Articolo uscito sulla Crusca per voi (n° 36, aprile 2008) come introduzione ai testi di Michele Gazzola su Internazionalizzazione dell’Università e nuove sfide per la lingua italiana e di Ralph Mocikat e Hermann Dieter sull’Uso della madrelingua nelle scienze naturali
È questa una premessa ai due testi seguenti, che trattano un argomento sul quale non è più possibile, per i settori più direttamente interessati, per la classe dirigente nel suo complesso, per i responsabili politici e per l’opinione pubblica in generale, chiudere gli occhi e le orecchie. Non occorre cedere al catastrofismo per essere convinti della verità di fatti segnalati ripetutamente in convegni e altre sedi di dibattito, con echi su organi di stampa di ogni tipo e colore: che la nostra Scuola, nel suo complesso, fornisce alle generazioni che l’attraversano una preparazione linguistica inadeguata rispetto alla misura richiesta dalla civiltà moderna; che l’Università cozza contro una diffusa incapacità di lettura e scrittura dei suoi studenti; che molti laureati che affrontano le prove di accesso alle professioni vengono eliminati (quando questo accade) per gli abbondanti “errori di italiano” presenti nei loro elaborati.
È un dato di ordinaria cognizione che il sistema educativo e di formazione intellettuale e professionale delle generazioni crescenti richiede un disegno politico che, tra le molte altre questioni, prenda in seria e precisa considerazione i fatti linguistici: i quali sono intimamente connessi con lo sviluppo delle capacità cognitive iniziali e l’acquisizione di un solido sapere personale dell’individuo, ma anche con la formazione della sua coscienza e collocazione sociale e con le dinamiche produttive dell’intera comunità che lo circonda. Purtroppo, non sembra proprio che, dopo gli anni tra il 1975 e l’85, che videro fiorire e sfiorire, prender forma e deformarsi, il principio della centralità dell’“educazione linguistica”, vi sia stato in seguito, nelle sedi di maggiore responsabilità decisionale per il governo del nostro Paese, un chiaro e duraturo progetto volto a tal fine.
L’Accademia della Crusca è fortemente impegnata in questa materia, e non solo con le attività di aggiornamento dei docenti, con seminari per il corpo ispettivo, con la diffusione di materiale didattico e con l’opera di consulenza linguistica irradiata direttamente nelle scuole attraverso questo giornale (che esiste dal 1990) e una specifica rubrica nel proprio sito (dal 2002). Nel novembre 2007 abbiamo ricevuto dall’INVALSI (l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo, di istruzione e di formazione) l’incarico di rilevare il livello di padronanza dell’italiano scritto nei candidati che affrontano l’esame conclusivo della Scuola superiore: senza entrare qui in dettagli, possiamo già far sapere che, al vaglio più razionale e calibrato degli elaborati, solo il 42% dei candidati ottiene un voto che va dalla sufficienza in su (mentre, com’è noto, le Commissioni d’esame licenziano, ogni anno, il 98% degli esaminati). Nello stesso tempo, raccogliamo dati sulla situazione universitaria, dove i “corsi di scrittura”, istituiti ormai in molte sedi, ricevono scarse adesioni perfino tra gli studenti delle Facoltà letterarie. Inoltre, riceviamo ogni tanto documenti da laureati che aspirano all’esercizio delle professioni (specie quelle forensi) e ci imbattiamo, al Nord come al Sud, in situazioni sconfortanti.
Mentre si rinnovano da una parte le deprecazioni e dall’altra le promesse ministeriali, per le quali siamo in trepida attesa, nel quadro complessivo che abbiamo fin qui delineato irrompono due nuove istanze che sottraggono ulteriormente spazio e rilievo all’insegnamento dell’italiano: 1) l’introduzione nelle Facoltà universitarie, e non solo in quelle di area scientifica, di corsi disciplinari in inglese, talora in parallelo, talora addirittura in sostituzione di quelli in italiano, sta alimentando anche una martellante richiesta, da parte di alcune Università, di abituare gli studenti a questa prassi già nella Scuola superiore; 2) si sta tentando di introdurre (il caso si è finora verificato nel Friuli) anche gli idiomi locali come lingue “veicolari” per l’insegnamento nella Scuola.
Ci sentiamo in obbligo di rilevare, anzitutto, la schizofrenia insita nella concomitanza delle due istanze. Per quanto riguarda il primo fenomeno (al quale ho già dedicato un mio intervento nel numero precedente di questo giornale ) abbiamo chiesto un contributo illustrativo a Michele Gazzola, ricercatore ginevrino della scuola di François Grin, specialista di economia delle lingue: gli dobbiamo un’analisi molto articolata del caso italiano, con le sue tipiche impennate, sullo sfondo delle linee tracciate dall’Unione Europea per i programmi educativi. L’autore mette bene in guardia il mondo della ricerca dalle vessazioni dei sistemi di valutazione delle pubblicazioni, dominati da centrali editoriali del mondo anglosassone, e le Università dall’illusione che basti il cambiamento di lingua d’insegnamento per attrarre i migliori studenti da altri Paesi (potrebbero arrivare, invece, i meno dotati, respinti altrove e attratti dai minori costi). La ricchezza di informazioni contenute nel suo saggio ci ha indotti a conservare anche l’utilissima bibliografia che lo correda. Segue un testo che presenta una decisa presa di posizione di un gruppo di scienziati tedeschi sul tema della funzione insostituibile della lingua primaria (la lingua nazionale) per l’avanzamento del pensiero scientifico e per il radicamento sociale della scienza.
Per quanto riguarda il secondo fenomeno, spia di una tendenza alla regionalizzazione anche linguistica della Scuola, dovrebbero emergere facilmente, a una semplice riflessione, le mille contraddizioni che si creano elevando addirittura a metalingue del sapere (il sapere complesso e formalizzato delle discipline moderne) idiomi non pienamente standardizzati, non spendibili altrove, familiari (per l’uso domestico) solo a una parte della scolaresca e del corpo docente locale, ma ovviamente ignoti a un’altra non piccola parte dell’una e dell’altra componente, per non parlare della sempre più folta presenza, in ogni regione, di alunni della più diversa origine etnica.
Ci auguriamo che queste pagine servano almeno a ridurre il disorientamento e l’indecisione che gravano sui nostri problemi linguistici: soprattutto a convincerci che esistono processi – come quelli dipendenti dalla scelta delle lingue nei programmi educativi – che non possono essere lasciati totalmente alla discrezione e all’arbitrio di singoli e incontrastati promotori di novità. Se è bene, anzi benissimo, che si acuiscano gli stimoli all’apprendimento di altre lingue estere (vecchia zona d’ombra nella nostra cultura nazionale) e che, in particolare, si assicuri nei giovani una buona conoscenza del mezzo linguistico di comunicazione mondiale, non si vede perché non ci debba essere un altrettanto aperto e forte richiamo alla necessità imprescindibile e pregiudiziale di una solida padronanza dell’italiano, fondamento (condiviso con altre lingue solo nelle aree effettivamente e paritariamente bilingui) di tutto l’edificio delle capacità linguistiche per i membri dell’intera nostra comunità nazionale.
È ora che un obiettivo del genere, esplicitamente e circostanziatamente definito, entri nei programmi dei governi. Vogliamo anche dire, con l’occasione, che non ci attendiamo di veder rinascere il proposito, affiorato un paio di legislature fa, di istituire un “Consiglio della Lingua Italiana” come organo governativo fortemente presidiato dall’esecutivo e inteso ad attuare, per pure esigenze di politica contingente, un confuso compromesso tra dirigismo di Stato e spinte regionalistiche. Fatto salvo il necessario raccordo con i decisori politici, un organo che tratti una materia così delicata come la politica linguistica (nazionale ed estera) non può che essere affidato davvero alle competenze scientifiche in diversi campi: linguistico, psico-pedagogico, della comunicazione nelle sue molte specie. Competenze capaci e libere di elaborare le idee direttrici da far circolare pubblicamente, in modo che illuminino ogni ambito in cui prende forma, per i più vari e imprevisti bisogni, l’uso della lingua.
Amiamo richiamarci alla concretezza e riteniamo che ci sia spazio per costruire, prima di proclamare l’irreparabile. Per invertire decisamente tendenze deterioranti nei comportamenti linguistici della nostra società, il vero punto di svolta, come auspicato da molto tempo anche da questa Accademia , non può esser dato che da robusti interventi per una formazione iniziale e un effettivo aggiornamento degli insegnanti di italiano, da porre, in tutto il territorio nazionale, su basi più solide e scientifiche nel campo delle discipline linguistiche: non solo insostituibili per la loro funzione strumentale, ma di per sé formatrici di cultura e ovviamente da coniugare con altro sapere di forte spessore nei più diversi campi, letterario, storico, scientifico e di altro genere. Aggiornamento e nuova formazione della classe docente: un compito di primissimo piano – d’importanza pari ad altri risanamenti del nostro sistema di vita sociale – che spetta liberamente e inequivocabilmente alle Università, che a loro volta ne riceverebbero utilissimi stimoli alla razionalizzazione delle proprie funzioni.
Per collaborare a tali risultati, Scuola e Università hanno tuttavia bisogno di buone regole politiche generali (verifiche degli apprendimenti degne di questo nome; prove d’ingresso all’Università; opportuni collegamenti tra percorsi formativi e sbocchi professionali) che ne guidino induttivamente l’azione.
Ciò che di buono potrebbe prender corpo nella Scuola e nell’Università si trasmetterebbe abbastanza rapidamente, com’è logico, all’intera società. Ma ben prima di giungere a questi effetti, occorrono anche autonome assunzioni di responsabilità in proprio da parte di molti apparati delle istituzioni pubbliche e di tutto il sistema dei mezzi di comunicazione: due comparti che potrebbero certamente fare di più per incitare tutti i cittadini a una più profonda comprensione della nostra storia e civiltà e, corrispondentemente, a un uso chiaro e appropriato della nostra lingua.
Francesco Sabatini
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