Una lettrice ci chiede quale sia l’origine del proverbio Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna e quale rapporto abbia con il mondo islamico; un altro lettore domanda quale tra le versioni Se la montagna non va da Maometto… e Se Maometto non va alla montagna… sia quella originale.
Significato del proverbio e interpretazioni antitetiche
Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna è un proverbio italiano, vivo e diffuso nella lingua d’oggi (Lapucci, M658), che significa che, se non è possibile fare in un modo, bisogna fare in un altro. Tale generica spiegazione si presta a varie interpretazioni che possono essere in antitesi tra loro: la prima, riportata da Lapucci, è che non si può sempre fare di testa propria; bisogna adeguarsi, andando alla montagna, e fare come fanno tutti. Più diffusa è la seconda, antitetica alla prima, secondo cui non è possibile pretendere che le cose ci vengano incontro; siamo noi che dobbiamo andare alla montagna, con spirito d’iniziativa di fronte alle varie situazioni della vita, senza presumere che i problemi si risolvano da sé. Si dice anche a proposito di chi, non riuscendo a far smuovere una persona, si reca a trovarla; con la differenza che, in questo caso, trattandosi di due persone, vi è l’idea di un maggiore buon senso da mettere in campo, sul modello di Chi ha più buon senso, l’adoperi o Le montagne stanno ferme, gli uomini camminano. Assai diffusa è anche la forma ellittica, Se la montagna non va da Maometto…, che si dice appunto di chi va a cercare qualcuno che non vuole presentarsi o di cui non si hanno notizie; e, in senso ironico, Venire come la montagna a Maometto, che si dice quando qualcuno non si presenta o si fa attendere invano.
La variante Se Maometto non va alla montagna…
Ancora una volta i proverbi si confermano vettori polisemici del linguaggio. Il caso di Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna è particolarmente interessante poiché la gamma di riferimenti semantici sottesi alla lettera è ampia, e dunque è alto il “valore paremiologico o paremiaco” della frase (Franceschi, p. 403). Le cose si complicano a livello formale giacché l’andamento ritmico, che ricorda quello di uno scioglilingua, comporta la confusione della protasi e dell’apodosi del periodo ipotetico, l’inversione dei soggetti e la sostituzione di Maometto con la montagna e viceversa; ne deriva la variante, diffusissima ancorché errata, Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto, che assume un significato ancora diverso, avendo un che di fatalistico, per cui, se qualcosa deve accadere, accade comunque, anche a costo di stravolgere l’ordine naturale delle cose.
L’origine e il rapporto con il mondo islamico
L’origine è oscura, molto probabilmente indipendente dal mondo islamico, vista l’assenza di formule equivalenti tra i proverbi arabi e dato il mancato riscontro di espliciti rimandi all’interno del Corano e degli ḥadīth. È vero che, stando agli studi di Miguel Asín Palacios, recentemente ripresi da Riccardo Viel, l’ḥadīth narrato da Sa’id Ibn Mansur (IX secolo) è una delle fonti della Commedia di Dante; il che potrebbe far pensare al poema dantesco come a una porta d’ingresso in Occidente di racconti arabi vagamente imparentati con quello in questione. Ma così non è, perché le analogie si arrestano alla sola presenza di Maometto in una scena in cui il profeta viene invitato a scalare un monte alto e scosceso, seguendo le orme di una guida che calca gli scalini fino a raggiungere una spianata in cui ha luogo un’apparizione di Abramo, Mosè e Gesù. Se il nesso tra la tradizione scritta islamica e la Commedia è acclarato, lo stesso non può dirsi per quello tra quella tradizione e il nostro proverbio, in cui peraltro, per essere precisi, la montagna non viene scalata ma chiamata.
Un simile collegamento è preso in considerazione, per citare un esempio, dal mistico indiano Osho Rajneesh. Commentando gli Yoga Sūtra di Patañjali, egli cita il proverbio (nella versione italiana del suo libro tradotto come Se la montagna non può andare da Maometto, allora Maometto andrà alla montagna), attribuendolo a Maometto stesso, e lo fa per parlare del tema dell’incontro tra maestro e allievo, secondo lui destinato ad avvenire prima o poi nella vita di ogni uomo poiché “ogni cosa è interrelata”. Nel Corano, racconta Osho, si dice che un uomo che rinuncia al mondo (figura di saggio da lui sovrapposta a quella del “sannyasin”, o del “fachiro”, indiano) non dovrebbe avere accesso ai “palazzi dei re, dei potenti e dei ricchi”. Eppure, spiega ancora, uno dei più grandi mistici Sufi, il poeta Gialal-al-Din Rumi (1207-1273), era solito frequentarli, contravvenendo quindi al precetto coranico; a chi glielo facesse notare, egli avrebbe però risposto:
[…] posso garantirvi che, qualsiasi cosa accada, sia che Rumi vada al palazzo sia che il re venga da Rumi, è sempre il re che viene da Rumi perché egli ha sete e io sono l’acqua che spegnerà la sua sete […]. A volte il paziente è così malato che il dottore deve andare da lui; e ovviamente i re sono molto, molto malati; sono quasi in agonia! (Osho Rajneesh, Yoga della comprensione interiore. I Sutra sullo Yoga di Patanjali resi accessibili alla mente contemporanea, a cura di A. Videha, Milano, A. Mondadori, 20183)
A conclusione e commento di questo piccolo racconto Osho, parafrasando il nostro proverbio, assicura che se non saranno i suoi allievi a venire da lui, allora sarà lui ad andar loro incontro.
Sarebbero auspicabili studi più approfonditi volti a verificare un eventuale rapporto di queste affermazioni con i testi. Il racconto di Osho, così come le ipotesi di derivazione diretta del proverbio dal Corano o dalle fonti islamiche dantesche, per quanto suggestive, non godono di sufficiente credibilità; e questo per vari motivi: primo fra tutti l’assenza nella tradizione scritta islamica – come dicevamo – di una menzione diretta del proverbio o di una sua variante; in secondo luogo la scarsità delle analogie tra i vari aneddoti citati; infine la questione dell’identità del Maometto del proverbio, tutt’altro che scontata.
Una possibile omonimia
Non è detto che il Maometto del proverbio sia il Maometto della Mecca, benché a livello popolare sia questa la tradizione dominante. Potrebbe trattarsi di un omonimo mago arabo, vissuto nel XV secolo, come si legge in Maometto e la montagna (una pagina del sito teallamenta.blogspot.com, 1276/2018), secondo un’ipotesi accattivante che attende però di essere comprovata da una solida base documentaria e che, se confermata, chiuderebbe la partita rendendo di fatto prive di senso le ricerche intorno a fonti precedenti, siano esse coraniche o medievali. Secondo l’ipotesi dell’omonimia, la prima attestazione del proverbio, inteso nella forma Se la montagna non viene da Maometto, Maometto andrà alla montagna, sarebbe il risultato di un fraintendimento da parte di Francis Bacon, autore dei Saggi (pubblicati in varie edizioni, via via accresciute, tra il 1597 e il 1625). Bacon avrebbe cioè attribuito erroneamente la frase al fondatore dell’Islam. In realtà, come vedremo, le cose non stanno così.
Il miracolo di Maometto nei Saggi di Francis Bacon
La tradizione del miracolo di Maometto è più antica di circa un secolo rispetto ai Saggi; e questo comporta una serie di riflessioni supplementari. Ma procediamo con ordine. Nel dodicesimo dei Saggi di Francis Bacon (intitolato Of Boldness), Maometto è protagonista del miracolo di Maometto, aneddoto popolare secondo cui il profeta
fece credere alla gente che avrebbe fatto venire a sé una montagna e dalla cima avrebbe offerto preghiere ai seguaci della sua legge. La gente si radunò. Maometto invitò ripetutamente la montagna ad andare da lui; e poiché la montagna restava immobile, non ne fu imbarazzato neppure un attimo, ma disse: “Se la montagna non viene da Maometto, Maometto andrà alla montagna”. Così questi uomini, se possiedono un’effettiva temerarietà, quando promettono grandi cose e falliscono vergognosamente, non se ne curano e attuano un voltafaccia senza tante scuse.
Fin qui sono parole di Bacon; ed è questa la morale del saggio. Boldness significa ‘audacia, baldanza’ e indica l’audacia di chi nutre eccessive ambizioni e non prova vergogna di fronte al proprio insuccesso.
Le origini italiane del detto: le ragioni di una retrodatazione
Il proverbio è dunque di epoca moderna – effettivamente post-quattrocentesco – e, a prima vista, di origine britannica. Tuttavia, se consideriamo le numerose varianti, che abbiamo già in parte considerate a proposito dell’italiano di oggi, possiamo retrodatare la primissima diffusione al secolo precedente e affermare che essa sia direttamente italiana, e più precisamente toscana. In particolare uno studio sulle raccolte paremiografiche toscane, allestite tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, ha rivelato la presenza di antiche varianti che circoscrivono la provenienza alla Toscana del primo Cinquecento. Nella cosiddetta Raccolta ferrarese, così denominata perché conservata presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara, ma di origine toscana, attribuita al letterato fiorentino Lionardo Salviati e composta prima del 1589 (anno della morte del Salviati), troviamo la locuzione nominale Macometto a’ monti. Come si legge nel DOP (s.v. Maometto) e come dimostra la coranistica divulgativa a stampa del tempo (v. L’Alcorano di Macometto, prima traduzione del Corano di Andrea Arrivabene, Basilea, 1543; Venezia, 1547), la forma Macometto circolò in italiano fino a tutto il XVI secolo insieme a Maumetto (mentre è prequattrocentesca la più antica forma Malcometto), presentando la stessa alternanza in derivati come maomettano. La raccolta attribuita al Salviati, essendo priva di commento, non fornisce altre informazioni. Qualche notizia in più si ricava sfogliando il Flos di Agnolo Monosini (Venezia, 1604), dove la locuzione del Salviati viene trasformata in wellerismo: Come disse Macometto a’ monti: se voi non venite da noi, noi verrem da voi. Nel commento latino Monosini aggiunge un’altra variante: “Hinc Fare i Miracoli di Macometto”; questa ricorre, nella forma con la seconda persona plurale (Fate i miracoli di Macometto), all’interno della sterminata raccolta di Francesco Serdonati, anch’essa commentata, ma in volgare, toscana e risalente ai primi del Seicento. Complessivamente, nei Proverbi del Serdonati, il termine Macometto compare otto volte all’interno di quattro varianti che riepiloghiamo di seguito: Come disse Macometto a’ monti (C3046, F460, secondo la numerazione dell’edizione in corso di stampa presso l’Accademia della Crusca); Fate, o Fare, i miracoli di Macometto (F460); Macometto a’ monti (M9); Miracoli di Macometto (M621). In particolare uno dei commenti serdonatiani consente di retrodatare la diffusione dell’aneddoto al 1547, data della prima edizione delle Lettere di Claudio Tolomei, fonte menzionata dal Serdonati a proposito di Fare i miracoli di Macometto (F460):
Usasi dir così quando alcuno aspetta un altro, e poi perché non viene a trovar lui; perché dicono che Macometto chiamava a sé una montagna, e perché ella non si muoveva, come molti accecati dalla fama della santità che credevano essere in lui, aspettavano, egli andò a lei. Onde il Tolomei, l. 5 delle Lettere, 159: “Poi che voi non venite a Roma, io farò de’ miracoli di Macometto, e verrò a trovarvi insino a Ronciglione etc.”. Vedi Come disse Macometto etc.;
dove il numero 159, riferito alle Lettere, indica il recto della carta dell’edizione verosimilmente consultata dal Serdonati (Venezia, appresso Giovanni Giriffio, 1589). E ancora si può retrodatare l’anno al 1543, precisamente al 3 agosto 1543, secondo la data riportata al termine della lettera in questione, che Claudio Tolomei inviò da Roma ad Annibal Caro.
Conclusioni
La lettera del Tolomei dimostra che il proverbio circolava in Italia, senza alcuna mediazione straniera, fin dalla prima metà del Cinquecento. Ciò vale per questa e per altre varianti che anticipano la più rotonda formula presente nei Saggi di Bacon: locuzioni, modi di dire e wellerismi, che presuppongono l’aneddoto del miracolo, vengono raccolti da illustri paremiografi, come Salviati, Monosini e Serdonati, che attingono a fonti letterarie precedenti, come il Tolomei, dichiarate dal solo Serdonati. Il proverbio è dunque arrivato in Inghilterra dall’Italia, non viceversa; e non ha senso incolpare Bacon di un’errata attribuzione che probabilmente lo precedeva di quasi un secolo e si doveva a una circolazione orale presso il volgo toscano.
Come si è detto, l’origine del proverbio è oscura, ascrivibile a una contaminazione di fonti dotte e popolari e di generi dai confini incerti, cosiddetti di frontiera, come la paremiografia e l’epistolografia, che da sempre si nutrono delle forme vive della lingua parlata. Nella sua lettera, inviata al Caro, Tolomei allude a un motto che sembra essere già ampiamente diffuso. L’oralità precede dunque la scrittura nel segno di un’antica circolazione popolare, di matrice toscana, evidentemente perdurata nel tempo, se è vero che, tra i racconti lucchesi di Idelfonso Nieri, troviamo Il miracolo di Maometto, tanto noto da essere scritto “anco nei boccali di Montelupo”.
Nota bibliografica:
Paolo Rondinelli
26 febbraio 2024
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