Giulia V. ci chiede se sia vero, come ha letto da diverse parti, che krapfen e graffa abbiano lo stesso etimo e, nel caso, quale sia il motivo di tale radice comune.
La definizione che il GRADIT dà di krapfen, sostantivo maschile invariabile ed esotismo tedesco, è «frittella di pasta dolce ripiena di crema o marmellata». Generalmente, in ambito italiano, il termine designa quindi un dolce fritto nell’olio o altro grasso.
La prima attestazione nella nostra lingua, secondo il GRADIT e il GDLI, è del 1891, nella prima edizione del manuale di Pellegrino Artusi La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene (èdito a Firenze da Landi): «Proviamoci di descrivere il piatto che porta questo nome di tedescheria ed andiamo pure in cerca del buono e del bello in qualunque luogo si trovino; ma per decoro di noi stessi e della patria nostra non imitiamo mai ciecamente le altre nazioni per solo spirito di stranieromania». Va tuttavia notato che la ricetta 115 dell’Artusi si riferisce a una preparazione prevalentemente salata (si tratta di un caso opposto, in pratica, a quello della Pizza alla napoletana, ricetta 369, che è per Artusi un dolce di pastafrolla). Riporto qui, come curiosità, la ricetta:
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Farina d'Ungheria, grammi 150. Burro, grammi 40. Lievito di birra quanto una grossa noce. Uova, uno intero e un rosso. Zucchero, un cucchiaino. Sale, una buona presa. Prendete un pugno della detta farina, ponetela sulla spianatoia e, fattole un buco in mezzo, stemperatevi entro il lievito di birra con latte tiepido e formatene un pane di giusta sodezza, sul quale inciderete un taglio in croce per poi conoscer meglio se ha rigonfiato. Ponete questo pane in un tegamino o in una cazzarolina nel cui fondo sia un sottilissimo strato di latte, copritela e lasciatela vicino al fuoco onde il pane lieviti a moderatissimo calore: vedrete che basterà una ventina di minuti. Lievitato che sia mettetelo in mezzo alla farina rimasta ed intridetela colle uova, col burro liquefatto, collo zucchero e col sale. Se questo pastone riesce troppo morbido, aggiungete tanta farina da ridurlo in modo che si possa distendere col matterello alla grossezza di mezzo dito. Così avrete una stiacciata dalla quale con un cerchio di latta taglierete tanti dischi della grandezza come alla pag. precedente.
Ammesso che ne facciate 24, prendete un uovo o altro arnese consimile e colla punta del medesimo pigiate nel mezzo di ognuno dei dischi per imprimergli una buca. In 12 dei detti dischi ponete un cucchiaino di un battutino tirato col sugo e la balsamella, composto di fegatini, animelle e presciutto tagliati a piccoli pezzi. Bagnate i dischi all'intorno con un dito intinto nell'acqua e sopra ciascuno soprapponete un altro disco dei 12 rimasti vuoti; quando saranno tutti coperti premete sopra ai medesimi un altro cerchio di latta di dimensione eguale a quello qui sopra indicato, onde si formi un'incisione all'ingiro. Ora che avete questi 12 pasticcini ripieni bisogna lievitarli e ciò otterrete facilmente ponendoli vicini al fuoco; ma a lieve calore. Quando saranno rigonfiati bene friggeteli nel lardo o nell'olio in modo che sieno ricoperti dall'unto e serviteli caldi come fritto o piatto di tramesso il quale, per la sua apparenza e bontà, sarà giudicato piatto di cucina fine.
Se volete che servano per dolce non avete altro a fare che riempirli di una crema alquanto soda o di conserva di frutta spolverizzandoli, dopo cotti, di zucchero a velo.
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Sempre il GDLI riporta anche un’attestazione dal Dizionario moderno di Alfredo Panzini (2° edizione, Milano, Hoepli, 1908): «in tedesco e nel linguaggio di cucina, indica una specie di ‘frittella di pasta’ alzata con lievito di birra, ed entro uno strato di conserva tenute in caldo in apposite credenzine. A Roma frittelle simili si chiamano ‘bombe’, a Firenze ‘bomboloni’. Fu proposto il nome di ‘sgonfiotti alla viennese’». Già nel 1889 si incontrava, peraltro, la forma italianizzata crafen (Ernesto Kosovitz, Dizionario-vocabolario del dialetto triestino, Trieste, p. 572), che però non sembra aver incontrato una particolare fortuna nel corso degli anni.
Passiamo a considerare l’etimo del termine. I vari dizionari consultati, compreso il DELI, concordano nel ricondurre la parola al termine germanico (il GRADIT, però, cita direttamente il tedesco) Krapfen nel significato di ‘uncino’, «per la forma ricurva» secondo il GRADIT e «per la sua forma originariamente arcuata» per il DELI.
I krapfen, come li conosciamo generalmente oggi, non sono certo di forma ricurva o arcuata, ma si presentano come delle frittelle molto lievitate e di forma tondeggiante, come si vede nell’immagine sottostante. Il collegamento, quindi, con un termine che significa ‘uncino’, può apparire piuttosto sorprendente.
In realtà, basta lanciare una piccola ricerca su Google in contesti germanofoni per scoprire che, in parti della Germania e dell’Austria, esistono diverse leccornie, sia dolci che salate, che prendono il nome di krapfen. E non tutte sono di forma tondeggiante, ma alcune somigliano decisamente a mezzelune o uncini. L’immagine seguente arriva dalla Baviera:
Questa invece dall’Alto Adige, per l’esattezza da Vipiteno:
Questo spiegherebbe, dunque, il ricorso a una parola indicante ‘uncino’ (e dunque ‘mezzaluna’, un po’ come nel caso del francese croissant) per designare simili preparazioni. L’unico punto da verificare è un altro: in tedesco odierno, la parola Krapfen è in uso solo per indicare vari tipi di dolcetti o salatini, ma per ‘uncino’ o ‘graffa’ vengono usati altri termini (come Haken o Kralle) . Verifichiamo quindi che il termine Krapfen risalga a una fase precedente della lingua tedesca.
Consultando il Digitales Wörterbuch der deutschen Sprache (DWDS), scopriamo che Krapfen (sinonimo Pfannkuchen) è definito «in Fett gebackenes Gebäckstück», ‘dolcetto fritto nel grasso’; per quanto riguarda l’etimologia, sin dal IX secolo il termine identifica un dolcetto dalla forma a uncino, e la parola è fatta risalire all’antico alto tedesco krapho e al medio alto tedesco krapfe (entrambi significanti, appunto, ‘uncino’ e simili). Il sostantivo viene ricondotto a un ampliamento labiale *greb- della radice *ger- ‘girare, torcere’.
Dal canto suo, Johann Christoph Adelung, nel Grammatisch-kritisches Wörterbuch der Hochdeutschen Mundart (Vol. 2, Leipzig, 1796, p. 1755), di Krapfen scrive: «un tipo di focaccia rotonda di diverse specie, sia ripiena sia non ripiena, viene cotta o nello strutto o in forno, e si chiama anche Krapfkuchen ‘focaccia Krapf’. [...] Per me si dice Krapf o per la gonfiezza esterna o anche per la sua forma, perché si ha cura di ritagliare il bordo a punte e di piegare le estremità alternativamente in su o in giù, così che ne risulta una certa somiglianza con gli uncini» (trad. mia). Una trattazione che, nella sostanza, concorda con quanto contenuto nel Deutsches Wörterbuch von Jacob Grimm und Wilhelm Grimm (Leipzig 1854-1961).
Consideriamo adesso l’etimologia di graffa o grappa.
Per graffa o grappa, sia nel significato originario di ‘piccola lama metallica, curvata a forma di U, usata per l’unione stabile di due parti di un imballaggio o altro’ (GRADIT) (attestata nel 1939-40, Palazzi, come riportato nel DELI), sia in quello traslato di parentesi di particolare forma, i vari dizionari sono concordi nel ricondurre l’etimo al longobardo *krapfo ‘uncino’, corrispondente al gotico krappa. Cercando grappa, le varie fonti consultate oltre al DELI, tra le quali l’Etimologico di Ottorino Pianigiani e il Tesoro della Lingua Italiana delle Origini riconducono la parola al longobardo medievale *krapfa e graffa al germanico krappa. I due termini derivano sostanzialmente dallo stesso termine, ma in due momenti diversi della sua storia: grappa dal gotico/germanico krappa, prima che avvenisse la Seconda Rotazione Consonantica o zweite Lautverschiebung, graffa dal longobardo krapfo, termine a sua volta derivato dal già citato krappa, successivamente alla Seconda Rotazione Consonantica.
Dunque, anche se nel tedesco odierno il termine krapfen non è più in uso nel significato di ‘uncino’ o ‘graffa’, la parentela tra il nome della leccornia e la parola graffa è verificata etimologicamente nell’Althochdeutsch (antico alto tedesco) e nel Mittelhochdeutsch (medio alto tedesco), e giustificata dalla forma originaria del dolcetto.
Infine, due curiosità: varie fonti riportano una possibile seconda etimologia; in base a questa, l’invenzione dei krapfen sarebbe da imputare alla pasticciera Cäcilie (secondo altre fonti Veronica) Krapf, che li avrebbe preparati per la prima volta a Vienna nel 1683; il suo cognome sarebbe servito per battezzare i dolcetti. Questa versione della storia del termine è accattivante, tuttavia meno accreditata di quella sulla quale ci siamo oggi soffermati.
Si noti anche, come rilevano anche Paolo D’Achille e Andrea Viviani nel loro saggio del 2009, che a Napoli (p. 251) i krapfen vengono chiamati graffe, come pure, in base a testimonianze di parlanti, in Calabria e in Sicilia; in questo caso, però, non appare esserci alcun collegamento con l’etimo fin qui discusso, ma si tratta piuttosto dei consueti esiti di sonorizzazione osservabili nei dialetti dei luoghi menzionati.
Per approfondimenti:
A cura di Vera Gheno
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
6 novembre 2012
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