Macchina da scrivere o macchina per scrivere?

Sono in molti a chiedersi quale sia il modo giusto di designare lo strumento meccanico che ha rivoluzionato l’universo della comunicazione scritta a partire dai primi decenni del Novecento e che, per più di un secolo, ha dominato l’immaginario collettivo come oggetto simbolo di professioni romantiche ed elitarie, come quella del giornalista e dello scrittore, ma anche di professioni “nuove”, come quella della segretaria dattilografa, configurandosi così, negli anni di massima diffusione, anche come un emblema di modernità e di emancipazione femminile.

Risposta

Macchina da scrivere o macchina per scrivere?
 

Al fascino indubbio dell’oggetto in questione fa da contrappunto il dubbio di molti sul modo “corretto” di designarlo. E il dubbio non è solo di quanti si rivolgono all’Accademia della Crusca per avere lumi.

 

Scorrendo le attestazioni giornalistiche, non di rado ci si imbatte negli usi oscillanti di uno stesso autore che in un articolo usa macchina per scrivere e in un altro macchina da scrivere, quando non alterna le due forme all’interno dello stesso testo. Qualcuno arriva anche a formulare esplicitamente il dubbio metalinguistico come Paolo Di Stefano, che, in occasione della chiusura dell’ultima fabbrica ancora funzionante, firma sul “Corriere della sera”, un articolo in cui, tra il serio e il faceto, dichiara: “La macchina per scrivere è un ricordo, qualche volta un cimelio o una suppellettile per nostalgici. […] La sua epoca è finita e non sapremo mai se era più giusto dire macchina da scrivere o macchina per scrivere” (e, in effetti, nello stesso articolo Di Stefano usa una volta macchina per scrivere e una volta la forma concorrente).
Anche Marco Belpoliti pubblica nel suo blog un pezzo dedicato a “La macchina per scrivere”: nel testo principale (già uscito sulla “Stampa”) l’autore usa coerentemente macchina per scrivere, mentre in una successiva giunta al testo, la forma con da irrompe e prende campo, tanto che, infine, Belpoliti postilla: “McLuhan usa l’espressione ‘macchina da scrivere’ [in realtà non McLuhan ma il suo traduttore, come già il linguista Nunzio La Fauci segnala, commentando il post, ndr], mentre oggi si preferisce generalmente ‘macchina per scrivere’”. E si chiede: “Un fatto solo linguistico o invece ‘concettuale’? Dal da al per”.
Sulla “Repubblica”, invece, Filippo Azimonti (Remington, Olivetti e gli altri gioielli al museo della macchina per scrivere, 4/2/2012) ritiene che “La macchina sarebbe 'per' e non 'da' scrivere per evidenti ragioni funzionali cui la lingua parlata non si è mai arresa”. Il giornalista, quindi, dà per scontata la correttezza della forma macchina per scrivere e attribuisce alle ‘intemperanze’ della lingua parlata il fatto che il museo di cui l’articolo si occupa sia stato intitolato alla macchina da scrivere e non alla macchina per scrivere.


Scelte diverse si registrano anche nel dominio della scrittura letteraria. Fra gli scrittori più e meno contemporanei, Umberto Eco (ne Il cimitero di Praga del 2010, ma anche nei suoi scritti giornalistici) predilige macchina per scrivere, Moravia (in Una cosa è una cosa del 1967) usa macchina per scrivere, Pirandello e Svevo macchina da scrivere.
 

Un'altra testimonianza interessante è quella offerta dal sito dedicato alla storia della Olivetti. I redattori optano per la forma macchina per scrivere, e in tutti i testi redazionali la scelta si mantiene coerente, ma nei testi citati o accolti nel sito, provenienti da altre fonti, riaffiora l’alternanza. Un solo esempio: nel manifesto disegnato nel 1912 dal pittore veneziano Teodoro Wolf Ferrari per pubblicizzare la M1, la prima macchina Olivetti messa in commercio, sotto l’immagine di Dante che addita la macchina campeggia la scritta “Prima fabbrica italiana / macchine per scrivere / Ing. C. Olivetti e Co. Ivrea”; invece, il messaggio che fa da corredo verbale all’immagine diffusa nel 1929 per pubblicizzare il secondo modello, la M20, recita “Se i nostri padri potessero vedere la macchina da scrivere Olivetti griderebbero al miracolo”.



Detto questo, quali sono le indicazioni che si possono ricavare dai dizionari? Fra i più recenti, la maggior parte registra, e dunque legittima, entrambe le forme: nel Vocabolario Treccani online si trova macchina per (o, più com. da) scrivere; nello ZINGARELLI 2013 macchina per o da scrivere; nel GRADIT 2007 macchina da, per scrivere; nel Sabatini-Coletti 2008 macchina per (o da) scrivere. Fa eccezione il Devoto-Oli 2012 che compie una scelta netta e sotto la voce macchina riporta, accanto alla consorella macchina da cucire, la locuzione macchina da scrivere, senza alternative.


Nonostante le attestazioni contemporanee siano fluttuanti ed entrambe le forme godano di preferenze autorevoli e, come appena detto, della legittimazione di quasi tutti i dizionari dell’uso, la posizione dei redattori del Devoto-Oli ha dalla sua argomenti condivisibili. Non vogliamo qui certo sostenere che il costrutto macchina per scrivere sia in sé scorretto, tutt’altro, ma non è forma più nobile o più corretta di quella con da, e dunque non necessariamente ad essa preferibile.
In effetti, la forma macchina da scrivere – in cui la preposizione DA seguita da INFINITO (da scrivere) specifica lo scopo o la funzione dell’oggetto designato dal nome reggente (macchina) – vanta antenati illustri e numerosi.
Sono tante le attestazioni, antiche e moderne, del costrutto DA + INFINITO, con valore di fine o scopo, riportate nei dizionari storici dell’italiano, come il GDLI o il Tommaseo-Bellini, o anche in opere come la Grammatica storica dell’italiano curata da Salvi e Renzi o il saggio di Skytte su La sintassi dell’infinito nell’italiano moderno. Alcuni esempi tratti da queste fonti.
Fra le attestazioni boccaccesche troviamo, nel Decameron, Landolfo Ruffolo che “comperò un legnetto sottile da corseggiare” (= una piccola imbarcazione per darsi alla pirateria), mentre il cardinal Bembo in una lettera del 1527 scrive “Assaggierete il vino, che io ho fatto venire da fare il raspato (= vino dal sapore aspro prodotto utilizzando anche i raspi)”. Saltando qualche secolo, un’attestazione interessante che testimonia la vitalità ottocentesca del costrutto DA + INFINITO con valore finale, ma anche la sua perfetta simmetria con il parallelo costrutto DA + SOSTANTIVO, si ritrova nel Tommaseo-Bellini alla voce da (preposizione). In corrispondenza dell’accezione 52 si legge infatti: “In questo significato dicesi Botte da olio, Zucca da sale, per Botte da mettervi dentro olio, Zucca da tenervi dentro del sale”, dove, per l’appunto, le parafrasi offerte a spiegazione dei costrutti con DA + SOSTANTIVO sono normalmente formulate adoperando i costrutti corrispondenti con DA + INFINITO. Nel Novecento, infine, Elsa Morante nei suoi romanzi usa espressioni come le sue vesti da uscire, un paio di cesoie da potare, il catino da sputare.


E ancora, in difesa della legittimità di macchina da scrivere vorremmo segnalare alcune delle attestazioni più antiche di questa forma, come quella che compare nell’Appendice che conclude il tomo XXXVI, anno IX (1824), della “Biblioteca italiana” ossia “giornale di letteratura scienze ed arti compilato da varj letterati”, periodico letterario filoaustriaco antagonista del “Conciliatore”: in una piccola sezione conclusiva dedicata a Patenti e privilegi esclusivi concessi dall’Impero Austriaco nel corrente anno si menziona quella assegnata “A Giovanni Federico Peyral per l’invenzione di una macchina da scrivere, per la quale si fanno due o tre copie alla volta” .

Ancora quarant’anni dopo, nel Catalogo officiale dell’Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica Tenuta in Firenze nel 1861, a p. 115 compare, sotto il nome di “Ravizza Avv. Giuseppe, Novara”, il “cembalo scrivano ossia macchina da scrivere a tasti” e, nella stessa pagina, poco prima, la “macchina da cucire” di “Nasi Lorenzo e comp.,Torino”. E nello stesso catalogo vi sono, in perfetta e indisturbata alternanza, una macchina da piallare le canne da fucile, una macchina celere da stampare, una macchina da formar palle di piombo e una macchina per torcer la seta, una macchina per pulire e affilare i coltelli, una macchina per tappare le bottiglie, ecc.

Anche Carducci, citato nel GDLI fra le attestazioni tardo-ottocentesche della voce macchina per scrivere (macchina da scrivere), scrive in una lettera “Sono dispiacente di dover ripetere no per la prefazione del Leopardi... Non sono una macchina da scrivere”.
Infine, Panzini, nella quarta edizione della sua raccolta di neologismi (Dizionario moderno, 1927), introduce il lemma macchina da scrivere annotandovi accanto “inventata da Giuseppe Ravizza di Novara (1856). Gli americani onorano come inventori i loro House, Sholes e Remington”, senza nessun commento sull’eventuale inadeguatezza della preposizione da.
 

Il dilemma ‘da o per scrivere?’ nasce invece dall’opinione che espressioni costruite con un sostantivo seguito da DA + INFINITO , come appunto macchina da scrivere, debbano interpretarsi in italiano come equivalenti a ‘macchina che deve essere scritta’ e non a ‘macchina con cui si scrive’ o ‘macchina che serve a scrivere’, apparentemente allo stesso modo in cui una “macchina da parcheggiare” è oggi, inequivocabilmente, una ‘macchina che deve essere parcheggiata’ e non una ‘macchina che serve per parcheggiare’. In altri termini la preposizione DA seguita da INFINITO conferirebbe al verbo valore passivo e all’intera espressione un significato di ‘necessità’ e non una configurazione di fine o scopo. Quest’ultima sarebbe invece correttamente espressa dal costrutto formato con PER + INFINITO. Da qui l’idea che accettare l’uso di macchina da scrivere in luogo della “più corretta” alternativa macchina per scrivere sia una concessione all’illogicità della lingua parlata. Così Aldo Gabrielli nel 1956 condanna esplicitamente quest’uso di DA + INFINITO e Franco Fochi nel suo prontuario del 1964, pur ammettendol’uso di espressioni come macchina da scrivere o da cucire, o come carta da lettere o da disegno, li considera accidenti inevitabili dovuti “ad abitudine, ma anche a maggiore scorrevolezza” (p. 231).

In realtà – come argomenta solidamente e diffusamente Alfonso Leone in un articolo pubblicato nel 1972 su “Lingua nostra” – la preposizione da (che come tutte le preposizioni è polifunzionale, serve cioè ad esprimere molti e diversi significati) annovera fra i suoi valori anche quello di fine o scopo e non necessariamente conferisce all’infinito un valore passivo. Più precisamente, sia quando è seguita da un infinito che quando è seguita da un sostantivo, la preposizione da può essere usata per indicare lo scopo, la destinazione dell’oggetto di cui si parla, l’uso o la funzione a cui esso è adibito. Con una differenza: nell’italiano contemporaneo il costrutto DA + SOSTANTIVO con valore finale è molto più vitale del suo gemello DA +INFINITO: si contano, in effetti, molte espressioni come sala da ballo, scarpe da tennis, auto da corsa, gomme da neve, vestito da sera, coltello da caccia, pallone da calcio, servizio da tè ecc. e molte meno come, appunto, macchina da scrivere o da cucire (sembra ancora abbastanza usata l’espressione roba da vestire per indicare ‘abiti, indumenti’, e la forma cesoie da potare conta su Google una decina di attestazioni).

Allo stesso modo, rimane produttivo nell’italiano corrente il costrutto DA + INFINITO con significato di ‘necessità’ (vestiti da lavare, giocattolo da aggiustare, sale da macinare) e così ad alcuni è sembrato errato un uso diverso dello stesso costrutto che è stato del tutto legittimo e normale fino a tutto l’Ottocento e anche oltre.


Forme come macchina da scrivere o da cucire sono, oggi, residui cristallizzati di un costrutto che era certo molto più produttivo in passato, ma ciò non toglie loro il diritto di stare e restare nel vocabolario dell’italiano.

 

Per approfondimenti:

 

  • Franco Fochi, L’italiano facile, Milano, Feltrinelli, 1964 (cfr., in particolare, pp. 230-231).
  • Aldo Gabrielli, Dizionario linguistico moderno. Guida pratica per scrivere e parlar bene, Edizioni scolastiche Mondadori, 1956 (cfr. voce da).
  • Alfonso Leone, Il tipo carta da scrivere, “Lingua Nostra”, XXXIII, 1, 1972, pp. 1-5.
  • Lorenzo Renzi, Come cambia la lingua, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 105-106.
  • Giampaolo Salvi, Lorenzo Renzi (a cura di), Grammatica dell’italiano antico, 2 voll., Bologna, il Mulino, 2010, (cfr. in particolare vol. II, pp. 868-869).
  • Gunver Skytte, La sintassi dell’infinito in italiano moderno, 2 voll., “Etudes Romanes de l'Université de Copenhague. Revue Romane numéro supplémentaire 27”, 1983 (cfr., in particolare, vol. II, pp. 398-401).

 

A cura di Maria Cristina Torchia
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca

 

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30 settembre 2013


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