Perché l'uso delle forme femminili per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne incontra ancora tanta resistenza? Forse soltanto per ragioni...culturali? Ne parliamo con Cecilia Robustelli.
Marzo 2013
Cecilia Robustelli (Università di Modena)
La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio costituisce ormai da molti anni un argomento di riflessione per la comunità scientifica internazionale, ma anche per il mondo politico e, oggi, sempre più anche per quello economico. In Italia numerosi studi, a partire dal lavoro Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno messo in evidenza che la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo. Inoltre, in italiano e in tutte le lingue che distinguono morfologicamente il genere grammaticale maschile e quello femminile (francese, spagnolo, tedesco, ecc.), la donna risulta spesso nascosta “dentro” il genere grammaticale maschile, che viene usato in riferimento a donne e uomini (gli spettatori, i cittadini, ecc.). Frequentissimo è anche l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne: sindaco e non sindaca, chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera, ecc.
Forti richiami a rivedere questa tradizione androcentrica sono arrivati da diversi settori della società, dall’accademia e dalle istituzioni di molti paesi europei, per esempio dalla Confederazione Svizzera - dove l’italiano è tra le lingue ufficiali - che ha pubblicato recentemente una Guida al pari trattamento linguistico di donna e uomo nei testi ufficiali della Confederazione (2012). In Italia la Direttiva Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche ha rinnovato qualche anno fa (2007) la raccomandazione a usare in tutti i documenti di lavoro un linguaggio non discriminante e ad avviare percorsi formativi sulla cultura di genere come presupposto per attuare una politica di promozione delle pari opportunità. Molte amministrazioni hanno aderito a questo invito e la stessa Accademia della Crusca ha collaborato con il Comune di Firenze al progetto Genere&linguaggio e alla pubblicazione delle prime Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo. Ma sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale sono ancora forti e così, per esempio, donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere grammaticale maschile: il ministro Elsa Fornero, il magistrato Ilda Bocassini, l’avvocato Giulia Bongiorno, il rettore Stefania Giannini.
Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche.
I meccanismi di assegnazione e di accordo di genere giocano un ruolo importante nello scambio comunicativo e meriterebbero di essere conosciuti anche al di fuori della cerchia accademica per fugare la convinzione, diffusa, che usare certe forme femminili rappresenti solo una moda. Molti ricorderanno il recente diverbio sorto in una riunione in Prefettura (a Napoli) perché un cittadino chiamava signora (essendo incerto sul termine prefetta!), invece che protocollarmente prefetto, la titolare di questa carica in una provincia vicina.
Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile?
Cecilia Robustelli (Dott lett Univ. Pisa, MA e PhD Univ. Reading) è docente di Linguistica Italiana all'Università di Modena e Reggio Emilia. Ha svolto attività scientifica e didattica in Inghilterra (Univ. di Reading, Londra Royal Holloway e Cambridge) e Stati Uniti come Fulbright Visiting Scholar presso la Cornell University. I suoi campi di ricerca sono la sintassi storica, la storia della grammatica, il linguaggio di genere e la grammatica dell'italiano contemporaneo. Fa parte del Comitato di esperti/e della Rete di Eccellenza dell'Italiano Istituzionale (REI) presso il Dipartimento di Italiano della Commissione Europea e del Comitato direttivo della European Federation of National Institutions for Language (EFNIL). Collabora con l'Accademia della Crusca sui temi del genere e della politica linguistica italiana in Europa.
http://unimore.academia.edu/CeciliaRobustelli
Eventi, articoli e interviste
Pubblicazioni
L'Accademico Mirko Tavoni affronta il tema dell'insegnamento della grammatica a scuola e del suo rapporto con le effettive competenze linguistiche e metalinguistiche degli italiani.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
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Intervento conclusivo di Cecilia Robustelli
La ricchezza e la vivacità di commenti suscitati da questo tema dimostra che l’interesse per l’uso di un linguaggio rispettoso dell’identità di genere, che presenta molti punti di contatto con il dibattito sul linguaggio non sessista degli anni Ottanta, è ancora vivo: forse, come si sostiene in uno degli interventi, vi si può vedere un indice che “la cittadinanza riprende a usare il proprio spirito critico”. Alcuni presupposti concettuali risultano ormai accettati e condivisi, su tutti quello che il linguaggio non è immutabile, ma può essere plasmato rispetto alla tradizione in base ai mutamenti della società. Anche l’ascesa sociale delle donne deve essere riflessa dall’uso della lingua, largo quindi alle forme femminili per titoli professionali e ruoli istituzionali di prestigio per contribuire all’affermazione di una cultura paritaria nel rispetto delle differenze di genere. Le pratiche educative devono riflettere questa nuova cultura, a partire dai libri di testo, per contribuire fin dai primi anni alla formazione delle nuove generazioni.
Il rifiuto di usare il genere grammaticale femminile viene interpretato come una resistenza “all’apparire delle donne in certe attività”. È falso, si sostiene nella quasi totalità degli interventi, che le forme maschili conferiscano maggiore autorità rispetto a quelle femminili: al contrario, sono ritenute l’ultimo baluardo del predominio maschile! Per questo la preferenza verso i titoli maschili da parte di molte donne di primo piano della vita politica e sociale viene interpretato come una rinuncia al proprio valore e alla propria soggettività. L’apertura, da parte dei media, verso l’uso di forme femminili viene accolta con grande favore, così come i tentativi individuali (ancora sporadici!) di superare l’impermeabilità alle forme femminili che si osserva in alcuni ambiti professionali e istituzionali quali (parzialmente) quello medico e quello militare.
Si osserva una maggiore sicurezza sul piano grammaticale: le incertezze di tipo morfologico, cioè sulla correttezza formale delle nuove formazioni femminili, sembra dissipata, con l’eccezione per le forme in -essa per le quali si chiedono vere e proprie regole. Quel che qui possiamo dare sono però solo suggerimenti: usare tranquillamente le forme in -essa già in uso nella nostra lingua (campionessa, dottoressa, professoressa, ecc.), evitare di costruirne di nuove preferendo altre strategie di formazione lessicale (deputata, ministra, sindaca) o l’anteposizione dell’articolo femminile per le forme in -e (la giudice, la vigile, ecc.). Si rimanda a questo proposito alle Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, pubblicate dal Comune di Firenze e dall’Accademia della Crusca, pp. 19-20.
Cominciamo, o continuiamo, quindi a usare le forme femminili con piena tranquillità rispetto alla loro correttezza formale e con consapevolezza del loro portato, non solo simbolico, per l’affermazione di una nuova cultura di genere. Come sosteneva Nicoletta Maraschio nel suo intervento conclusivo del mese scorso, infatti, "le lingue non sono strumenti neutri chiamati a svolgere una semplice funzione comunicativa, le lingue sono sistemi complessi, fatti di tante varietà e rispondenti a tante funzioni diverse. Può essere estremamente rischioso rinunciare ad usarle nella loro interezza!".
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