi ‘non mettere alla prova la nostra virtù che facilmente cede alla tentazione’, corrispondente a ne nos inducas in tempationem; dal latino volgare *se addonare ‘darsi, dedicarsi, far dono di sé’, derivato di donare col prefisso ad-.

A.No.

(Purgatorio XIX, 2)

Ne l'ora che non può 'l calor dïurno
intepidar più 'l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno [...]

Il verbo, hapax dantesco, significa ‘far diventare tiepido’ e si riferisce alle prime ore dell’alba quando il sole ha ormai disperso il proprio calore nella notte.

C.G.

(Paradiso XVII, 98)

Non vo' però ch'a' tuoi vicini invidie,
poscia che s'infutura la tua vita
vie più là che 'l punir di lor perfidie.

Neologismo dantesco formato sull’aggettivo futuro, vale ‘prolungarsi nel futuro’ e ricorre nella profezia di Cacciaguida. L’allusione può essere alla vita terrena di Dante, oppure alla sua fama. Il verbo avrà delle riprese moderne in D’Annunzio, Montale e Pasolini.

C.G.

(Paradiso VIII, 61)

[...] e quel corno d'Ausonia che s'imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga. 

Neologismo dantesco formato su borgo ‘fortezza’, usato da Dante per alludere al Regno di Napoli, delimitato dalle fortezze di Bari, Gaeta e Catona (Reggio Calabria).

C.G.

(Inferno X, 36)

Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com'avesse l'inferno a gran dispitto.

Si tratta di una variante di dispetto ‘disprezzo’, che compare nel canto di Farinata e che è rimasta in italiano nell’espressione usata da Dante appunto in quel passo: avere in gran dispitto (qualcuno o qualcosa).

P.D'A.

(Inferno I, 32)

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta [...]

Dante nella Commedia indica con questo termine la prima fiera che gli va incontro nella selva oscura, considerata simbolo del vizio della lussuria e identificata dai commentatori di volta in volta con la lince, il ghepardo o il leopardo, come pare più probabile data la pelle coperta di macchie. Anche la lonza che indica il taglio di carne che compriamo oggi dal macellaio o dal salumiere è parola usata da Dante, non nella Commedia, ma in una delle Rime ("ma peggio fia la lonza del castrone").

P.D'A.

(Inferno XXVI, 114)

[...] a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza [...]

Dante non usa mai “veglia”. Nel canto di Ulisse, la veglia dei sensi è quella breve vita terrena che precede il lungo sonno della morte.

C.M.

(Inferno XV, 96)

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra.

Attrezzo da muratore, o anche (come lo nomina Dante) da contadino, la zappa, aggeggio necessario nel ciclo agricolo dell’anno; ma il Poeta lo nomina con un certo disprezzo, come cosa rozza e manuale di cui non intende curarsi, affaccendato in più alti disegni, pur nell’avversa fortuna.

C.M.

(Inferno III, 109)

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.

“Occhi che sembrano carboni ardenti”, con riferimento a quelli di Caronte, il primo demonio che Dante incontra nell’Inferno. L’espressione è poi entrata nell’uso e ha tenuto così in vita la forma bragia, variante del più diffuso brace.

P.D'A.

(Inferno XIV, 108)

La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e 'l petto,
poi è di rame infino a la forcata [...]

Usata solo da Dante col valore di ‘biforcazione, parte del busto da cui partono gli arti inferiori, inguine’, è spiegata da Boccaccio con inforcatura, ancora oggi in uso.

A.N.

(Inferno XVII, 21)

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi [...]

'Mangione, ingordo, beone', latinismo derivato da lurcare ‘mangiare avidamente’. Nel verso Dante attribuisce “lurchi” a “li tedeschi”. Nel periodo risorgimentale e post-risorgimentale l’aggettivo dantesco si carica di una forte connotazione politica e diviene epiteto ingiurioso rivolto a tedeschi e austriaci.

A.N.

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(Inferno XXII, 139)

Ma l'altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.

Termine di origine provenzale, usato da Dante come aggettivo, nel significato di “rapace”, riferito allo sparviero selvatico a cui è paragonato il diavolo Alichino che, attaccato da un altro diavolo, Calcabrina, lo artiglia a sua volta. Nell’uso letterario posteriore ha assunto spesso il significato di “minaccioso”, “fiero”, detto di occhio, sguardo, ecc.

P.D'A.

(Purgatorio XI, 105)

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il "pappo" e 'l "dindi" [...]

Dante esemplifica così il linguaggio bambinesco (usato, più ancora che dai bambini, dagli adulti che parlano ai bambini), fatto di strutture fonologiche semplici e ripetitive e di onomatopee. Il significato delle due voci è, rispettivamente, “pane” o “cibo” (normalmente si trova come pappa, femminile) e “denari, monete” (come plurale o con valore collettivo).

P.D'A.

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(Purgatorio XXXII, 117)

[...] e ferì 'l carro di tutta sua forza;
ond'el piegò come nave in fortuna,
vinta da l'onda, or da poggia, or da orza.

Rispettivamente il lato sopravvento di un’imbarcazione e quello sottovento. Nel verso le locuzioni da poggia e da orza si riferiscono ai due lati della barca colpiti dal vento durante un fortunale. 

A.N.

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(Inferno XXVIII, 25)

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia. 

‘Budella, intestini’ di uomini e di animali.

A.N.

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(Purgatorio XIV, 56)

Né lascerò di dir perch'altri m'oda;
e buon sarà costui, s'ancor s'ammenta
di ciò che vero spirto mi disnoda.

Si tratta di un verbo formato sul sostantivo mente “tenere a mente, ricordarsi”; la stessa base è in rammentare/si “richiamare alle mente, ricordare” che Dante usa soltanto in rima e con diverse sfumature di significato sia nel Purgatorio sia nel Paradiso. I due verbi, attestati a partire dal XIII secolo, hanno sorte diversa: ammentare/si ha una vita breve e da tempo è parola obsoleta, rammentare/si è ancora oggi comune soprattutto nell’italiano di Toscana.

A.N.

(Paradiso VI, 73)

Di quel che fé col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l'inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente.

Latinismo usato da Dante per indicare il “portatore” del segno dell’Impero, cioè l’imperatore: Dante era convinto che l’istituzione universale dell’antico impero di Roma continuasse anche ai suoi tempi, con Arrigo VII.

C.M.

(Paradiso XXVIII, 39 )

[...] e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s'invera.

Neologismo dantesco per indicare l’immedesimarsi con il Sommo Vero, il divenire partecipi della verità. È uno dei neologismi della Commedia che ha avuto continuità: è stato, infatti, adoperato nel linguaggio filosofico con il significato di ‘rendere vero’. 

R.L.

(Paradiso XXVIII, 93 )

L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.

Neologismo dantesco formato sul numerale mille, riferito alla moltiplicazione vertiginosa del numero degli angeli, che la mente umana non è in grado di contenere. Il verbo fu ripreso da Boccaccio e, in epoca moderna, da Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Saba e Montale.

C.G.

(Paradiso XXIV, 87 )

[...] ma dimmi se tu l'hai ne la tua borsa".
Ond'io: "Sì ho, sì lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla mi s'inforsa"

Neologismo dantesco formato sull’avverbio forse, significa ‘essere in dubbio’. Il verbo, usato anche come intransitivo non pronominale, ebbe un certo successo e fu ripreso, tra gli altri, da Petrarca, Boccaccio, Tasso, Alfieri.

C.G.

(Paradiso IX, 40 )

[...] del nostro cielo che più m'è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,
questo centesimo anno ancor s'incinqua [...]

“Questo centesimo anno ancor s’incinqua”. Neologismo e hapax dantesco formato sul numerale cinque, che significa ‘si ripeterà cinque volte’ e si riferisce alla fama del trovatore Folchetto di Marsiglia, destinata, secondo Dante, a durare molto a lungo.

C.G.

(Paradiso XXX, 87 )

[...] come fec'io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l'onda
che si deriva perché vi s'immegli [...]

Neologismo dantesco formato sull’avverbio meglio, significa ‘diventare migliore’ e si riferisce alla facoltà visiva del poeta. Rare le riprese successive di tale verbo, la più significativa delle quali è forse quella di Vincenzo Gioberti nell’opera Del rinnovamento civile dell’Italia (1851).

C.G.

(Paradiso XII, 11 )

Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube [...]

L’aggettivo, che ha il significato di ‘dello stesso colore’ (dal lat. concolorem), è usato una sola volta, al plurale, riferito al fenomeno atmosferico dell’arcobaleno doppio, a cui vengono paragonate le due corone di beati nel cielo del Sole.

P.D'A.

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(Paradiso VI, 77 )

Piangene ancor la trista Cleopatra,
che, fuggendoli innanzi, dal colubro
la morte prese subitana e atra.

Latinismo per “serpente velenoso”, che indica specificamente l’aspide con cui Cleopatra si diede la morte.

P.D'A.

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(Paradiso IX, 81 )

[...] perché non satisface a' miei disii?
Già non attendere' io tua dimanda,
s'io m'intuassi, come tu t'inmii"

Neologismo dantesco formato sul pronome personale tu e usato, insieme a inmiarsi, per esprimere la compenetrazione degli spiriti beati. Il verbo è stato ripreso successivamente da Alfieri e, in tempi a noi vicini, dai poeti Cesare Ruffato e Davide Rondoni. 

C.G.

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(Purgatorio, XII, 89 )

A noi venìa la creatura bella,
biancovestito e ne la faccia quale
par tremolando mattutina stella.

“Vestito di bianco”, aggettivo usato in funzione attributiva, riferito a un angelo. È un composto in cui, come nelle lingue classiche, la testa (propriamente un participio passato) occupa la seconda posizione, modello per altri analoghi aggettivi usati nella lingua letteraria posteriore.

P.D'A.

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(Purgatorio XI, 81 )

"Oh!", diss'io lui, "non se' tu Oderisi,
l'onor d'Agobbio e l'onor di quell'arte
ch'alluminar chiamata è in Parisi?"

Una sola attestazione in Dante di questo termine tecnico dell’arte dei miniatori, richiamato espressamente come un francesismo (Dante ci avvisa che quest’arte è così chiamata a Parigi: c’era mai stato? Anche questo è un mistero).

C.M.

(Paradiso, XXVIII, 23 )

Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che 'l dipigne
quando 'l vapor che 'l porta più è spesso [...]

È un latinismo molto raro, coniato direttamente su halos. Dante se ne serve per indicare l’alone degli astri. Il termine non avrà seguito e solo nel XVI sec. entrerà in italiano alone.

R.L.

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(Purgatorio XXVI, 87 )

[...] in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge. 

Il verbo, formato su bestia, è usato in riferimento a Pasifae, la quale si rinchiuse in una vacca di legno per farsi possedere da un toro. Non sfugga la ripetizione del verbo nello stesso verso, prima come ‘entrare dentro una bestia’ (s’imbestiò), poi, nella forma participiale, come ‘in una sagoma di legno a forma di bestia’ (imbestiate schegge).

C.G.

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(Inferno, XVIII, 116 )

E mentre ch' io là giù con l'occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parea s' era laico o cherco.

Questa parola (che ricorre due volte nella Commedia) non è certo sconosciuta agli italiani del nuovo millennio. Realismo dantesco, che si esplicita bene nei canti di Malebolge. Plurilinguismo dantesco, che gli permette di dire tutto e parlare di tutto. Dante, poeta che sa essere molto concreto, e anche brutale. 

C.M.

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(Inferno, XXXII, 30)

[...] com' era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l' orlo fatto cricchi.

Voce onomatopeica (forse la più antica attestata nell’italiano scritto), con cui Dante rende il rumore dello scricchiolio del ghiaccio che sta per rompersi, riferendosi al Cocito, il fiume ghiacciato infernale, che neppure i monti Tambernicchi e Pietrapana, cadendovi sopra, sarebbero riusciti a scalfire.

P.D'A.

(Inferno, XXIV, 111)

[...] erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,
e nardo e mirra son l'ultime fasce.

La misteriosa mirra, una resina, era reputata sostanza medicinale e veniva usata anticamente anche nell’imbalsamazione. La portarono in dono i Magi a Gesù, assieme all’incenso. Dante la nomina una sola volta. La pone tra le sostanze connesse alla mitica Fenice: incenso, amomo, nardo e, appunto, mirra.

C.M.

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(Paradiso, X, 143)

[...] che l'una parte e l'altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che 'l ben disposto spirto d'amor turge [...]

Voce onomatopeica, usata da Dante per indicare il gradevole suono prodotto dalle ruote del congegno di un orologio a sveglia, a cui viene paragonata la corona delle anime beate che appaiono a Dante, muovendosi in giro e cantando.

P.D'A.

(Inferno, V, 25)

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote

Dante comincia a sentire le grida di dolore dei condannati per aver peccato di lussuria. La diffusione della Commedia a livello popolare ha portato all’uso comune dell’espressione dolenti note per intendere ‘fatti, circostanze, argomenti spiacevoli’.

A.N.

(Inferno, V, 101)

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende

Espressione con cui Francesca da Rimini si riferisce al proprio corpo, di cui Paolo si innamorò e da cui l’anima è stata violentemente separata. Dante la usa in senso fisico; oggi l’espressione si riferisce invece a chi ha doti morali (generosità, lealtà, ecc.).

P.D'A.

(Inferno, II, 52)

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.

È detto da Virgilio parlando di sé, perché sta nel Limbo, ma è passato nell’italiano come forma proverbiale per indicare uno stato di incertezza e di attesa.

C.M.

(Paradiso, I, 70)

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l' essemplo basti
a cui esperienza grazia serba

Neologismo dantesco per indicare un’esperienza che va oltre l’umano. Dante lo usa per indicare l’avvicinamento a Dio, ma il termine può essere esteso ad ogni condizione che vada al di là dell’esprimibile, dove le parole non bastano più.

C.M.

GLI AUTORI

Per le citazioni del poema si fa riferimento all'edizione allestita da Giorgio Petrocchi (Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Id., Firenze, Le Lettere, 1994; 1a ed.: Milano, Mondadori, 1966-1967), con alcune normalizzazioni grafiche ormai condivise dalle edizioni moderne e accolte dal Vocabolario Dantesco.