Da quando è uscito nel luglio di quest'anno il volume postumo di Oriana Fallaci dal titolo Un cappello pieno di ciliege, Rizzoli editore, ci sono giunti molti quesiti a proposito del plurale dei nomi uscenti in -cia e -gia; alcuni in particolare fanno esplicito riferimento all'uso della scrittrice, che appare in contrasto con la regola grammaticale appresa nella scuola primaria.
Sul plurale dei nomi in -cia e -gia
e su una scelta d'autore
La difficoltà che sorge al momento di scegliere l'esatta grafia del plurale di una forma che esce in -cia o -gia è attribuibile al fatto che ormai in italiano quella i davanti ad a è solo un segno grafico, necessario per indicare che la c o la g rappresentano l'affricata palatale, sorda o sonora (come in cena e gelo), e non l'occlusiva velare corrispondente (come in casa e gatto). Quando però la forma è al plurale, questa funzione diacritica della i decade, dal momento che la vocale che segue, la e, essendo palatale, implica la pronuncia palatale della consonante. Chi è nato dopo gli anni Cinquanta del secolo scorso, ha appreso la regola secondo cui il plurale è reso con la grafia -cie o -gie, se la consonante c o g è preceduta da vocale, e -ce o -ge, se è preceduta da segno di consonante, come ricordato su questo stesso sito nella scheda sui plurali difficili tratta dal volume Il salvaitaliano di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota. Come si legge in quella stessa scheda però "accanto ai plurali considerati corretti, anche forme come ciliege, valige, e provincie sono ormai usate e largamente accettate"; la ragione dell'esistenza di "deroghe" alla norma generale, si trova nella evoluzione della lingua e nel conseguente adeguamento della formulazione delle regole che ne descrivono la morfologia. Ciò che adesso è una norma accettata nelle grammatiche scolastiche, in realtà è una innovazione proposta in modo definitivo da Bruno Migliorini nel 1949 nel suo articolo Il plurale dei nomi in cia e gia pubblicato su "Lingua Nostra"; precedentemente si operava una distinzione basata su criteri etimologici: se la forma latina da cui derivava la voce presentava il nesso ci/gi seguito da vocale, come provǐncǐa(m), la i doveva essere conservata anche nel plurale; se invece la forma base non presentava la i, come il latino tardo cerěsěa, si sarebbe dovuta omettere; questa regola era ancora sostenuta all'inizio degli anni '40 da Amerindo Camilli nel suo Pronuncia e grafia dell'italiano: "Circa l'omissione o la conservazione della lettera i di «c, g, sc + ia, io, iu», quando a, o, u si trasformano in e, i, tutte quelle regole che non si fondano su la distinzione (l'unica che valga) tra i semplicemente diacritica e che deve sempre scomparire, ed i vocale o che può ritornar vocale, la quale rimane o può rimanere, sono false. Si dice che con quelle regole si semplifica l'ortografia. Ma anzitutto avremmo bigie, camicie in contrasto con bigello, camicetta, che non semplifica ma imbroglia maggiormente il problema. [...] Non si può storpiare un fenomeno linguistico per amor di semplicità. Veramente necessario sarebbe nel caso nostro che le grammatiche e i dizionari distinguessero accuratamente i valori della i" (p. 169).
Come faceva notare Migliorini nell'articolo sopra citato, il mantenimento della i etimologica implicava qualche difficoltà: "Il postulato è quello di rispettare i latinismi [...] Ma, come ho accennato, ad applicare il postulato con coerenza occorre molto coraggio: esso implicitamente porta con sé l'affermazione che per applicare l'ortografia italiana delle singole parole bisogna conoscere quella latina" (p. 25). La questione non era ancora del tutto risolta negli anni '60 tanto che nella terza edizione del testo di Camilli, edita a cura di Piero Fiorelli, si legge le seguente nota del curatore: "Non tutte, ma certo molte grammatiche insegnano appunto che i femminili in -cia o -gia hanno il plurale in -cie o -gie se il -c- o -g- è preceduto immediatamente da vocale, in -ce -ge se è doppio o preceduto da un'altra consonante (compresa l'-s- del digramma -sc-). Ora, questa regola è in fondo una semplificazione pratica dell'altra sostenuta dall'Autore, secondo la quale, con rigorosa aderenza a un criterio di fonetica storica si conserva nel plurale la -i- dei latinismi e grecismi (in quanto, da segno diacritico, può ritornare vera vocale nella pronunzia oratoria o poetica), e si sopprime invece l'-i- di formazione popolare (che è sempre stato un semplice segno diacritico e come tale non ha ragion d'essere davanti a un'e). I casi di contrasto tra le due regole non sono molti, riguardano in tutto circa sessanta vocaboli di fronte a circa ottocento in cui l'applicazione dell'una o dell'altra porta agli stessi risultati [...]. Le discordanze [...] sono poca cosa di fronte ai casi di concordanza [...]. In conclusione le due regole posson coesistere senza danno: chi sa il latino si troverà bene colla regola più propriamente storica, che vuole conscie e socie (come il latino consciae e sociae, e come coscienza e società) ma valige e cosce (come valigeria e coscetto, e senza riscontro immediato nella lingua madre); chi non sa il latino si troverà meglio con la regola analogica, che pareggia consce a cosce così come valigie a socie" (nota 271 al par. 108, p. 169).
Fin qui per spiegare l'oscillazione nella grafia del plurale di vocaboli come provincia o ciliegia; a proposito dell'uso di ciliege nel titolo del romanzo da parte di Oriana Fallaci si possono aggiungere alcune riflessioni: è senz'altro probabile che la scrittrice, nata nel 1929, abbia appreso a scuola la grafia basata sulla regola etimologica sostenuta da Camilli; è altrettanto ipotizzabile che la scelta rispecchi anche quel "certo atteggiamento fiorentino [...] di maggior sicurezza - e anche di permissività nei riguardi della lingua", ricordato da Teresa Poggi Salani in Minima di italiano regionale attraverso le guide del telefono (nota 11, p. 109), che si affida senz'altro alla pronuncia toscana come base della scrittura; ma crediamo ingenuo ritenere un'autrice così attenta a fatti linguistici (si pensi al lessico tradizionale impiegato soprattutto nelle pagine in cui si rievocano le radici fiorentine della famiglia) non consapevole della risonanza che la scelta avrebbe suscitato. Più che imputare tale scelta a una volontà di provocazione della Fallaci, ci sembra sostenibile un richiamo al carattere di ricostruzione documentaria condotta attraverso una appassionata ricerca, che la scrittrice attribuisce al romanzo e che la spinge a riportare fedelmente brani dalla provenienza più varia. Le parole del titolo sono parte di un messaggio che la giovane Caterina Zani nella primavera del 1785 affida al sensale di matrimoni incaricato di trovar moglie a Carlo Fallaci: "Allora ditegli [al Fallaci] di venire alla fiera di Rosìa, il 22 maggio [...] Lo aspetterò lì. E per farmi riconoscere porterò un cappello pieno di ciliege"(p. 71). Ciò che caratterizza Caterina Zani, oltre a uno spirito ribelle, è il suo desiderio di imparare a leggere e a scrivere, cosa che riuscirà a fare grazie alla dedizione del marito e all'acquisto di «uno scarno fascicolo di neanche venti pagine, scritto da un sacerdote d'Apta Julia, pubblicato dalla stamperia Pagliarini di Roma, e intitolato così: Metodo italiano per imparare speditamente a legger nonché a scrivere, senza compitare le lettere e per mezzo di cinquantaquattro figure diverse. Sul retro del frontespizio, la spiegazione: "Il presente metodo è facilissimo, stante che porta seco la maniera con la quale ciascheduno può adoperarlo. Non v'ha che da osservare le figure pronunziandone il nome ad alta voce, e poi da guardare le parole che spiegano come quel nome si scrive. Giacché le parole son l'eco delle figure, e le cose che si vedono fanno sulla mente più pronta impressione di quelle che si sentono, tal sistema si accomoda alla capacità d'una persona la meno intelligente. Financo sorda, e muta." Dopo la spiegazione, le pagine con le figure: sempre doppie per indicare il singolare e il plurale, e accompagnate dai vocaboli corrispondenti nonché dagli articoli. "La fibbia, le fibbie. La tromba, le trombe. La fiamma, le fiamme. Il fungo, i funghi"». L'autrice non lo scrive, ma chiunque abbia in mente i disegni appesi alle pareti delle aule della scuola elementare, è tentato di integrare la serie con "La ciliegia, le ciliege" senza la i, perché nel XVIII secolo così doveva essere, perché così e solo così era nel Vocabolario degli Accademici della Crusca alla sua quarta edizione (1729-1738) e così doveva averlo imparato per forza Caterina Zani in Fallaci. Se si considera poi che quel cappello "pieno di ciliege", era per l'antenata, in quanto portato in aperta sfida al severo bando emanato nel 1781 da Pietro Leopoldo per ridurre l'eleganza delle suddite, anche il simbolo del "suo totale rifiuto delle regole e delle imposizioni" (p. 65), adeguare il titolo del romanzo alla regola introdotta nella seconda metà del Novecento, forse per Oriana Fallaci avrebbe significato non tanto, o non solo, contraddire il proprio apprendimento scolastico, ma piuttosto quello faticoso e appassionato dell'antenata Caterina.
Per approfondimenti:
A cura di Matilde Paoli
Redazione Consulenza Linguistica
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