Agli utenti che ci chiedono quale sia l'origine delle denominazioni camorra, mafia e 'ndrangheta, risponde Alberto Nocentini affrontando le tre controverse questioni etimologiche. Abbiamo ritenuto opportuno di pubblicare il testo in tre parti distinte: questa settimana è la volta di camorra.
Oltre a indicare tre forme simili di malavita organizzata, proprie di tre regioni italiane (rispettivamente la Campania, la Sicilia e la Calabria), i tre termini condividono due caratteristiche storiche che li accomunano: l’aver avuto un periodo di trasmissione sotterranea, che ne ha ritardato l’attestazione nei documenti ufficiali, e l’esser nati come designazioni esterne sostitutive delle denominazioni interne, generiche e asettiche, come onorata o bella società, cosa nostra o semplicemente sistema. La prima caratteristica rappresenta l’ostacolo più serio alla ricostruzione etimologica per il divario cronologico fra il momento della formazione e la data delle prime testimonianze documentarie, mentre la seconda indirizza la ricerca della motivazione originaria non verso l’ambito ristretto della descrizione oggettiva, ma verso il campo aperto delle applicazioni metaforiche. In parole semplici, indipendentemente dalla gravità e dalla perniciosità dei fenomeni che rappresentano, i tre termini sono parole come tutte le altre, che andranno indagate cogli strumenti consueti dell’indagine etimologica.
Per evitare un’inutile dispersione di energie e d’informazione, in quanto autore del più recente vocabolario sull’argomento (L’Etimologico, Firenze, Le Monnier, 2010), mi prendo la responsabilità di selezionare solo le proposte che abbiano qualche solido fondamento e che portino a risultati plausibili, passando sotto silenzio i tentativi dilettanteschi ed evitando i vicoli ciechi, e chiedo al lettore un supplemento di fiducia nella mia competenza specialistica, indirizzandolo verso la soluzione da me preferita coll’avvertenza che in tutti e tre i casi si tratta di soluzioni non (ancora?) approvate e condivise dal mondo accademico.
Cominciamo col napoletano camorra, che presenta le testimonianze più antiche, anche se la sua consacrazione ufficiale si avrà nel 1862 col rapporto circostanziato di Marco Monnier (La camorra. Notizie storiche raccolte e documentate, Firenze, Barbera). Nel suo Vocabolario domestico napoletano e toscano (Napoli, 1841) Basilio Puoti registra gamorra come “giuoco proibito dalla legge, che si fa da vili persone; e anche il luogo stesso dove si giuoca. Biscazza, biscaccia” e gamurrista come “colui che giuoca nelle gamorre. Biscaiuolo, biscazziere”; citazioni confermate da Vincenzo De Ritis nel Vocabolario napoletano lessigrafico e storico (Napoli, 1845), che registra: “in gergo dicesi camorra e camorristi i giuochi e i giocatori di vantaggio [cioè d’azzardo], quasi collegati insieme per ingannare i troppo semplici”. La testimonianza più antica fa sempre riferimento a una casa da giuoco nota come la camorra innanzi Palazzo, che ricorre in un decreto regio sul gioco d’azzardo, la prammatica De aleatoribus del 1735.
Scartando le ipotesi meno plausibili (chi ne avesse curiosità può consultare la rassegna di Enzo Giudici in Etimologia e lessico dialettale, Pisa, Pacini, 1981, pp. 379-397), prendiamo in considerazione quella che ci sembra la più fondata nella formulazione del compianto Alberto Zamboni (Lessicografia dialettale: ricordando Paolo Zolli, Roma-Padova, Antenore, pp. 519-526): la voce camera presenta varianti dialettali con -o- interna (càmmora) e con accento piano e raddoppiamento di -r- (camerra), che avrebbero prodotto un derivato *camorraro, variante di cameraro, col significato di ‘biscazziere, taglieggiatore dei giocatori d’azzardo’, da cui il retroderivato camorra ‘luogo dove si pratica il giuoco d’azzardo, bisca’ e poi ‘società di malfattori, associazione a delinquere’. I punti deboli di questa ipotesi restano due: il termine chiave *camorraro, che è presupposto ma non attestato, e il passaggio di significato da ‘bisca’ a ‘società di malfattori’, che non è sufficientemente dettagliato nella motivazione.
In una monografia consacrata all’argomento dal titolo Lessico e camorra (Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2008), corredata di una documentazione esauriente e ben commentata, Francesco Montuori rileva la difficoltà formale e soprattutto quella semantica, che consiste nel fatto che, documenti alla mano, il significato di camorra come ‘pratica estorsiva’ precede quello di ‘società di malfattori’. Per superare le difficoltà, pur rimanendo nell’ambito della famiglia lessicale di camera e cameraro, Montuori introduce due nuovi elementi: il gergale camorone ‘gabelliere’, attestato nell’Italia mediana alla fine del XV secolo, e il verbo camorrare ‘fare soperchierie’, che ricorre a Stigliano (Matera) in un documento del 1580, in cui il Viceré di Napoli censura il comportamento vessatorio dei soldati, mandati a reprimere il banditismo, nei confronti della popolazione civile. La camorra in quanto ‘estorsione’ deriverebbe dunque da camorrare, che si riferiva alle pratiche vessatorie esercitate, prima ancora che dai malviventi, dai rappresentanti ufficiali delle istituzioni, quali i soldati e i gabellieri.
Le argomentazioni di Montuori ci allontanano però dal giuoco d’azzardo, che la documentazione storica più evidente indica come l’ambiente in cui si è sviluppato il fenomeno camorristico, e quindi da Napoli, in cui il costume del giuoco d’azzardo, lotto compreso, è stata pratica diffusa più che in ogni altra città; e questo sulla base di due supporti lessicali piuttosto labili, il gergale camorone, che non ricorre nel napoletano, e il verbo camorrare, il cui significato di ‘far soperchierie’ è tutt’altro che sicuro, parendo altrettanto plausibile nel contesto il significato di ‘prendere stanza, dimorare’.
Una via del tutto diversa è tentata da Ottavio Lurati (Modi di dire, Lugano, Fondazione Ticino Nostro, 1998, pp. 232-236), il quale chiama in causa l’omonimo camorra ‘tessuto e veste femminile’, bene attestato nel napoletano colle varianti camurra, gamorra e gamurra, accostamento già proposto da Monnier nella sua relazione (1862, p. 85), dove si legge: “La parola camorra si trova spesso nelle antiche commedie in dialetto, e designa sempre una specie di abito cortissimo a giacchetta […] Da ciò può concludersi che questo abito popolare era indossato in altri tempi da una genia di bravi e di lazzaroni che presero il nome dalle loro vesti”. Lurati non parte da questa motivazione, che è priva di supporti storici e documentari, ma dalla locuzione pagare la camorra, parallela a pagare il pizzo, che nel gergo carcerario si sarebbe riferita alla tangente imposta al nuovo inquilino della cella per possedere una coperta; al nuovo arrivato si imponeva di pagare il diritto ad avere un posto-letto (pizzo), un lume (lampa) e una coperta (camorra). L’argomentazione di Lurati, oltre a spostare l’origine del fenomeno camorristico dall’ambiente del giuoco d’azzardo a quello carcerario, presenta però due forzature: la prima riguarda il significato di gamurra come ‘coperta’, che è del tutto assente in napoletano, e l’altra riguarda la locuzione pagare la camorra nel senso originario di ‘pagare la coperta’, che è estrapolata arbitrariamente da locuzioni parallele come pagare la lampa e pagare il pizzo.
Si può tuttavia utilizzare il suggerimento di Lurati restando nell’ambiente del giuoco d’azzardo e prendendo le mosse dalla locuzione far camorra, far la camorra, in cui camorra ha il significato di ‘frode al giuoco esercitata di comune accordo da giocatori di professione’, significato diffuso anche al di fuori dell’ambiente napoletano; così, p. es., Ildefonso Nieri registrava nel suo Vocabolario lucchese (1901) il verbo camorrare nel senso di ‘far la cordellina e la trama sotto sotto in due o più contro qualcuno’. In Toscana ricorreva, e ricorre ancora, la locuzione parallela far camiciola, far la camiciola, registrata da Pietro Fanfani nel Vocabolario dell’uso toscano (1863) e così descritta: “lo dicono i giuocatori o di biliardo, o di palle, o di altro giuoco di abilità, quando uno di essi, indettato coll’avversario, perde a bella posta, per vuotar le tasche a un altro con cui è in società, e spartirsi poi il suo denaro, e goderselo alla barba sua”. L’uso metaforico di camiciola illumina l’identico rapporto metaforico fra la gamurra/camorra come indumento e la camorra/gamorra come pratica estorsiva esercitata coll’inganno al giuoco, in cui più giocatori abituali agiscono d’intesa per mettere di mezzo i giocatori inesperti.
Le locuzioni far camorra e far camiciola si aggiungono alla serie di locuzioni simili che si fondano sull’uso metaforico dei capi d’abbigliamento, con un impiego gergale dell’eufemismo antifrastico, il cui scopo è quello di esprimere apertamente un’azione dannosa e moralmente spregevole, come fare le scarpe nel senso di ‘tramare ai danni di qualcuno fingendo di essergli amico’, fare il vestito per ‘coprire d’insulti’ o il veneziano meter la vesta ‘gabbare, ingannare’. In conclusione, la voce camorra, variante dialettale di camera, che indicava una delle case da giuoco attive a Napoli nel XVIII secolo, è confluita coll’omonimo camorra, variante di gamurra ‘veste’, usato nel senso metaforico di ‘imbroglio al giuoco’, assumendo il significato di ‘pratica estorsiva’, esercitata colla frode e colla prepotenza dalla consorteria di bari e di imbroglioni, poi estesa ad altri ambienti cittadini (mercati, caserme, carceri, postriboli), fino a caratterizzare e dare il nome alla consorteria stessa.
Alberto Nocentini
Piazza delle lingue: Lingua e storia
24 marzo 2014
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