Fernando P. ci scrive dalla Svizzera a proposito di due verbi di rilevanza giuridica comminare e giustiziare: i due verbi sono spesso e, a suo parere (si tratta del parere di un legale), erroneamente impiegati l'uno in luogo di infliggere, l'altro di uccidere.
Giustiziare “comminare”!
L’etimologia serve, alle volte. Comminare è voce dotta: è stata ripresa direttamente dal latino comminari che significa ‘minacciare’, e non è giunta nel volgare italiano attraverso un uso ininterrotto nel parlato. Dopo una fugace apparizione in uno statuto di metà Trecento, dove serve a tradurre in volgare proprio il corrispondente latino comminari, la parola si fa più assidua – ma non troppo – a partire dal Cinquecento. La quinta edizione del Vocabolario della Crusca nel 1878 la registra come tipica della lingua dei giuristi: “Termine de’ legisti. Minacciare; e riferiscesi alle pene stabilite da legge o bando contro a chi gli trasgredisce”. Insomma, comminare significa ‘minacciare in via generale’: è la legge che commina la pena, cioè stabilisce nei confronti di tutti che chi commette un fatto vietato venga sottoposto alla pena fissata. Quando invece una sanzione è contenuta in una sentenza di un giudice, non è più minacciata, ma è irrogata, è inflitta al singolo condannato, come sa bene chi s’è visto proprio in forza di una sentenza portare in prigione: altro che minaccia! Dunque il giudice non commina, o meglio, non dovrebbe comminare una sanzione qualsiasi.
Il pericolo, però, è in agguato, e uno scambio di significati può sempre accadere, magari, all’inizio, in chi non è proprio un tecnico del diritto e certe sottigliezze non le conosce, ma tuttavia è costretto a scrivere, e magari pure di corsa perché il giornale deve uscire. Se poi si aggiunge che i fatti che si devono raccontare sono stati davvero convulsi, la frittata è fatta; e magari non sarà stata neppure la prima volta. Ecco un esempio. Durante l’approvazione della nuova legge elettorale (la cosiddetta “legge truffa”) nel gennaio del 1953 alla Camera succedono dei disordini e il presidente Gronchi è costretto ad applicare sanzioni ai deputati più intemperanti. Il resoconto della "Stampa": «Poi Gronchi annunzia le sanzioni per i maggiori responsabili. La più grave è contro l’on. Messinetti, per il quale commina cinque giorni di esclusione dall’aula con “riserva di denunciarlo a norma dell’art. 289 del Codice Penale per attentato contro la funzione delle assemblee legislative”» (14/1/53, p. 6, Le sinistre scendono dai banchi per impedire ai deputati di votare). Comminare così assume il significato di ‘irrogare’.
Sono casi sporadici, che qualche volta si ripetono ("La Stampa", 21/11/56, p. 7, Condannato a ventisei anni l’assassino dell’agricoltore: “La sentenza, avverso la quale la difesa presenterà ricorso, commina al Guglielmi: 22 anni e 6 mesi di reclusione per omicidio volontario aggravato, con l’attenuante del vizio parziale di mente”), ma che non attirano l’attenzione della grande lessicografia. Il III volume del Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, che con la voce comminare esce nel 1964, di questo uso improprio non porta traccia: segno che non era passato nella lingua letteraria sulla quale quel dizionario in particolare si basa.
Negli anni che seguono invece comminare ‘infliggere’ si diffonde, soprattutto ancora nell’uso giornalistico di stampa, radio e televisione. Lo documenta Aldo Gabrielli almeno dalla metà degli anni Settanta, approfittando dell’occasione anche per dare una bacchettata a irrogare; nel 1976 e nel 1977 escono due agili volumi a firma di Gabrielli che mettono in guardia sulle storture dell’italiano e tra queste sull’“errore grossolano” di attribuire a comminare il significato di ‘assegnare’; la conclusione: “Il giudice dunque non commina, non minaccia la pena ma la applica in base a quanto stabilisce il codice, la dà, la infligge, l’assegna, o anche, con un latinismo proprio del linguaggio curialesco, la irroga”.
Di lì a non molto anche i dizionari prendono atto del significato e, naturalmente, lo riprovano: “Erroneo l’uso del verbo [comminare] nel sign. di infliggere (una pena)” (Vocabolario della lingua italiana, a cura di Aldo Duro, Roma, Treccani, vol. I, 1986). Testimoniano così che, benché condannato, l’uso continua a essere vivo, e anzi, ancor più vitale, se uno di loro, tra i più diffusi, lo Zingarelli, solo dall’edizione del 2012 aggiunge alla voce: “(est., impropr.) infliggere una pena”. Tardivo aggiornamento o – molto più probabile – riconoscimento di una sempre maggiore diffusione del significato improprio?
Che non lascia immuni neppure le penne più puntute del giornalismo: «E non sarà che questa esplosione, sul mercato librario, di Mein Kampf sia dovuta unicamente o quasi all’ostracismo che non so se per un ukase del potere politico, o per autocensura dell’industria editoriale, è stato per decenni e decenni comminato a questo libro che, rivisto col senno del poi (e se neppure il “poi” riesce a fornirci un senno, meglio emigrare su un altro pianeta), è soltanto una collezione di scemenze, in pieno contraddetta dai fatti?» (Indro Montanelli, Gli analfabeti della svastica, "Corriere della Sera", 27/11/1999, p. 1); quattordici anni dopo, e siamo all’oggi: “Se queste ipotesi dovessero realizzarsi la speculazione internazionale giocherebbe a palla con la lira, col tasso di interesse, col sistema bancario, con gli investimenti, con l’occupazione e l’Unione europea ci imporrebbe un commissariamento che ci obblighi al rispetto del pareggio fiscale, pena l’ intervento della Corte europea che commina in questi casi elevatissime sanzioni” (Eugenio Scalfari, Tramonta un sistema di patacche e bugie, "La Repubblica", 24/2/2013, p. 1).
Il bello è che il nostro comminare ‘infliggere’ dalle pagine dei giornali e dalla voce dei giornalisti televisivi si è esteso anche alla lingua dei giuristi e addirittura al testo della legge. Ci sono esempi celebri e importanti, come la legge del 1981 sulla depenalizzazione delle sanzioni amministrative: “La pena detentiva, se è stata comminata per un fatto commesso nell’ultimo decennio, non può essere sostituita: a) nei confronti di coloro che sono stati condannati per più di due volte per reati della stessa indole […].” (l. 24/11/1981, n. 689, art. 59, c. I; segnalazione di Ernesto Aghina). E addirittura la traduzione italiana ufficiale del Trattato di Maastricht (7/2/1992) che ha fondato l’Unione europea: “La Corte di giustizia, qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è conformato alla sentenza da essa pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità” (art. 228, c. II; "Gazzetta ufficiale" n. C 224 del 31/8/1992). La “peculiarità” è solo italiana perché nelle altre lingue ufficiali in corrispondenza di comminare si usano verbi o espressioni che esprimono tutti l’idea dell’’infliggere’ e non quella del ‘minacciare’: “elle peut lui infliger le paiement d’une somme forfaitaire ou d’une astreinte”; “podrá imponerle el pago de una suma a tanto alzado o de una multa coercitiva”; “pode condená-lo ao pagamento de uma quantia fixa ou progressiva correspondente a uma sanção pecuniária”; “it may impose a lump sum or penalty payment on it”; “so kann er die Zahlung eines Pauschalbetrags oder Zwangsgelds verhängen”.
Per non dire poi della lingua della giurisprudenza: nelle sentenze, anche in quelle della Cassazione, sovente si trovano il riferimento a giudici che hanno comminato pene e le cui decisioni sono state perciò impugnate (ma, purtroppo, non di fronte al tribunale supremo della lingua): «non viola il divieto di “reformatio in peius” il giudice di appello che, nell’accogliere il gravame dell’imputato limitatamente al riconoscimento della circostanza aggravante della rapina, provveda a rideterminare la pena in misura inferiore a quella comminata in primo grado, da un lato riducendo la pena base (per la rapina non aggravata), e, dall’altro, aumentando per la recidiva la pena così rideterminata» (Cassazione penale, sez. II, 12/4/2016, n. 18089).
E sorge il timore che l’uso sempre più frequente, anche tra i giuristi, di comminare ‘infliggere’ alla fine possa servire a legittimare l’errore. Nel lessico giuridico non sarebbe neppure la prima volta, come sa bene chi ricorda che anche il significato di ‘illecito penale in genere’ per il termine reato deriva da un errore di un giurista: il grande Accursio che nel XIII secolo interpreta il latino reatus ‘l’esser reo’ come sinonimo di crimen ‘crimine’; i colleghi seguono poi l’autorità del maestro e nel corso di qualche secolo si arriva a fondare proprio su reato nel senso originariamente sbagliato di ‘illecito penale’ la scienza penalistica di oggi. Se così avvenisse anche per comminare, vorrebbe dire tradire la storia, le origini della parola e le esigenze di chiarezza e precisione del lessico, in particolare di quello giuridico.
Poi, anche quando ci si vorrebbe godere qualche minuto di riposo in un giorno di festa, lontano dalle questioni di lingua e di diritto, ecco che proprio nell’anniversario della Liberazione comminare ‘infliggere’ ritorna implacabile tra le pagine del quotidiano che pigramente si tiene aperto davanti agli occhi: “Si eviterebbe di comminare con superficialità il carcere a chi non è stato ancora riconosciuto colpevole da una sentenza, nemmeno solo di primo grado, come vorrebbe la vulgata manettara del giustizialismo” (Pierluigi Battista, Storie di infermiere e di mostri innocenti, "Corriere della Sera", 25/4/2016, p. 33). Ancora! Per di più nella prosa di un giornalista di solito sorvegliato e corretto, anche se non alieno dall’invenzione linguistica. E insieme a giustizialismo, che si direbbe stretto parente di giustiziare.
E verrebbe da dire: che si giustiziasse finalmente comminare ‘infliggere’! Si aderirebbe forse così a quell’altro uso (giornalistico?) che ha portato il verbo giustiziare a estendere il suo significato originario, e tutto trecentesco, di ‘sottoporre a una sanzione stabilita da un tribunale, in particolare alla pena di morte’ a quello, molto comune oggi, di ‘uccidere freddamente come in esecuzione di una sentenza legittima, ma invece in barbaro adempimento di un piano criminale o terroristico’ (cfr. Luca Serianni, Parola, Bologna, il Mulino, 2016, pp. 113-114): «Qui, intorno a mezzanotte, l’omicidio: Marco Ballotta è stato disarmato, preso a calci e pugni, colpito da vari proiettili al petto, e infine “giustiziato” con un colpo alla testa» (Enrico Bonerandi, Assassinato in un Prato per una partita di eroina, "La Repubblica", 29/5/84, p. 15). Meno recente l’accezione di ‘uccidere in nome di un superiore ideale di giustizia, anche indipendentemente da una pronuncia di un giudice legittimo’: “Un compagno ferito in un’azione di arrembaggio fu giustiziato da Bonnot stesso con un colpo di pistola” (Lorenzo Viani, Parigi); “I partigiani poterono ugualmente prelevare il segretario politico e un altro fascista, e li giustiziarono” (Carlo Cassola, Fausto e Anna). Meno triste e più giocoso il significato di ‘eliminare da una competizione sportiva’ della prosa immaginifica di Gianni Brera: “La meritoria impresa di San Siro può tornare benefica al citato Avellino e addirittura al buon vecchio Genoa, se non l’avrà giustiziato senza rimedio una ferocissima Fiorentina” (Lode alla signora dei campionati, "La Repubblica", 1/5/84, p. 35).
Un momento: l’eliminazione di comminare ‘infliggere’ sarebbe davvero un atto di giustizia (linguistica), e dunque a rigore giustiziare verrebbe usato in senso proprio ed etimologico. Solo che in materia di lingua c’è un solo supremo tribunale: la prassi dei parlanti e degli scriventi. E abbiamo già visto da che parte tiri il vento (per di più la nuova direzione è già stata registrata della lessicografia: si dia un’occhiata all’edizione 2013 del Vocabolario Treccani).
Federigo Bambi
Piazza delle lingue: Lingua e diritto
7 giugno 2016
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