A proposito di campanilismo e dell’affrontare i dubbi di lingua

Alcuni lettori ci chiedono chiarimenti riguardo all’origine e alla storia del termine campanilismo.

Risposta

Nessuno, di solito, va dal medico per farsi mettere un cerotto, o scrive ai Lincei per sapere quanti sono i satelliti di Giove, o interpella la Società Geografica ignorando i confini dell’Uzbekistan, o si rivolge alla Consulta per farsi spiegare un articolo della Costituzione. Eppure, in questi ultimi anni, all’Accademia della Crusca si ricorrere volentieri per qualsiasi piccola o grande questione linguistica, come se fossimo diventati all’improvviso timorosi e incerti in un campo, quello della lingua materna, nel quale tutti ormai dovremmo procedere sicuri e spediti. Una lingua che abbiamo sentito risuonare ancor prima di nascere e dentro la quale siamo sempre vissuti e che, dopo l’anima, è forse ciò che di più vivo e più caro custodiamo in noi. Una lingua, dunque, da usare senza problemi, come la sanno usare le persone più semplici, e come l’hanno saputa usare eccellentemente i nostri più grandi scrittori, che vissero quando la lingua materna non s’insegnava e non c’erano né grammatiche né vocabolari né, tantomeno, la benemerita Consulenza linguistica della Crusca.

Certo, mi si obietterà, un conto è l’uso spontaneo della lingua, un conto la conoscenza approfondita dei suoi tanti aspetti e particolarità e meccanismi. È vero: la lingua è un vasto sistema estremamente complesso, i cui elementi si dispongono rapidi e armonici nei nostri discorsi proprio perché ne scordiamo o ignoriamo la straordinaria complessità. Tuttavia, per quanto concerne la conoscenza approfondita, ognuno di noi, non appena si prova a riflettere, diventa un buon filosofo e grammatico della sua lingua. E dato che questa facoltà è insita in tutti i parlanti (perché è la ragione nascosta del nostro parlare), non è raro il caso che anche le persone comuni, se cominciano a riflettere, vadano più lontano dei cosiddetti “esperti”. Basta, appunto, mettersi in cammino – facendo s’impara – invece di aspettare che qualcuno ci fornisca dei dottissimi vademecum, che talora servono a mostrare la bravura dei vari specialisti più che a indicare la via a chi crede d’essersi perso.

Mi proverò a spiegare queste considerazioni con un esempio concreto: il quesito che mi è stato sottoposto dalla redazione della Consulenza a proposito della parola campanilismo: parola d’uso comune, ma della quale ignoravo finora vita morte e miracoli. Coloro che si son rivolti alla Crusca, al contrario, vi hanno riflettuto e ne sanno già non poco. Un utente toscano segnalava nel 2016 un impiego particolare della voce: “sono interessato, al di là di quanto sia facile intuirne una prima e immediata etimologia, all’origine e alla storia del termine campanilismo, soprattutto in relazione a quanto possa essere considerato tipico della lingua e cultura italiana”.

L’origine e la storia “remota” del termine, vocabolari alla mano, è facilmente ricostruibile anche per il nostro interlocutore: campanilismo è termine nato da noi con l’unità d’Italia, più o meno sinonimo del poco antecedente municipalismo. Con la politica fortemente accentratrice subito adottata dal nuovo Regno, sia le aspirazioni federalistiche di molti intellettuali che le affezioni e rivendicazioni particolaristiche di masse locali vennero bollate negativamente come antipatriottiche e antinazionali anche con una serie di espressioni ad hoc, fra cui campanilismo: termine che all’inizio ebbe indubbiamente una qualche sfumatura anticlericale, dato che i liberali cattolici, in genere, erano stati favorevoli a un assetto federale e pluricentrico della nazione. Tuttavia l’idea e la frase che era dietro il neologismo venivano da fuori, come Tommaseo per primo notò nel suo dizionario (Tommaseo-Bellini): “Taluni dicono dal francese Amor patrio, e similmente di campanile, cioè Troppo municipale, ma non è del popolo italiano, che rammenta gli usi civili delle proprie campane”. In effetti l’amor di campanile scimmiottava l’esprit de clocher, frase anch’essa di tono negativo, attestata già da qualche decennio nel linguaggio politico belga e poi in francese.

Invece l’odierno uso di campanilismo in rapporto alla lingua e alla cultura italiane segnalato dal nostro interlocutore è una novità a cui non avevo mai prestato attenzione. Finora il termine indicava, come nell’Ottocento, soprattutto lo sciovinismo localistico, condito magari da spirito di rivalità nei confronti dei “campanili” altrui: “Amore di campanile […] restringendo per così dire, l’amore di patria al territorio dominato dal campanile della parrocchia” (Alfredo Panzini, Dizionario moderno, Milano, Hoepli, 1908); “Quel sentimento gretto e meschino per il luogo nativo, che impedisce ogni altro nobile sentimento” (Enrico Mestica, Dizionario della lingua italiana, Milano, S. Lattes & C., 1936); “Eccessivo e fazioso attaccamento al luogo di nascita” (GRADIT, 1999). Il suo uso era dunque circoscritto alla contrapposizione fra le prerogative di un municipio e il centralismo dello stato; o, talora, alla competizione fra due borghi o, addirittura, quartieri vicini: a parte il tifo calcistico, già in relazione alle grandi città, nelle quali i “campanili” son più di uno, l’impiego di campanilismo appariva poco appropriato.

Il recente riferimento del termine alle tradizioni peculiari dell’intera comunità italiana si spiega, senza dubbio, col cambio di paradigma che stiamo vivendo: ciò che oggi desta più preoccupazione non sono tanto le miopi chiusure localistiche, ma l’imposizione di un globalismo sempre più alienante che minaccia la cultura e, innanzitutto, la lingua nazionale. Perciò si guarda con occhio diverso al “campanile”, che in un mondo senza confini sembra costituire l’ultima ancora di salvezza. E così si finisce per conferire al termine campanilismo una connotazione positiva: connotazione rimarcata, se necessario, con un’aggiunta che lo qualifica tale: “sano campanilismo”, “campanilismo buono, positivo”, e simili. Del resto, anche in passato il “campanilismo” era considerato in modo non negativo da coloro che ritenevano il sostanziale e assoluto centralismo dello stato postunitario poco consono a una nazione fatta di cento città, ognuna con la sua storia e il suo carattere.

Una questione diversa, ma ugualmente interessante, è stata posta lo scorso ottobre da un utente ligure: «Su Wikipedia si legge, alla voce campanilismo, che “questo termine deriverebbe da un episodio aneddotico della rivalità fra due comuni limitrofi dell’hinterland napoletano: San Gennaro Vesuviano e Palma Campania. Il quadrante del campanile di San Gennaro Vesuviano che volgeva a levante (cioè verso Palma Campania) fu volutamente senza orologio, proprio perché i cittadini di Palma Campania non avrebbero dovuto leggere l’orario”. Volevo chiedere se esistono riscontri a questa affermazione».

Ignoravo del tutto anche questa curiosa vicenda, di cui un primo riscontro lo offre la stessa Wikipedia, segnalando in nota l’articolo di giornale da cui trae la notizia. Navigando nel web si viene inoltre a sapere che l’episodio è sicuramente posteriore alla diffusione del termine campanilismo, mentre di recente è stato completato anche il quadrante privo di orologio del campanile della cittadina vesuviana. Aneddoti simili relativi a vecchie e nuove rivalità fra paesi e città non mancano: se fossero riuniti insieme, fornirebbero materia per comprendere come il “campanilismo”, anche prima che lo si designasse con questa voce, era ben radicato nella mentalità degli Italiani. Grazie ai due attenti interlocutori della Consulenza linguistica si è avuto modo di soffermarsi su una parola che, nata per denigrare chi non si allineava alle idee del nazionalismo postunitario, ha avuto fino ad oggi una certa fortuna, impiegata in vari contesti e, come avviene per molti altri termini della politica, con connotazioni ora più negative ora meno.


Massimo Fanfani

7 ottobre 2022


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