Jihad e Kamikaze

A distanza di alcuni giorni dall’attentato di Parigi, il Centro di consulenza dell'Accademia intende, a suo modo, partecipare alle tante manifestazioni che ci sono state in Italia e all’estero di condanna per l’accaduto e, al tempo stesso, di speranza in un futuro di pace. Rompendo la consuetudine di inserire ogni settimana una sola risposta a uno dei tanti quesiti pervenuti, trattiamo stavolta di problemi linguistici relativi a due voci che ricorrono frequentemente in questi giorni, perché legate al terrorismo islamico, che tanti terribili turbamenti ha suscitato. La prima scheda riguarda il genere in italiano del termine jihad, che i vocabolari classificano ora come maschile, ora come maschile ma più spesso usato al femminile, ora infine direttamente come femminile, e la scelta dell’articolo nel caso che lo si usi al maschile. La seconda verte sulla legittimità (messa in dubbio all’interno dell’ambiente giornalistico) di riferire il termine giapponese kamikaze a jihadisti che compiono azioni terroristiche in cui è previsto che trovino essi stessi la morte.

Risposta

Jihad e Kamikaze

 

Diciamo subito che a rigore jihad dovrebbe essere maschile, perché tale è in arabo e glielo consente anche il suo traducente italiano più letterale, sforzo, combattimento. Ma gli italiani lo usano molto più spesso al femminile (tre volte tanto su Google), legittimato da traducenti altrettanto validi come lotta, prova e, soprattutto, guerra santa. Su “la Repubblica” nel 2015 la jihad ha 2571 occorrenze contro i soli 248 esempi al maschile. Forse la preferenza per il femminile è motivata anche dall’incertezza nella scelta dell’articolo che accompagna il maschile di jihad e che si rileva anche per i suoi derivati, jihadismojihadista. Poiché la pronuncia del fono iniziale è, o dovrebbe essere, assimilata a quella della nostra g palatale sonora (come in giacimento), l’articolo dovrebbe normalmente essere il (jihadjihadismojihadista). E in effetti questo uso è prevalente. Ma poiché lo j si pronuncia anche come una sibilante palatale sonora (fono non presente in italiano ma sì in toscano, come nella pronuncia locale di stagione, e in vari dialetti), avvertendo l’anomalia si tende spesso a usare la forma dell’articolo preposta alle iniziali speciali, quindi a dire lo (jihadjihadismojihadista). Su Google le due soluzioni si fronteggiano quasi alla pari e se i jihadisti sono quasi il triplo dei pur numerosissimi gli jihadisti, e il jihadismo è quasi il doppio di lo jihadismo, lo jihad è attestato più di quattro volte di il jihad. Nel libro di Renzo Guolo dedicato a questo fenomeno, L’ultima utopia (ottobre 2015), si legge jihad sempre maschile e in genere preceduto da il, ma a volte (p. 21 ad esempio) anche da lo, mentre i jiadisti (p. 167) mi pare meno frequente di gli jihadisti (pp. 65, 83) e il jihadismo (p. 49) e lo jihadismo (p. 167) sono più o meno sullo stesso piano. Insomma, anche uno dei massimi esperti della materia, se non ha dubbi sul genere di jihad (maschile), ne ha sull’articolo e quindi sulla pronuncia dell’iniziale.

In realtà, sul genere è il caso di sospendere il giudizio, perché la pressione del femminile è forte, non ingiustificata e potrebbe alla fine risultare vincente. Basti pensare che, su “la Repubblica” del 21 novembre, un articolo di Guolo riporta sempre jihad al maschile, ma nel titolo (redazionale) la parola è al femminile, per cui l’articolo comincia parlando dell’«attacco del jihad globale», annunciato nel titolo come la «sfida della jihad globale». Quanto all’articolo davanti a jihad maschile, jihadismo e jihadista, ci si può già sin da ora orientare per il (e i al plurale) come succede con jeans. Lo si vede bene dalla quasi totale assegnazione di un invece di uno a jihad, anche se, a ribadire l’incertezza, uno jihadista è attestato su Google poco più della metà di un jihadista.

Vittorio Coletti

 

La voce giapponese kamikaze, che letteralmente significa ‘vento (kaze) divino (kami)’ e che originariamente designava «il provvidenziale tifone, che in una notte di agosto del 1281 distrusse la flotta mongola, pronta ad invadere il Giappone» (DELI), fu usata internazionalmente, verso la fine della seconda guerra mondiale, per indicare gli aerei nipponici carichi di esplosivo lanciati contro la marina americana e, per metonimia, i piloti dell’aeronautica militare che li guidavano, appartenenti a un corpo di volontari disposti a morire gettandosi contro l’obiettivo nemico. Il termine, attestato in italiano nella seconda accezione a partire dal 1944 (al dicembre di quell’anno risale la prima attestazione sul “Corriere sella Sera”), avrebbe quindi dovuto avere un valore storico, riferirsi a un designatum ben determinato e irripetibile. Invece, forse anche per motivi d’ordine fonetico (la parola richiama per struttura sillabica e per vaga assonanza il termine harakiri ‘suicidio del samurai’, diffuso in italiano anche nell’impropria grafia karakiri), il sostantivo invariabile kamikaze ha avuto (purtroppo) una maggiore fortuna.

Anzitutto la figura del kamikaze ha assunto un valore prototipico, tanto da essere citata in un testo di psicoanalisi («Il miglior esempio dell’illusorietà e della inautenticità, che la necessità del sacrificio acquista nella guerra, ci è offerto dal kamikaze. Nel kamikaze il sacrificio del Sé vale come negazione delle proprie necessità di colpa, legate agli impulsi ostili verso il proprio oggetto d’amore: processo che ci è rivelato dalla colpevolizzazione del nemico, nel rito feciale, presente, in una forma o nell’altra, in ogni guerra»; Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, 1966); né mancano esempi in cui è, viceversa, oggetto di ironia («I kamikaze erano degli smidollati?»; titolo di un articolo su “Epoca” del 1969). Ma poi il sostantivo è stato usato in altre due accezioni (cfr. GRADIT): in senso esteso, per riferirsi a «chi compie azioni terroristiche o di guerriglia senza possibilità di salvezza» (e in questo caso compare anche in funzione aggettivale), e in senso figurato, per indicare «chi intraprende in modo temerario e avventato un’impresa che comporta un grave pericolo e un danno personale». Quest’ultimo valore (presente anche in francese, come risulta dal TLFi) è documentato già nel 1961, ma sempre con riferimento al Giappone, in un testo di Oriana Fallaci («Per kamikaze non si intendono più i piloti suicidi dell’ultima guerra. Si intendono gli autisti dei taxi che si buttano nel traffico infernale di Tokio invocando l’aiuto di Buddha»; Il sesso inutile. Viaggio intorno alla donna); poi, è stato anacronisticamente riferito agli insorti delle Cinque giornate di Milano da Indro Montanelli («Sfiduciati dalla renitenza dei borghesi, solo alcune centinaia di kamikaze si gettarono nella mischia»; L’Italia del Risorgimento (1831-1861), 1972).

Ancora Oriana Fallaci, in un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” del 29 settembre 2001, dopo l’attentato alle torri gemelle di New York, scrive: «A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici, incominciando da quelli giapponesi della Seconda Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri Micca che per bloccar l’arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle polveri e saltano in aria con la cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati soldati. E tantomeno li considero martiri o eroi, come […] Arafat me li definì nel 1972». Può darsi che la presenza della parola nella Fallaci (che la usa già in Insciallah, nel 1990), abbia contribuito a diffonderla con riferimento al terrorismo di matrice islamica. Ma l’uso del termine in questo senso era iniziato molto prima: risalgono al 1984 alcune attestazioni giornalistiche che parlano di kamikaze islamici o kamikaze sciiti: «L’incubo dei Kamikaze islamici. La Forza di pace a Beirut in allerta» (titolo di un articolo di Andrea Robilant su “la Repubblica” del 24 gennaio 1984); «I servizi segreti americani non escludono attacchi aerei iraniani contro i pozzi di petrolio sauditi e l’invio di missioni “kamikaze” per distruggere petroliere nel Golfo» (articolo dello stesso giornalista su “la Repubblica” del 26 maggio 1984; si notino qui l’uso aggettivale e la virgolettatura); «In un recente dossier di “Jeune Afrique”, gennaio ’84, è ampiamente documentato che i kamikaze islamici sono addestrati nella zona di occupazione siriana di Baalbek in Libano» (“Mondoperaio”); «[…] uno dei gruppi sciiti che operano dietro la sigla di Jihad Islami, che ha firmato gli attentati dei kamikaze sciiti» (“Mondo”). Già in precedenza il termine, virgolettato, figura in un articolo di Alberto Moravia pubblicato su “L’Espresso” nel 1968, dedicato ai conflitti razziali negli Stati Uniti: «Ma gli estremisti del movimento negro sono dei razzisti disperati e decisi ad un genere di lotta spietata che equivale praticamente ad un suicidio collettivo. Sono dei “kamikaze” che accettano volentieri la propria morte purché porti alla morte dei bianchi».

Insomma, come dimostra la documentazione presentata, l’uso esteso di kamikaze, per quanto storicamente improprio, sembra in italiano ormai radicato. Certo, come indica il sito della Treccani, un termine alternativo, specificamente riferibile «a un terrorista di matrice islamica che accetta di perdere la vita nell’attentato da lui stesso compiuto», ci sarebbe: si tratta della voce araba «šahīd (“martire”, nel senso originario di testimone della fede che si sacrifica per questa)», voce registrata anche nel GRADIT, nella grafia shahid, datata al 1988. Ma nell’uso giornalistico italiano questo termine, almeno finora, non ha avuto fortuna e, da parte nostra, non possiamo certo augurarci che ne abbia in futuro. Speriamo però che anche di kamikaze si parli sempre meno, e che la parola giapponese possa recuperare il suo significato originario di 'vento divino'.

Paolo D’Achille

Piazza delle lingue: Media

30 novembre 2015


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