Rispondiamo a coloro che ci hanno posto domande intorno al modo di dire parlare al muro.
L'espressione dire o parlare al muro indica un'azione vana, priva di senso, e trae origine, fin dall'antichità, dalle caratteristiche di solidità, compattezza e resistenza proprie del muro. Quest'ultimo rappresenta figurativamente un ostacolo, un impedimento volto a separare qualcosa o qualcuno da qualcos'altro o qualcun altro; dunque, riferito ai rapporti interpersonali, anche un atteggiamento di difesa, che può essere declinato sia nel senso prevalente dell'indifferenza da parte di chi viene interpellato e di una sua voluta indisponibilità ad accettare qualsivoglia esortazione, consiglio o richiesta di dialogo, sia in quello, meno diffuso, della segretezza e della mancanza di riferimenti personali richiesta dal parlante.
Le origini risalgono almeno al II secolo d. C., in particolare all'età adrianea (117-138 d. C.), a cui appartiene una delle più ricche raccolte di proverbi greci, quella attribuita a Diogeniano o meglio – vista l'incertezza dell'attribuzione – allo Pseudo-Diogeniano. Si tratta di una silloge rielaborata, che raccoglie 787 proverbi greci antichi, non sempre collocabili con precisione nel tempo in quanto dotati di commenti talvolta troppo scarni per consentire una ricostruzione attendibile del quadro delle fonti. In questo caso la glossa (ἐπὶτῶν ἀναισθήτων: "per chi non sente", ovvero "per gli insensibili, per gli ottusi, per gli stupidi") non offre informazioni se non da un punto di vista strettamente contenutistico. Essa si legge accanto al proverbio διὰτοῦτοίχου λαλεῖν (Diogeniano, IV 31), equivalente al latino Per parietem loqui (ma esiste anche Parieti loqueris, per cui cfr. Walther 1963-1969, IX, p. 13) e all'italiano Tu parli a quel muro quivi. Quest'ultima è la forma attestata nel terzo libro del Flos Italicae linguae di Agnolo Monosini, dove l'espressione fa parte delle Paroemiae Graecis atque Etruscis communes e dove, per la prima volta, viene ricostruita l'intera catena di calchi che dal greco conduce all'italiano moderno, passando per il Medioevo latino.
Per quanto riguarda le sole lingue classiche, prima di Monosini, Erasmo da Rotterdam segnala, nei suoi Adagia, le forme διὰτοίχου λαλεῖς e Per parietem loqui, che contengono un'originaria idea di moto per luogo ('parlare attraverso il muro') che poi si è perduta nell'italiano moderno. Erasmo fa anche un generico riferimento alle sillogi greche ("a Graecis collectoribus"), tra cui conviene ricordare non solo lo Pseudo-Diogeniano, ma anche le raccolte bizantine, più ricche e diffuse alla sua epoca. La locuzione è invece assente in collezioni umanistiche coeve di proverbia assemblate da eruditi italiani, come il Liber proverbiorum del toscano Lorenzo Lippi (1446?-1475) e il Proverbiorum libellus del sacerdote e storico urbinate, poi naturalizzato inglese, Polidoro Virgilio (1470-1555).
Sul versante della lingua italiana, la prima attestazione risale alla fine del XIV secolo ed è indicata dal TLIO (Tesoro della lingua italiana delle Origini allestito dall’Istituto del CNR "Opera del Vocabolario Italiano" di Firenze) nel Trecentonovelle (XLVIII), dove la forma ellittica Al muro ricorre con il valore di "parlare invano". Tuttavia, nel caso della novella di Sacchetti, l'espressione assume una sfumatura particolare, data da un caso di impossibilità e non di mancata volontà, poiché il protagonista, Lapaccio di Geri da Montelupo, si trova a parlare con un morto. Per trovare la locuzione con il verbo dire e nell'attuale primo significato di "rivolgersi a persona che oppone un'assoluta indifferenza alle parole o alle richieste altrui" (GDLI, s. v.muro), bisogna attendere la prima metà del Quattrocento e le Poesie di Leonardo Giustinian, dove dire al muro viene associato alle pene d'amore e a una consapevole indifferenza da parte della donna (Dio te dia la bona sira / o zoveneta bella, XXXII 52). In chiave comica dire o parlare al muro si ritrova successivamente, con il medesimo valore, nell'Orlando innamorato di Francesco Berni (I XXV, 53), unico luogo annotato nel Vocabolario degli Accademici della Crusca (IV impressione, 1729-1738, s. v. muro). Numerose sono poi le occorrenze nella letteratura otto-novecentesca: dai Promessi Sposi (cap. XXXIV) al De Roberto dell'Illusione e dei Vicerè fino a Il fu Mattia Pascal di Pirandello (XII). Assente nei Proverbi di Giuseppe Giusti, per l'ormai acquisita distinzione teorica tra proverbio e locuzione idiomatica, si trova però in una delle sue poesie (A un ritratto od immagine di Sant'Ermolao, 3) e ancora in due luoghi di Pinocchio (capp. III e XX) e in altre opere (fonte: LIZ).
Con altri significati la frase si trova, secondo quanto riportato dal GDLI, nelle Frottole di incerta attribuzione (XLVII 278) e nelle Prediche sopra l'Esodo di Savonarola, dove assume il valore di "parlare senza riferimenti personali"; mentre nella commedia Le pellegrine di Giovan Maria Cecchi (atto I, scena 1) indica la possibilità di "esporre un argomento a qualcuno disposto a mantenere il segreto".
Tra le numerose varianti si segnala, in particolare, il più rustico predicare a' porri o tra' porri (perché sia stato scelto proprio il porro non è dato sapere), che risulta nel Vocabolario della Crusca fin dalla prima impressione del 1612, con il valore semantico di "favellare a chi non vuole intendere", ripetuto identico nella seconda (1623); e ancora si trova nella terza (1691), con il medesimo significato, affiancato dall'indicazione di fonti letterarie (Burchiello, Sonetti, I 105, s. v. porro; Giovan Maria Cecchi, L'esaltazione della croce, IV 11, s. v. porro; La dote, I 1, s. v. predicare), a cui si aggiungono, nella quarta, Benedetto Varchi (Ercolano, 95; La suocera, II 1, s. v. porro) e Il Malmantile racquistato (X 46, s. v. predicare) di Lorenzo Lippi, alias Perlone Zipoli, omonimo del succitato paremiografo. E a queste si aggiunga la Lettera di Jacopo Bonfadio nella Frusta letteraria di Giuseppe Baretti: "e il bel predicare a' porri che farebbe chi si mettesse in capo di far loro la predica su questi punti".
Altre varianti (Tu parli al vento, Tu parli a sordo, Tu parli a una pietra, Tu parli a un morto, Tu predichi al deserto o diserto), a cui corrispondono regolarmente altrettante matrici greco-latine e forme equivalenti sia nell'italiano contemporaneo dell'uso (GRADIT, s. v. parlare) sia nei principali idiomi europei (cfr. Arthaber 1972, p. 558), sono presenti nell'ampia raccolta di Francesco Serdonati (circa 25.000 proverbi), composta dopo il 14 maggio 1610 (cfr. Fiorelli 1999, p. 230). Altre ancora (gracchiare a' venti e fischiare a' tordi) si leggono nei Modi di dire toscani di Sebastiano Pauli (1740), dove compare anche un interessante riferimento alla lettera in proverbi di Antonio Vignali, risalente al 1557 e indirizzata alla Repubblica di Siena (Lettera alla Gentilissima Madonna), nella quale, tra i 365 proverbi e modi di dire che punteggiano lo scritto, si legge: È mal bussar a' formiconi di sorbo, ovvero: non ha senso rivolgersi a chi non si scompone e fa come le formiche dentro il legno duro, che non escono per quanto forte si batta. Infine: buttare o gettare castagne o fave secche al muro, per indicare un vano sforzo di persuasione, e essere come dire al muro (GDLI, s. v. muro; Lapucci 1990, p. 215, dove si fa riferimento al latino Vox clamantis in deserto), che si usa "quando chi dovrebbe ascoltare non ascolta" (Lapucci 1990, p. 215; cfr. anche Arthaber 1972, p. 558).
Per approfondimenti:
A cura di Paolo Rondinelli
Redazione Consulenza Linguistica
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