Alcuni lettori si interrogano sui significati di iconografia e iconografo e chiedono se i due termini possano designare, rispettivamente, la pittura e il pittore di icone.
Immagini e icone
I termini iconografìa e iconògrafo sono prestiti dal greco antico eikonographía e eikonográphos, composti dal tema eikon- di eikṓn ‘immagine’ (più una o come vocale di unione) e dal tema graph- di grápho ‘scrivo, dipingo’, con suffisso nominale -ía a indicare l’effetto dell’azione, -os a indicare la persona che compie l’azione. I significati delle due parole greche erano, dunque, rispettivamente, ‘schizzo, descrizione’ e ‘pittore, ritrattista’.
Il vocabolo greco eikṓn, connesso etimologicamente alla radice di éoika ‘sono simile, somiglio, sembro’, vale ‘immagine’ in tutti i suoi vari significati: ‘figura’ di pittura o statua, ‘riflesso’ allo specchio, ‘forma immaginaria’, ‘simulacro, fantasma’, ‘confronto, paragone’, ‘archetipo, modello’.
Nel greco cristiano e protobizantino la parola assume una particolare caratterizzazione semantica: eikṓn designava ogni raffigurazione di Cristo, della Vergine (e anche di un santo o di un angelo), ogni tipo di ‘immagine sacra’ indipendentemente dalla tecnica usata, fosse essa dipinta o scolpita, musiva o affrescata, mobile o parietale. L’icona nell’Oriente greco è dunque un ritratto e un’immagine di devozione. Il tipo di immagine sacra più accessibile, per la devozione privata e l’uso rituale, è il piccolo dipinto religioso su tavola, l’icona portatile, presenza costante sia nei cerimoniali liturgici sia nella sfera domestica.
Con il termine icona si indicano oggi in accezione ristretta, in ambito storico-artistico, proprio le immagini devozionali di piccole dimensioni ritraenti una figura sacra sull’oro rilucente dello sfondo, dipinte su tavola. Da Costantinopoli le icone si irradieranno in Russia e nell’area slava e balcanica, dove avranno grande diffusione, anche dopo la caduta dell’Impero romano d’Oriente, fino a oggi, così come in Grecia, specie nei monasteri del Monte Athos. L’influsso di Bisanzio (e delle sue icone) è avvertibile anche in Italia, nel Sud e a Venezia, nell’arte e nella liturgia.
L’italiano icòna (o icóna, con pronuncia della ‘o’ sia aperta che chiusa) deriva dal latino tardo icŏna, dal greco bizantino eikóna (accus. sing. di eikṓn); dal latino icōn (dal nominativo eikṓn) proviene invece la forma antica e letteraria icòne, al plurale icòni. Nell’italiano antico la forma con aferesi cona (cfr. TLIO, s.v.) è attestata, perlopiù in dialetti meridionali e nel siciliano, anche come “immagine sacra riprodotta su una tavola lignea”, dunque nel significato tecnico che identifica immagini religiose orientali o che riprendevano forme e stile dell’Oriente bizantino.
Il vocabolo, pur presente in lessici specifici di termini religiosi e in altri testi, dove icona indica l’immagine di culto di origine greca, viene registrato in questo significato nei dizionari italiani solo dal tardo Ottocento (le attestazioni precedenti riportavano il senso di imago ‘comparazione o similitudine’, in retorica); i dizionari contemporanei definiscono più specificamente l’icona come immagine sacra “dipinta su tavoletta di legno o lastra di metallo, spesso decorata d’oro, argento e pietre preziose, tipica dell’arte bizantina e, in seguito, di quella russa e balcanica” (Vocabolario Treccani online); il termine è usato anche in senso estensivo, sebbene non frequente, per indicare genericamente una ‘immagine sacra’, dipinta o scolpita.
A questo valore tecnico-specialistico, l’unico che i vocabolari registrano fino alla metà inoltrata del Novecento, si sono aggiunte nell’ultima parte del secolo nuove accezioni particolari per il termine, che ha così conosciuto nuove possibilità di impiego e una certa fortuna. La parola, infatti, è stata ripresa nel linguaggio della semiologia (come “segno che presenta una certa analogia o affinità formale con l’oggetto denotato”), prima in inglese e in francese, e poi in italiano; indica, in senso figurato, in àmbito mediatico, una “figura emblematica o altamente rappresentativa, emblema, simbolo” di un’epoca, di un genere artistico o altro; infine, come anglismo informatico, è passata al lessico comune nell’accezione di piccola “immagine stilizzata impiegata per rappresentare programmi, documenti, archivi di dati, singole informazioni e anche varie funzioni” sulla scrivania del computer e dei vari strumenti informatici (Devoto-Oli 2021). Diversi significati, che derivano sia dall’ampio spettro semantico di eikṓn sia dal senso profondo delle icone sacre: immagini simboliche, astratte eppure potenti, evocative e riconoscibili.
Il prefisso icono-, come primo elemento di composizione, ha il valore di ‘immagine, ritratto’ in voci dotte ereditate dal greco antico o in neologismi della terminologia scientifica, coniati modernamente sul modello greco, nei composti che riguardano la sfera della rappresentazione visiva in genere (iconografia, iconologia; iconofonico “nei rebus o in sistemi ideografici, riferimento a una parola mediante l’immagine di una parola che ha lo stesso suono ma di altro significato”, iconoscopio “tubo elettronico per riprese televisive”); in grecismi del periodo bizantino o posteriori, di riferimento religioso (iconoclasta “distruttore di immagini sacre”, iconodulo “difensore del culto delle immagini sacre”, iconostasi “nelle chiese di rito ortodosso, divisorio del presbiterio su cui sono collocate le icone” ecc.) il significato del prefisso è invece quello di ‘immagine sacra’.
Le due formazioni cólte iconografia e iconografo si sono largamente affermate nel linguaggio specialistico della critica e storia dell’arte, in rapporto alla ricerca dei significati dell’immagine, nella descrizione e decifrazione del suo complesso messaggio, e alla riflessione sull’oggetto artistico.
Iconografia, icnografia, iconologia
Non documentato nel latino tardo e medievale, il termine penetra nell’italiano in età moderna. Filologicamente inattendibile è la datazione proposta dal dizionario Zingarelli (dall’edizione 2008) del 1585, che rimanda a una delle più recenti edizioni della Piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tommaso Garzoni, pubblicata a Venezia appunto in quell’anno. La lezione del testo originale (e delle successive edizioni antiche), all’inizio del discorso 107, è in realtà icnographia (o icnografia, a seconda delle varie edizioni; quella del 1665, l’ultima delle antiche, riporta per errore ionografia), un termine tecnico dell’architettura. Usato da Vitruvio (De architectura, I, 2, 2), il termine ichnographia indica infatti l’atto del tracciamento impresso sul terreno (íchnos in greco è appunto la ‘traccia’), il quale necessita anche di un disegno preliminare; tradotto genericamente con ‘pianta’, è interpretabile come rappresentazione dell’edificio in piano.
Dunque, icnografia e iconografia sono due diversi grecismi. Le vicende della circolazione e dell’uso del termine iconografia sembrano però riguardare inizialmente una confusa sovrapposizione con icnografia: le due parole, infatti, si alternano talvolta in opere differenti, nella trattatistica dell’architettura fra Cinque e Seicento, nella cartografia urbana per designare la rappresentazione planimetrica degli edifici, o in trattati matematici, di geometria. Anche la raffigurazione allegorica dell’Iconografia nell’edizione padovana del 1624-1625 della Novissima iconologia di Cesare Ripa, repertorio di figure, simboli ed emblemi, possiede tratti e attributi in linea con il significato dell’icnografia.
L’affinità concettuale fra i due termini – l’‘immagine’ e la ‘pianta’ dell’edificio – potrebbe indurre a pensare, ragionando anacronisticamente, a una loro intenzionale sovrapposizione; la reiterata presenza di attestazioni di iconografia nei contesti di pertinenza dell’icnografia e l’alternanza di grafia (ichono-/icono-) talora riscontrata, farebbero supporre una semplice variante formale di icnografia. In ogni caso, tale variante “corrotta” deve essersi insinuata nella tradizione e trasmissione del testo di Vitruvio (si ritrova, per esempio, nello Speculum doctrinale di Vincenzo di Beauvais, nell’incunabolo stampato a Strasburgo intorno al 1477, e in successive edizioni), e da qui ha finito per diffondersi, viaggiando per un tratto in parallelo con il grecismo originario icnografia.
La prima opera che porta nel titolo il termine iconografia con il nuovo significato di ‘descrizione per immagini’, è attribuibile a Giovanni Angelo Canini, che intraprese la compilazione di una grande raccolta di ritratti, l’Iconografia, cioè disegni d’imagini de’ famosissimi monarchi, regi, filosofi, poeti ed oratori dell’antichità, completata e pubblicata postuma dal fratello Marcantonio (Roma, 1669), ricca di incisioni riprese da marmi, statue, medaglie, gemme antiche e altri oggetti.
Il vocabolo, nel significato di ‘descrizione’ pittorica, ‘raffigurazione’, circolava già da qualche tempo in opere scritte in latino (come l’Iconographia di S. Antonio da Padova del gesuita Pietro Giacomo Falconi, Roma, 1648); e, più o meno negli stessi anni, è attestato anche in francese e in altre lingue europee (cfr. le voci iconographie e iconography in TLFi e OED).
Fra Sei e Settecento l’iconografia si sviluppa come scienza ausiliaria della ricerca erudita, dall’archeologia alla numismatica, e nel linguaggio degli antiquari e dei conoscitori d’arte il termine iconografia si consolida con il valore di ‘disegno’, ‘descrizione’ di immagini. Sebbene un’incertezza sull’uso sia ravvisabile ancora per qualche tempo in diverse opere, il significato storico-artistico del vocabolo si impone sulla variante di ambito architettonico icnografia, il cui impiego si ridimensiona, sostituito preferibilmente da altri termini (pianta, disegno ecc.).
Nel lessico di Voci italiane d’autori approvati dalla Crusca nel Vocabolario d’essa non registrati con altre appartenenti per lo più ad arti e scienze (1745) Gian Pietro Bergantini registra la distinzione tra icnografia (“leggiere abbozzo di alcun edifizio, o di altra cosa che sia”), iconografia (“scrittura fatta a forza di immagini, e figure”) e iconologia (“arte di dimostrare il pensiero colle immagini, discorso figurato”).
Tra le opere dedicate alla storia e alla critica delle arti figurative, il Dizionario delle belle arti del disegno estratto in gran parte dall’Enciclopedia metodica (1797) di Francesco Milizia, definisce l’iconografia “descrizione delle immagini”; e “dicesi propriamente della cognizione de’ monumenti antichi, come busti, pitture”, come registra il Dizionario universale di Francesco Alberti di Villanova (vol. III, 1798), mentre l’iconologia è “interpretazione delle imagini, ed emblemi”.
Ancora nell’Ottocento il presunto significato architettonico di iconografia (“descrizione della superficie orizzontale di tutte le opere d’un piano di fortificazione per mezzo delle linee, degli angoli e dell’altezza, non in prospettiva, né in profilo”) permane in alcuni vocabolari, come nel repertorio di grecismi di Marco Aurelio Marchi (1828), accanto all’accezione filologica.
Nel suo Dizionario della lingua italiana (vol. II, 1869) Niccolò Tommaseo registra i significati del termine: l’iconografia è lo “scritto intorno a immagini dipinte, segnatamente di busti o pitture antiche, e più specialmente di ritratti”; la “raccolta di ritratti d’illustri”; ed è anche la “descrizione per via d’imagini e di figure”, con riferimento alle illustrazioni delle varie specie botaniche di fiori e piante o di animali nell’ambito delle scienze naturali, e al disegno anatomico medico.
Nella quinta impressione del Vocabolario della Crusca (vol. VIII, 1889) e maggiormente nei vocabolari del primo Novecento, come quello di Giulio Cappuccini (1916) e del primo Zingarelli (1917), si delinea il significato dell’iconografia, “studio, trattato intorno alle immagini (dipinte, scolpite, ecc.), specialmente per ciò che concerne il soggetto e la maniera con cui è rappresentato”, mentre l’iconologia, termine letterario e raro, “poco o punto differisce da iconografia, ma fu usato particolarmente, per dichiarazione de’ simboli allegorici che si trovano nell’arte antica e moderna”.
Nel corso del secolo passato l’iconografia aveva riguardato non solo l’antichità classica (come nella collezione di ritratti dell’Iconografia greca e romana di Ennio Quirino Visconti), ma anche l’arte cristiana e medievale, descrivendone temi e soggetti, decifrandone allegorie e simboli, classificandone ricorrenze e variazioni. Ora l’iconografia si spinge oltre l’analisi descrittiva per diventare una prima indagine e consentire all’iconologia, come nuova disciplina (e non più repertorio di allegorie interpretate ad uso dell’artista, riprendendo il titolo del manuale di Cesare Ripa), di decifrare in profondità l’immagine, alla luce del contesto socioculturale che l’ha generata, fino a interpretazioni in chiave psicologica (individuando i significati non intenzionali, di cui l’artista stesso è inconsapevole).
Aby Warburg usa nel 1912 l’aggettivo iconologico (“ikonologische Analyse”) per intendere questa nuova modalità interpretativa dell’immagine e dell’opera d’arte. I due termini, iconografia e iconologia, sono poi impiegati in questa prospettiva da Godefridus Johannes Hoogewerff (nel 1928 e nel 1931) e successivamente gerarchizzati da Erwin Panofsky, in tre momenti di lettura dell’immagine (Studies in Iconology, 1939, rielaborati nel 1955; tradotti in italiano nel 1975, ma già noti almeno dai primi anni Sessanta). Tendenze più recenti e contemporanee hanno messo in luce i limiti del metodo iconologico, una certa confusione derivante dalla non unanime condivisione del significato dei termini iconografia e iconologia, ma anche la nuova vitalità della disciplina iconografica, con riletture e rivisitazioni per la soluzione dell’enigma-immagine e approcci multidisciplinari per una moderna scienza dell’immagine.
I dizionari dell’uso sintetizzano in questo modo i risultati delle riflessioni critico-artistiche: come disciplina della storia dell’arte l’iconografia è la “parte dell’iconologia che si occupa dell’elencazione sistematica delle raffigurazioni relative ad un soggetto” (Zingarelli 2021), lo “studio dei soggetti, dei temi, delle allegorie e sim.” (GRADIT) nelle opere d’arte; come termine specialistico indica inoltre “l’insieme delle rappresentazioni figurative, relative a un personaggio o a un determinato soggetto; l’arte figurativa di una civiltà artistica, di un’epoca storica, un movimento ecc.” (GRADIT), individuando gli elementi compositivi nella rappresentazione di un soggetto in un’opera d’arte e le modalità con cui esso è stato raffigurato nei secoli.
Nell’uso più comune, in accezione estensiva, iconografie sono i modi di rappresentazione, gli attributi radicati e gli stereotipi, le caratteristiche identificative di un soggetto o di un evento: per esempio, il profilo severo di Dante, la sua lunga veste rossa con le maniche larghe, il copricapo del medesimo colore, da cui spunta la berretta bianca e che ricade morbido sulle spalle, la corona d’alloro, il libro della Commedia in mano; così come “è nella storia e nella tragica iconografia della strage l’orologio fuori dalla stazione di Bologna che si è fermato nell’attimo della deflagrazione” (“la Repubblica”, 16/2/2020).
Infine, nella seconda metà del Novecento (nel 1967 il dizionario Devoto-Oli etichetta il senso come non comune), il termine passa a indicare estensivamente, penetrando nella terminologia editoriale e bibliografica, l’apparato figurativo di un libro, il complesso delle immagini che corredano e integrano un testo: l’iconografia è anche, per sineddoche, la figura, l’illustrazione, l’immagine.
Come settore specifico di studi sull’arte, l’iconografia musicale è la disciplina che si occupa delle immagini a soggetto musicale (ritratti di musicisti, rappresentazioni degli strumenti e della notazione musicale) contenute nelle fonti figurative. L’iconografia urbana si riferisce invece alla rappresentazione in immagini della città e delle sue trasformazioni architettoniche, comprendendo il più largo insieme del vedutismo e della cartografia storica e raccogliendo ritratti cittadini tra realtà e raffigurazione simbolica. Il termine ha assunto anche una declinazione sociologica, nell’ambito della geografia umana, secondo la definizione e l’uso di Jean Gottmann (1915-1994): nel concetto di iconografia locale, regionale ecc. è compresa non solo la rappresentazione geografica, ma anche storica (con il suo bagaglio di simboli e culture), di un insediamento umano e di una società, tesa tra movimento e stabilizzazione spaziale.
Iconografo
Agli autori di collezioni di ritratti e allegorie, esperti catalogatori e interpreti del loro corredo di attributi e simboli, ci si riferisce in queste due testimonianze: “se un pittore dipingesse l’Inganno, ò la Crudeltà co’ geroglifici, che sogliono loro attribuirsi dagl’iconografi…” (Giovanni Lorenzo Lucchesini, Saggio della sciocchezza di Nicolò Machiavelli, Roma, 1697); “la Persuasione… in difetto di antiche immagini, ha figurato il pittore come sogliono i moderni iconografi” (Lorenzo Becatelli, I riti nuziali degli antichi Romani per le nozze di Sua Eccellenza Don Giovanni Lambertini con Sua Eccellenza Donna Lucrezia Savorgnan, Bologna, 1762).
Altre volte il suffissoide -grafo assume valore passivo e iconografo diventa ‘che reca un’immagine’, cioè ‘figurato, dipinto, istoriato’, come quando si dice che viene rinvenuto, dopo le medaglie e le immagini numismatiche, “da un vetusto codice Nazianzeno un greco monumento iconografo, ed è l’imagine di Costantino, che al Ponte Molle [Milvio] sbaraglia, e vince Massenzio” (Giambattista Toderini, La costantiniana apparizion della croce, Venezia, 1773).
Oltre queste attestazioni, il termine assume, da un lato, il significato di ‘illustratore’, soprattutto in ambito naturalistico e nella tradizione delle tavole anatomiche. Ma dal primo Ottocento l’iconografo è anche, in senso storico-artistico, chi scrive un’opera iconografica, lo studioso di iconografia, che raccoglie, classifica e identifica i documenti figurativi dell’antichità; talora può indicare anche l’artefice stesso (pittore o scultore) dell’opera.
Il termine è registrato nel repertorio etimologico di Marco Antonio Canini (1865): iconografo vuol dire “che descrive le immagini di celebri personaggi” e anche “che descrive un piano di fortificazione” (parallelamente al supposto significato architettonico di iconografia), mentre solo pochi anni dopo Niccolò Tommaseo definisce iconografo “chi scrive opera iconografica, o fa studii iconografici, o illustra iconograficamente un museo”.
Ma la parola è usata ancora in senso più specifico: Adolfo Venturi polemizza “col metodo degl’iconografi, che, in generale, invece di avere a mira lo svolgimento artistico di una forma, […] ricercano il significato delle immagini” (nella “Nuova Antologia”, 1894). L’iconografo è l’esegeta delle immagini e dei loro caratteri evidenti e nascosti: a veicolare il termine sono soprattutto i periodici specializzati. Nelle pagine della rivista “L’arte” Venturi scrive: “l’iconografo prende spesso il posto dell’artista, ma l’iconografo gode, apprezza, si esalta, pur guardando da un punto di vista meno diretto” (1902); “l’iconografo non si dà pace, e vuol mostrare la sua scienza da per tutto: è come aceto che bolle e ribolle, geme, schizza, s’infiltra fuor della botte” (1929). Anche Roberto Longhi non guarda con troppa benevolenza l’“iconografo corrivo” di giurare su certe attribuzioni (“Critica d’arte”, 1939; anche in rete tra Le parole dell’arte, negli scaffali digitali della Crusca).
E i vocabolari che attraversano il Novecento raccolgono queste suggestioni: l’iconografo è “chi è più o meno versato nell’iconografia” (Giulio Cappuccini, 1916), “che dipinge immagini, chi studia iconografia” (nella prima edizione, 1917, del vocabolario Zingarelli e fino alla nona edizione compresa, del 1966), poi più decisamente lo “studioso di iconografia” (DEI, Devoto-Oli 1967 ecc.).
Contro I nuovi iconografi (poesia contenuta nel Diario del ’71 e ’72, Milano, Mondadori, 1973) si scaglia Eugenio Montale, prendendo di mira la moda editoriale delle fotobiografie letterarie, composte di storie effimere e squallide miserie, a creare un museo di immagini per la venerazione: “Si sta allestendo l’iconografia / di massimi scrittori e presto anche / dei minimi. Vedremo dove hanno abitato, / se in regge o in bidonvilles, le loro scuole…”. Il biasimo si rivolge qui a una critica erudita che entra nel privato, fermandosi agli aspetti esteriori: ermeneuti tanto superficiali quanto voyeur morbosi, indifferenti a una conoscenza dell’arte autentica e profonda.
Con l’espansione della produzione libraria, dell’editoria scolastica e periodica e con l’incremento delle illustrazioni nei libri a corredo del testo, si profila per il termine un nuovo significato, registrato poi anche dai dizionari (nello Zingarelli dal 1983), che delinea una nuova figura professionale: l’iconografo è il “tecnico editoriale addetto alla scelta delle illustrazioni di un libro e genericamente di una pubblicazione”. Sui quotidiani le attestazioni, presenti in particolare negli spazi pubblicitari per corsi di formazione per l’editoria e il web, inquadrano la figura del redattore nel passaggio dall’editoria tradizionale alla redazione internet, seguite da altre più recenti attestazioni in rete: per esempio, “La Stampa”, 4/1/2002: “L’iconografo: lavorare con le immagini”; “La Stampa”, 15/10/2004: “La coscienza dell’immagine: dallo scatto fotografico al lavoro dell’iconografo”. All’interno della filiera editoriale l’iconografo (che si differenzia dal grafico) si occupa di scegliere l’immagine più appropriata per un testo o un libro; si tratta di un’attività specializzata che prevede una ricerca documentaria e fotografica, implica una componente di creatività, capacità relazionale con musei e archivi e competenza gestionale dell’uso delle immagini dal punto di vista legale ed economico.
Il termine rimane, in definitiva, piuttosto confinato nello specialismo della storia dell’arte, nella nicchia tecnica dei mestieri del libro, o adoperato in un vocabolario espressionistico e ricercato, offrendo forse ancora qualche nebulosità nell’uso e nella comprensione; non è frequente in usi traslati, estensivi, fuori dall’ambito artistico o contestualizzati e calati nel presente politico-sociale, come per esempio sul quotidiano “la Repubblica”, 27/11/2012, nell’articolo di Michele Smargiassi, Due scatti nella storia, dove gli “iconografi brigatisti” sono gli autori delle fotografie di Aldo Moro durante il sequestro, immagini storicamente iconizzate.
alle radici millenarie / della selva d’iconeFin dai primi del Novecento il vocabolo si carica però di un’altra valenza, più vicina al significato etimologico: l’iconografo è il ‘pittore’, ma non solo, è il pittore di icone. Ad esempio: “il sistema di graffiare i contorni si è conservato anche nell’iconografia russa: l’iconografo russo utilizzava per questo scopo un chiodo, e diceva che graffiava il disegno” (Wladimir de Grüneisen, negli scritti su Duccio di Buoninsegna e la sua scuola, Siena, 1913). Anche per iconografia questa e altre attestazioni in saggi specialistici e periodici d’arte sono testimoni di un significato che non collima con quelli analizzati finora, quello appunto di pittura di icone.
Negli studi, fra gli anni Trenta e Quaranta, sulla pittura italo-cretese e veneziana il termine iconografo è usato per indicare il “pittore di immagini di santi”; nei decenni seguenti e fino a oggi ricorre poi piuttosto frequentemente in studi di storia dell’arte e di teologia sull’icona bizantina e russa e in cataloghi di mostre. Sui giornali il vocabolo sembra riaffiorare, dopo qualche attestazione sporadica nei primi anni del Novecento, sostanzialmente negli anni Settanta, per significare, nel contesto bizantino e dell’arte religiosa ortodossa orientale, il pittore di immagini sacre, di icone (cfr. “La Stampa”, 23/1/1973), e con una certa regolarità soprattutto dagli anni Ottanta, stagione di mostre e riscoperta degli ori delle antiche icone, in poi: “maestro iconografo”, “pittore iconografo”, “monaco iconografo” e più semplicemente iconografo (declinato anche al femminile: iconografa è attestato nel “Corriere della Sera”, 4/4/1992 ecc.). Per imparare a dipingere un’icona secondo le tecniche tradizionali in uso ancora oggi nei monasteri ortodossi greci e russi e raggiungere le radiose “geometrie perfette dell’iconografia ortodossa” (“La Stampa”, 16/12/2016) vengono fondate “scuole di iconografia” (“la Repubblica”, 6/12/1988 ecc.) o di “pittura iconografica”: viene infatti trascinato e attratto in quest’accezione, non di rado, anche l’aggettivo iconografico, non già qui con il valore di ‘illustrativo’, ‘figurativo’.
La spiegazione di questa ulteriore accezione semantica dei due termini si trova, dal punto di vista socioculturale, nella riscoperta occidentale delle icone russe, dimenticate nelle chiese, annerite dai fumi degli incensi e delle candele, oscurate dal passare del tempo, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Il crescente interesse nei loro confronti, l’ammirazione per la loro bellezza artistica, l’attrattiva spirituale per il loro significato profondo di fede, hanno portato a un intensificarsi di esposizioni, mostre, collezioni, perfino all’istituzione di “corsi di iconografia”, mentre si sono moltiplicate pubblicazioni scientifiche e divulgative dedicate alle icone.
Dal punto di vista linguistico il termine icona riemerge allora come “prestito di ritorno” nei vocabolari italiani, dal russo ikona (bizantino eikóna), identificando l’immagine devozionale-ritratto su pannello di legno. E il significato aggiunto di iconografia e iconografo è interpretabile come calco semantico (anche per tramite dell’inglese) dal russo, lingua – come del resto il greco – in cui infatti è prevalente, se non esclusivo, per i corrispettivi vocaboli (ikonopis’ e ikonopisec) il significato di pittura e pittore di icone.
Un suggerimento di trasposizione italiana del termine ikonopis’, fatto nel 1904 da Antonio Muñoz, bizantinista della scuola di Venturi, sulla rivista “L’arte” (in riferimento appunto alla “pittura su tavola, o come proponiamo di chiamarla, secondo il vocabolo russo, pittura di icone”) pare non essere stato recepito largamente.
È plausibile anche che in questa interpretazione dei due termini (culturalmente tramandati nell’età moderna all’interno della terminologia artistica) abbia influito e influisca la concorrenza etimologica degli elementi formativi del composto: genera confusione la doppia possibilità del prefisso icono-, riconoscibile forse più come icona (‘immagine devozionale bizantina e russa’) che come ‘immagine’. Questa concorrenza semantica interessa anche altri sostantivi, anche in coniazioni moderne: iconofilo è “sostenitore delle icone” (in contrapposizione a iconoclasta), ma anche “amante di libri illustrati” (talvolta in coppia con bibliofilo) e “cultore e collezionista di santini, di immagini devozionali”; iconoteca “collezione di icone”, “locale in cui tale collezione viene conservata” e “raccolta di riproduzioni di opere d’arte figurativa” (GRADIT).
La varietà di sfumature del suffisso -grafia (impiegato nella formazione di composti con i significati di “descrizione, rappresentazione analitica”, “scrittura, rappresentazione grafica” e anche con il valore di “repertorio, elenco”) può provocare un’oscillazione e talora un’approssimazione nell’interpretazione del termine iconografia in senso russo-ortodosso, di volta in volta ‘pittura, esecuzione, produzione, arte, studio’ dell’icona, con lieve spostamento di senso dell’espressione.
I sostantivi atoni in -grafo indicano chi descrive, disegna o incide, oppure lo studioso, l’esperto delle discipline designate dai sostantivi in -grafia, ma esistono anche nomi d’agente suffissati in -ista: iconografista, iconologista sono forme attestate, ma desuete. Coniazioni in -grafo possono indicare anche un apparecchio o uno strumento (che segna e registra i dati in forma di grafico): ad esempio, nel 1893 il medico toscano Giuliano Vanghetti annuncia sul “Monitore zoologico italiano” un Nuovo apparecchio per disegnare e fotografare (iconografo) i preparati microscopici. Questo strumento, adoperato per qualche tempo (come si evince da alcune pubblicazioni mediche primonovecentesche), trova spazio nel significato di “strumento simile al pantografo” tra le voci di alcuni dizionari (è registrato nella prima edizione dello Zingarelli e scompare nella decima edizione del 1970; presente anche nel DEI, vol. III, 1952), per uscirne senza lasciare traccia.
L’uso ristretto, circoscritto, ma consolidato nel gergo degli studiosi d’arte sacra bizantina e russa, insinuatosi nella divulgazione giornalistica, non è in definitiva scorretto, se interpretato come tecnicismo di settore, ma non esente da equivoci e fraintendimenti, legati al diverso destino semantico e alla storia delle due parole, alla stretta vicinanza dell’ambito d’uso. Laddove il contesto (luogo d’uso e destinatario) o la collocazione lascino dubbi nell’interpretazione, è da preferire l’espressione estesa pittura, pittore di icone.
L’opacità del composto antico, tramandato dalla grecità all’età moderna, sembra tuttavia non impedire la trasparenza di un luccichio, un riverbero d’oro, che ci riporta, nel nostro immaginario figurativo, alla “luce ardente” delle icone, ai simboli moderni e a quelli antichi.
Nota bibliografica:
Mariella Canzani
5 novembre 2021
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