Rilanciamo un articolo in cui il presidente onorario dell'Accademia della Crusca Francesco Sabatini introduce il modello teorico-interpretativo della grammatica valenziale. L'articolo è originariamente stato pubblicato sul numero 28 della rivista La Crusca per Voi, in risposta ai dubbi di molti lettori sulla classificazione dei complementi.
Riceviamo molto spesso domande sui complementi, su come distinguerli, intenderli e denominarli. Prima di soddisfare singole richieste (come pure abbiamo fatto: ad esempio nel nostro num. 26, quesito 5) e in vista di qualche iniziativa di maggior respiro, vorrei affrontare il problema alla radice, partendo da un caso reale, venuto a mia conoscenza.
1. Compito di “analisi logica” (cosiddetta) in una prima classe di Scuola Superiore a Palermo, circa tre mesi fa. Tra gli esercizi, il seguente: “nella frase dalla mia finestra vedo il mare, che complemento è dalla mia finestra?”. Risposta dell’alunna: “complemento di stato in luogo”. L’insegnante: “no, è complemento di moto da luogo”. Chi ha ragione? Il caso si presta egregiamente per chiarire che s’imbocca una strada del tutto sbagliata quando ci si mette a studiare la famiglia dei cosiddetti “complementi” senza sapere che tipo di operazione si sta facendo.
L’alunna ha ragionato calandosi nella situazione concreta: “io vedo il mare quando sto davanti alla mia finestra: dunque, l’espressione indica il mio stato in luogo”. L’insegnante invece obietta: “la preposizione da indica il movimento dello sguardo che da me va fino al mare: si tratta di moto da luogo”. Osserviamo che, perlomeno, l’insegnante avrebbe dovuto dire (secondo la ben nota formula) “moto da luogo figurato”, perché non c’è nulla di materiale che si sposta dal mio occhio e va verso il mare. E se proprio vogliamo analizzare il fenomeno fisico, allora un po’ di ottica elementare ci dice che è l’immagine del mare che viene verso di me, colpisce la mia retina e arriva al mio cervello; rispetto al soggetto della frase qui ci sarebbe addirittura … un moto a luogo! Chi può negare che il verbo vedere indichi ricezione e percezione di immagini?
Ci dovremmo rendere conto, ormai, che in siffatte analisi di quelli che chiamiamo “complementi” qualcosa proprio non funziona (e gli insegnanti sono i primi ad avere dentro di sé mille dubbi, magari nascosti davanti agli alunni). L’insidia si annida in una mancata distinzione di principio, che in varie occasioni ho cercato di chiarire, ma che stenta ad entrare nella cultura scolastica. Cerco di riproporla di nuovo, in estrema sintesi e nei termini più semplici possibili.
Esaminiamo, in aggiunta al caso precedente, altre espressioni, come quelle evidenziate negli esempi seguenti: “è meno stancante viaggiare in treno”; “mangio due uova al tegame”; “ti regalo un miliardo per finta”; “leggerò questo libro al mare”. Ognuna di esse può essere interpretata in modi diversi, secondo il punto di vista che assumiamo: chi viaggiain treno è collocato “nel” treno, ma nello stesso tempo considera il treno come “mezzo” per raggiungere un luogo; le uova al tegame sono “nel” tegame, ma sono anche cucinate in un certo “modo” (ma uova al tegame è piuttosto una unità polirematica; facendo una cosa per finta io mi sto comportando in un certo “modo”, ma nello stesso tempo perseguo lo “scopo” di fare una burla; promettendo di leggere quel libro al mare intendo dire “durante” la vacanza al mare, il che vuol dire però che lo farò “in” una località di mare, e magari passando ore “vicino” al mare. In ogni espressione possiamo forse trovare un significato prevalente, che però non esclude affatto gli altri: sicché, per darne una definizione, dobbiamo di volta in volta stabilire il profilo sotto il quale analizziamo la situazione espressa da quelle parole. In conclusione, siamo noi che costruiamo una prospettiva di interpretazione di un fatto (oggetto, comportamento, ecc.), in base alla quale prospettiva cerchiamo di incasellare quel fatto in una categoria concettuale generale, una delle moltissime (tempo, variamente concepito; spazio, variamente osservato; scopo, modo, mezzo, prezzo, ecc.) e dai contorni imprecisati con le quali tentiamo di descrivere ciò che concepiamo con la nostra mente.
A prescindere da questa naturale incertezza di contorni nella rappresentazione dei fatti, risulta ben evidente che tentando questo loro incasellamento concettuale facciamo un’analisi prettamente semantica delle espressioni linguistiche, cioè ci occupiamo del loro significato, sia pure in un contesto di altre parole. Tale ricerca di definizione dei complementi è “analisi logica”? Diciamo pure di sì, visto che con essa intendiamo analizzare attraverso le parole il nostro pensiero, il nostro modo di vedere e interpretare il mondo reale. Ma a una condizione: di riconoscere che con questa analisi, condotta fortemente nell’ambito della semantica e debolmente nel quadro della sintassi, non abbiamo ancora affatto spiegato la struttura della frase, che è invece materia da affrontare in tutt’altro modo. Come passiamo ad osservare in una seconda parte importante della nostra spiegazione.
2. Nella tradizionale didattica linguistica con la locuzione “analisi logica” si vorrebbe indicare, giustamente, soprattutto la descrizione della struttura della frase, come rappresentazione di una costruzione di pensiero. Ma per condurre questa ben più calzante “analisi logica” bisogna tenersi decisamente sul piano della sintassi e imboccare una strada che ci porti a vedere propriamente come si legano tra loro, o comunque si dispongono nella frase, comparativamente tutti i suoi pezzi. Per raggiungere questo risultato occorre naturalmente procedere anche con alcuni principi di metodo e farsi guidare da un buon modello esplicativo.
La fondamentale misura di metodo consiste nel prendere ad analizzare frasi-tipo, costruite nei vari modi possibili ma sempre secondo le “regole generali della lingua”, senza che su di esse influisca il contesto di situazione. Non possiamo basarci, infatti, sulle enunciazioni con le quali comunichiamo realmente, le quali possono risultare modificate dalle “regole della comunicazione” (importantissime da conoscere, ma sono altra cosa), per effetto delle quali quasi sempre si sottintendono vari elementi, perfino il soggetto o il verbo. (Non è possibile fare pura “analisi logica” dei “testi”, neppure del tipo più elementare, come gli enunciati, del tutto regolari in situazione, che potremmo proferire al bar: “un ristretto, per favore”, o davanti al David di Michelangelo: “che meraviglia!”).
Occorre poi seguire, almeno con buona aderenza, un modello teorico della struttura della frase-tipo. Nella linguistica moderna un modello ormai ben consolidato (e di antica ascendenza!) è quello della grammatica “valenziale”, che pone al centro della frase, come suo perno, il verbo e cerca di stabilire quali altri elementi gli stanno intorno, distribuendoli in tre livelli: a) gli “argomenti” (o “attanti”) che si legano strettamente al verbo (secondo le “valenze” del suo significato) e con questo formano il puro “nucleo della frase”; b) gli elementi direttamente circostanti al nucleo, che si legano ai suoi singoli elementi e li specificano (creando un nucleo “arricchito”); c) gli elementi che ampliano la frase affiancandosi al nucleo (anche arricchito) senza stabilire legami sintattici con i suoi elementi, ma solo aderendo appropriatamente ad esso con il loro significato (e possono perciò trasformarsi in frasi dipendenti). Ecco un esempio, in cui sono in neretto i costituenti del nucleo, in corsivo i circostanti e in tondo semplice le espansioni: “Verso sera, mia zia Paola in veranda legge ad alta voce, in mezzo ai fiori, le poesie del suo amato Pascoli. (Ecco anche la trasformazione di un’espansione in frase dipendente: Quando scende la sera, …).
La diversa funzione sintattica dei singoli pezzi della frase si osserva molto bene, più che nella presentazione “lineare” di questa, in una sua rappresentazione sinottica come la seguente:
Osservando bene la grafica di questo schema individuiamo chiaramente: il nucleo ristretto (il verbo e i suoi due argomenti); i circostanti che specificano o caratterizzano singoli elementi del nucleo e così lo “arricchiscono”; e le espansioni che si affiancano al nucleo arricchito ma non si legano sintatticamente a singoli suoi elementi, bensì aggiungono, con il proprio significato, informazioni all’insieme della scena: tant’è vero che nella costruzione lineare le possiamo collocare dove meglio ci pare, per comporre via via la scena (“mia zia Paola, verso sera, legge ad alta voce, in mezzo ai fiori, in veranda, le poesie… ”, o in altre sequenze ancora). Si comprende bene che queste tre espansioni danno indicazioni di tempo e di luogo, ma ciò che importa stabilire sul piano sintattico è che esse sono accostate solo semanticamente al nucleo arricchito e non legate sintatticamente a determinati elementi di esso, altrimenti non potremmo sistemarle con tanta libertà. Quanto alle preposizioni che le precedono, esse servono a costituirle e non a legarle ad altri pezzi. (Se proprio vogliamo approfondire quest’ultima questione, dobbiamo pensare che queste espressioni sono residui di frasi dipendenti, più o meno queste: “quando il giorno va verso la sera”, “stando in veranda e ponendosi in mezzo ai fiori”. Solo in tali costruzioni ogni espressione acquista la funzione di argomento di un dato verbo, in un proprio nucleo: “qualcosa va verso un traguardo”; “qualcuno sta in un dato luogo”).
Ho semplicemente evocato, in questa paginetta e con un solo esempio e un piccolo grafico, il modello che risale al linguista francese Lucien Tesnière (1893-1954). Al lettore che ne voglia sapere di più segnalo l’edizione italiana (finalmente) del manuale di Tesnière (Elementi di sintassi strutturale, a cura di Germano Proverbio e Anna Trocini Cerrina, Torino, Rosenberg & Sellier, 2001; l’opera originale apparve postuma nel 1959). Inoltre mi vedo costretto a indicare le voci frase, verbo, argomento (e attante), valenza, circostante, espansione, complemento (nelle voci delle singole preposizioni sono elencati complementi di ogni specie e forma) del Dizionario della lingua italiana Sabatini – Coletti (Rizzoli-Larousse, 2003-2004) che presenta tutte le costruzioni dei verbi secondo il citato modello da me proposto dal 1984.
3. Due ultime considerazioni.
La prima. I singoli “complementi” si possono identificare abbastanza bene ragionando semplicemente sulla base della propria esperienza del reale e abituandosi a classificare (ripeto, in modo variabile e sfumato, e questo è un pregio) con certi termini gli eventi e fatti percepiti (ripensiamo al mare visto dalla finestra). Ogni indagine semantica si fa appunto in questo modo. Faremmo bene, poi, a chiamarli non “complementi”, ma “determinazioni”, perché sono in realtà espressioni con le quali cerchiamo di determinare, ossia di definire concettualmente, singoli aspetti della realtà; mentre il loro compito di “completare” la costruzione della frase non si evince (ripetiamo anche questo) dalla loro classificazione concettuale. (Nel citato numero 26 di questo giornale è stato illustrato, da R. Setti, anche il caso delle espressioni “polirematiche” come parcheggio a ore, in cui non ha senso vedere in a ore un “complemento”).
La seconda. Il modello che indaga sulla struttura complessiva della frase, disponendo su livelli distinti tutti gli elementi che vi possono entrare e facendo vedere quali funzioni quegli elementi svolgono nella struttura (o costruzione o sintassi) della frase e come essi si aggregano e completano tra loro,porta invece davvero alla luce una struttura logica che è nella nostra mente ma della quale non eravamo consapevoli. È proprio un siffatto modello che ci può dare, tra l’altro, indicazioni chiare ed esplicite sul modo di comporre le frasi e di distinguerne l’articolazione: con l’intonazione e il ritmo della voce parlando, con la punteggiatura scrivendo. Che è lo scopo applicativo (aggiunto a quello cognitivo, già tanto stimolante) di simili analisi della lingua: analisi ineliminabili, se vogliamo conseguire una vera padronanza del suo uso, anche se ad esse dobbiamo affiancare uno studio altrettanto accurato del funzionamento comunicativo della lingua (già segnalato di sopra).
Sara Giovine
Jacopo Ferrari
Donatella Martinelli
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