Prosaico e prosastico

Un lettore ci domanda se l’aggettivo prosaico possa riferirsi al linguaggio poetico di Eugenio Montale per indicarne “il carattere colloquiale, quotidiano, semplice, in contrapposizione al gusto ricercato dannunziano”; un altro lettore ci chiede invece di chiarire il rapporto semantico tra prosaico e prosastico.

Risposta

Prosaico e prosastico sono due aggettivi che, evidentemente, derivano dal sostantivo prosa. I due suffissi, -ico e -astico, hanno una diversa incidenza nei processi di coniazione dell’italiano: molto produttivo il primo, anche in ambito scientifico (atmosferico, atomico, solforico) e nella lingua contemporanea (filmico, ecc.); assai meno il secondo, la cui diffusione sembra limitata ad alcuni “aggettivi di origine greca e latina, o formati in analogia su tale modello, alcuni dei quali sono usati anche come sostantivi: chiesastico, paradossastico” (GRADIT; ma lo si ritrova anche in parole molto comuni: fantastico, scolastico, ecc.). Pur nella diversità dei suffissi, gli aggettivi condividono il significato di base, che attribuisce al referente caratteristiche o qualità attinenti alla prosa. Tuttavia tra le due parole esistono notevoli differenze. Anzitutto sul piano storico: prosaico è un vocabolo che l’italiano eredita dal latino tardo (prosaicus, cfr. DELI s.v. prosa) e utilizza fin dalla sua fase antica, con prima attestazione a fine Duecento, nientemeno che nella Vita nova di Dante (TLIO); prosastico invece non risulta attestato prima del tardo Seicento, quattro secoli dopo. Ma le differenze maggiori si ravvisano sul piano semantico, sotto vari punti di vista.

Solo in antico, infatti, prosaico mantiene il significato neutro di ‘che scrive in prosa’: così appunto nella Vita nova, cap. 25, “Onde, con ciò sia cosa che ali poete sia conceduta maggiore licenza di parlare che a li prosaici dittatori”, oppure di ‘scritto in prosa’: così in Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, “Fece ancora questo valoroso poeta molte pistole prosaice in latino, delle quali ancora appariscono assai” (TLIO). Mentre, a scorrere gli esempi del GDLI, nelle epoche successive l’aggettivo ha progressivamente assunto una connotazione negativa, anzitutto riferita a “opera poetica, componimento e sim., improntato a uno stile non sufficientemente elevato e quindi scadente e sciatto” (GRADIT). Si prenda Carducci:

nel rimatore bolognese quel che soverchiava era la parte prosaica, e più d’una volta la prosa era triviale, oscura e di cattivo gusto (Giosue Carducci, Scritti di storia e di erudizione: serie seconda in Edizione nazionale delle Opere, vol. XXII, Bologna, Zanichelli, 1944, p. 412);

lo studio e l’uso della poesia latina disciplinò e addestrò l’Ariosto, ridondante prosaico e rozzo nei primi tentativi di verso italiano (Id., La coltura estense e la gioventù dell'Ariosto, Ibid., vol. XIII, 1936, p. 333).

Di qui la larga affermazione di un uso figurato (il solo marcato come ‘comune’ dal GRADIT), volto a contrassegnare non più testi ma persone o situazioni lontane da ogni slancio ideale, da ogni finezza estetica o morale, da ogni elevazione al di sopra dei bisogni materiali o delle finalità pratiche:

una vita sociale prosaica, vuota di ogni idealità (Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, 2 voll., Bari, 1954 [1870-18721], II vol., p. 187);

quella lettera ne rappresentava l’epilogo prosaico e volgare (Federico De Roberto, Documenti umani, Milano, Galli di Baldini, Castoldi e C., 1898, p. 278)

la bella natura profanata da certi prosaici borghesi (Antonio Fogazzaro, Lettere scelte, a cura di T. Gallarati Scotti, Milano, 1940, p. 91).

C’è da dire, peraltro, che anche negli impieghi figurati prosaico mantiene, implicitamente o esplicitamente, l’idea di una contrapposizione con la polarità della poesia, portatrice delle complementari connotazioni positive: “l’amore per i fiori e le piante era la sola cosa poetica della vita, altrimenti del tutto prosaica, di mia madre” (Alberto Moravia, La noia, Milano, Bompiani, 1960, p. 29); com’è ancora evidente in questo passaggio da un romanzo del 2023, La ricreazione è finita (Palermo, Sellerio) di Dario Ferrari: “il tema decisivo non sono gli epici momenti del disvelamento del destino, ma, al contrario, le prosaiche scelte sbagliate dei suoi personaggi” (s.i.p.). Aggiungiamo che prosaico condivide questo senso negativo, letterale o metaforico, con tutti i suoi derivati: prosaicamente, prosaicismo, prosaicità, prosaicizzamento, prosaicizzante, prosaicizzare, variamente diffusi nei secoli dentro e fuori la letteratura (cfr. le rispettive voci del GDLI).

Probabilmente è stata la deriva di prosaico verso il negativo che ha determinato la necessità di avere un aggettivo che si riferisse alla prosa in modo più neutro. Di qui la comparsa di prosastico, che infatti nei secoli più vicini a noi ha mantenuto questa funzione in passi come questi (tratti ancora dal GDLI): “opere drammatiche, prosastiche, liriche” (Pascoli), “con qualche reminiscenza di letture poetiche o prosastiche toscane” (Migliorini), “Fra i critici del Gozzano, più d’ogni altro il Gargiulo sentì il fondo prosastico del poeta” (Montale).

Naturalmente, trattandosi di sfumature legate alla valutazione del parlante nella singola occasione enunciativa, la gradazione del giudizio negativo insito in prosaico non appare sempre la stessa, e anzi talvolta sembra attenuarsi fino a scomparire e a recuperare il senso originario: cfr. questi passi di Leopardi:

Questo lavoro esige più studio e più quiete che la Crestomazia prosaica (Lettere, a cura di F. Flora, Milano, 1955, p. 808);

di Carducci:

allora il limite fra le materie prosaiche e le metriche non era molto rigorosamente segnato” (Dante, in op.cit., vol. X, 1940, p. 808);

e di Pascoli:

Il dramma musicale non deve essere ridotto dal dramma prosaico e dal romanzo, ma deve essere concepito a sé” (Lettere ad Alfredo Caselli: (1898-1910), Milano, Mondadori, 1968, p. 414).

D’altra parte, all’inverso, anche prosastico talora scivola verso una connotazione spregiativa, in senso sia proprio che figurato: “ineleganze prosastiche” (Carducci, Lirica e storia nei secoli XVII e XVIII, in op.cit., vol. XV, 1942, p. 104), “Quella vita prosastica di casa mia” (Cesare Cantù, Romanzo autobiografico, a cura di A. Bozzoli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, p. 21).

Nonostante questi margini di sovrapposizione, comunque, nell’italiano moderno l’opposizione semantica tra le due parole sembra essersi consolidata, con prosaico specializzato in funzione dispregiativa, specie nel senso figurato, e con prosastico disponibile per i significati propri e denotativi, relativi ai testi in prosa e al linguaggio della prosa: tanto che per quest’ultimo il Tommaseo-Bellini sentenzia che “non dovrebbe avere il senso dispr. che ha Prosaico”. Però la storia semantica di prosaico, nella quale il senso negativo ha finito per prevalere, e il fatto che anche per prosastico una qualche connotazione spregiativa sia sempre in agguato, inducono ad aggiungere qualche considerazione finale. Questa minima vicenda lessicale, infatti, lascia intravedere sullo sfondo un sistema di valori che ha accompagnato la storia della tradizione letteraria italiana: che – come è noto – è nata come tradizione poetica e alla poesia ha sempre riservato una funzione centrale e una posizione di preminenza, associandola a qualità di purezza, eleganza, elevatezza, nobilità, sia nei contenuti che negli aspetti formali (lingua, stile, ritmo), in contrapposizione inevitabile alla prosa, che fatalmente è stata connotata in senso opposto. Naturalmente noi sappiamo che una simile concezione è del tutto estranea ai valori reali della letteratura italiana (e non solo italiana), nella quale le opere in prosa hanno contato, per quantità e qualità, tanto quanto quelle in versi. E però si è trattato evidentemente di una percezione così radicata nella coscienza comune da avere determinato lo scivolamento semantico verso la polarità negativa dei due aggettivi che alla prosa si riconnettono più direttamente.

Arnaldo Soldani

16 ottobre 2024


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