Sono molti coloro che, scrivendoci in maggioranza dalla Sicilia e in particolare da Palermo, ma anche da Roma, Rieti, Firenze, Bologna, ci pongono la stessa domanda a proposito della tipica preparazione siciliana a base di riso.
Tutti sanno che…
Il genere del nome che indica la specialità siciliana a base di riso con la salsa di pomodoro e la carne (o altro) divide in due l’isola: arancina (rotonda) nella parte occidentale e arancino (rotondo o a punta, forma che potrebbe essere ispirata dalla figura dell’Etna) nella parte orientale, con l’eccezione di alcune aree nella zona ragusana e in quella siracusana. Il gustoso timballo di riso siculo deve il suo nome all’analogia con il frutto rotondo e dorato dell’arancio, cioè l’arancia, quindi si potrebbe concludere che il genere corretto è quello femminile: arancina. Ma non è così semplice, e vediamo perché.
Origini
Le origini di questa pietanza si vorrebbero far risalire al tempo della dominazione araba in Sicilia, che durò dal IX all’XI secolo. Gli arabi avevano l’abitudine di appallottolare un po’ di riso allo zafferano nel palmo della mano, per poi condirlo con la carne di agnello prima di mangiarlo; da qui la denominazione metaforica: una pallina di riso con la forma di una piccola arancia (< ar. nāranj). Come si legge nel Liber de ferculis di Giambonino da Cremona (curato da Anna Martellotti, 2001), tutte le polpette tondeggianti nel mondo arabo prendevano il nome dalla frutta a cui potevano essere assimilate per forma e dimensioni (arance ma anche albicocche, datteri, nocciole); il paragone con le arance era naturale in Sicilia dato che l’isola ne è sempre stata ricca.
In realtà però non ci sono tracce di questa preparazione nella letteratura, nelle cronache, nei diari, nei dizionari, nei testi etnografici, nei ricettari e così via prima della seconda metà del XIX secolo: essa dunque compare in età assai più recente di quanto si potrebbe pensare. Per di più, si dovrà osservare che nel Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe Biundi (1857), il primo dizionario siciliano che registra la forma arancinu, la definizione descrive "una vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia": dolce, non salata; ma i passaggi dolce/salato non sono infrequenti nelle varie fasi della gastronomia, se persino lapizza alla napoletana è ancora per la Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (ediz. 1911) un dolce fatto di pastafrolla e crema (ricetta 609). Nel Nuovo vocabolario siciliano-italiano del Traina (1868), infatti, dalla voce arancinu si rinvia a crucchè: "specie di polpettine gentili fatte o di riso o di patate o altro", da confrontare con la ricetta 199 (Crocchette di riso composte) della Scienza in cucina, che indica una preparazione certamente salata. Nei repertori prima citati non sono tuttavia mai menzionati né la carne né il pomodoro, e in effetti è difficile dire quando questi due ingredienti siano entrati nella ricetta: del pomodoro, tra l’altro, si sa che cominciò a essere coltivato nel Sud della penisola solo all’inizio dell’Ottocento. Alla luce di questi fatti il legame tra il supplì siciliano e la tradizione araba non sembra più così certo, mentre si potrebbe pensare che si tratti di un piatto nato nella seconda metà del XIX secolo come dolce di riso, ma che sia stato trasformato quasi subito in una specialità salata.
Inoltre il nome del manicaretto – secondo l’ipotesi suggerita da Salvatore C. Trovato in A proposito di arancino/arancina ("Archivio Storico della Sicilia Centro Meridionale", II, 2016) – potrebbe derivare non solo dalla forma dell’arancia, ma anche dal suo colore: in siciliano infatti le parole che indicano nomi di colori si formano da una base nominale più il suffisso -inu, quindi arancinu ‘di colore arancio’, come curaḍḍinu‘del colore del corallo’ o frumintinu ‘che ha il colore del frumento’).
Con la -o
Nel dialetto siciliano, come registrano tutti i dizionari dialettali, il frutto dell’arancio è aranciu e nell’italiano regionale diventa arancio. Del resto, alla distinzione di genere nell’italiano standard, femminile per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi, si giunge solo nella seconda metà del Novecento, e molti parlanti di varie regioni italiane – Toscana inclusa – continuano tuttora a usare arancio per dire arancia.
Al dialettale aranciu per ‘arancia’ corrispondono il diminutivo arancinu per ‘piccola arancia’, arancino nell’italiano regionale: da qui il nome maschile usato per indicare il supplì di riso. La prima attestazione nella lessicografia italiana di arancino si trova nel Dizionario moderno del Panzini (edizione 1942), che registra la forma maschile, contrassegnandola come dialettale siciliana. Questa denominazione, dunque, è quella che riportano i dizionari dialettali, i dizionari italiani (basterà citare il GDLI e il GRADIT), e che è stata adottata dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani (arancini di riso: Regione Siciliana, Prodotti della gastronomia, 188); è la forma che il commissario Montalbano ha portato nei libri e in televisione (Andrea Camilleri, Gli arancini di Montalbano, 1999) e di conseguenza nella competenza di tutti gli italiani.
Con la -a
I dizionari quindi concordano sul genere di arancino, ma le indicazioni del genere del nome che indica il frutto dell’arancio sono, come abbiamo detto, oscillanti: le due varianti arancio e arancia coesistono, con una prevalenza del femminile nell’uso scritto e una maggior diffusione del maschile nelle varietà regionali parlate di gran parte della penisola.
Il femminile tuttavia è percepito come più corretto – almeno nell’impiego formale – perché l’opposizione di genere è tipica nella nostra lingua, con rare eccezioni, per differenziare l’albero dal frutto. Si può ipotizzare che il prestigio del codice linguistico standard, verso cui sono sempre state più ricettive le aree urbane, abbia portato la forma femminile arancia a prevalere su quella maschile arancio nell’uso dei parlanti palermitani: essi, avendo adottato la forma femminile per il frutto, l’hanno di conseguenza usata nella forma alterata anche per indicare la crocchetta di riso: dunque, arancina. Per la zona ragusana e siracusana potrebbe invece aver influito il fatto che la forma dialettale più diffusa per indicare il frutto non è aranciu ma partuallu/partwallu (cfr. AIS, carta 1272): la radicale diversità dell’esito locale può aver fatto sì che quando si è assunto il termine italiano per indicare il frutto lo si sia fatto nella forma codificata arancia, da cui arancina.
Si potrebbe allora concludere che chi dice arancino italianizza il modello morfologico dialettale, mentre chi dice arancina non fa altro che riproporre il modello dell’italiano standard. Questa supposizione troverebbe conferma nell’unica attestazione di arancina che si trova nella letteratura di fine Ottocento: le "arancine di riso grosse ciascuna come un mellone" dei Viceré (1894) del catanese Federico De Roberto, che si atteneva a un modello di lingua di matrice toscana. Alla fine del secolo la variante femminile è stata poi registrata da Corrado Avolio nel suo Dizionario dialettale siciliano di area siracusana (un manoscritto inedito della Biblioteca Comunale di Noto, compilato tra il 1895 e il 1900 circa) e più tardi da Giacomo De Gregorio nei suoi Contributi al lessico etimologico romanzo con particolare considerazione al dialetto e ai subdialetti siciliani ("Studi Glottologici Italiani", VII, 1920, p. 398) che rappresentano l’area palermitana. Arancina è stata registrata anche dalla lessicografia italiana: dallo ZINGARELLI del 1917, che la glossa come "pasticcio di riso e carne tritata, in Sicilia", e dal Panzini nell'edizione del 1927; dopo però non se ne ha più nessuna traccia.
Arancinie!
Al di là di alcune rivendicazioni permeate da inutili campanilismi, spesso le motivazioni di chi sostiene, contro la registrazione dei vocabolari, che l’arancina sia fimmina con la -a traboccano di un amore (con la a-!) per il cibo che altro non è se non amore per la propria terra e per le proprie tradizioni; per questo basterà citare Davide Enia, attore e scrittore palermitano:
Battezzare con correttezza è gesto di umiltà di fronte all’eccezionalità del piatto,
ché noi che le mangiamo le arancine, no,
noi non vogliamo (soltanto) bene all’arancina, palla di sfera che si basta da sé.
No.
Noi CELEBRIAMO l’arancina
noi la veneriamo,
lei e la sua tondità solare, sfera a carne o a burro, palla, piccola arancia, fìmmina.
Il resto, non esiste il resto di fronte all’arancinA.
Ma non è tutto. Andrea Graziano, chef e imprenditore catanese, per unire le due metà dell’isola nel giorno di Santa Lucia (giorno in cui si festeggia mangiando panelle, cuccìa e arancine) ha proposto nella sua "bottega sicula" palermitana, gemella di quella catanese, le arancinie: «una porzione che comprende due arancini a punta preparati con sarde e finocchietto e due arancine tonde preparate "alla norma" con melanzane fritte, ricotta, pomodoro e basilico». Una terra di mezzo in cui convivono gli arancini catanesi e le arancine palermitane, e si fondono in un’unica specialità dal sapore inconfondibile, simbolo della sicilianità.
Ai nostri amici possiamo quindi rispondere che il nome delle crocchette siciliane ha sia la forma femminile sia la forma maschile, determinata dall’uso diatopicamente differenziato.
Che poi maschio o femmina, a punta o rotonda, è sempre la fine del mondo!
A cura di Stefania Iannizzotto
Redazione Consulenza Linguistica
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