Abbiate cura della lingua e vogliateci bene

Sono molte le domande giunte in redazione, di cui alcune ormai un po’ lontane nel tempo (e ci scusiamo con i richiedenti), riguardanti le forme dell’imperativo dei verbi avere e volere in unione a pronomi atoni. Nello specifico sembrano suscitare maggiori perplessità le forme àbbiti cura (per ‘abbi cura di te’, ‘riguardati’) e vògliti/vòglimi bene (per ‘ama te stesso/amami’, ‘cerca di volerti/volermi bene’) incontrate dai nostri interlocutori in occasioni diverse, più o meno formali, in rete, in testi pubblicitari, in missive di lavoro.

Risposta

Entrambe le forme fungono da imperativi (attraverso l’impiego del congiuntivo esortativo) di locuzioni verbali, avere cura e voler bene in cui il significato del verbo è determinato dal nome che lo segue, e che quindi equivalgono rispettivamente a ‘accudire, curare’ e ‘benvolere, amare, essere affezionato’.

Si tratta, è bene dirlo subito, di due formule che attraversano la storia dell’italiano letterario con attestazioni che vanno dal Cinquecento al Novecento e che appaiono attualmente rappresentate in rete, ma non solo, sia come citazioni, sia come riprese, in chiave ironica e scherzosa, di espressioni avvertite giustamente come uscite dall’uso.

Dal punto di vista grammaticale, abbi e vogli sono seconde persone singolari del congiuntivo presente con valore esortativo, quindi con funzione sostitutiva delle forme mancanti dell’imperativo rispettivamente dei verbi avere e volere, a cui è agganciato, in posizione enclitica (in fondo alla parola), il pronome atono -ti (‘a te’/ ‘di te’ /). Sono necessarie però almeno altre due informazioni per comprendere e contestualizzare tali forme che, legittimamente, fanno sorgere dubbi di fronte a usi contemporanei. In primo luogo, si tratta di casi isolati di seconda persona dell’imperativo realizzata tramite una forma antica della seconda persona del congiuntivo presente, in cui, ma solo in questa funzione esortativa, è conservata l’antica terminazione in -i in luogo della moderna in -a, quindi abbi (plur. abbiate), vogli (plur. vogliate), così come avviene anche per altri due verbi, essere (sii, plur. siate) e sapere (sappi, plur. sappiate). Su queste basi, poi, si lega il pronome atono in posizione enclitica secondo la norma moderna che prevede tale collocazione del pronome con l’imperativo affermativo (dammi, portagli, curati, ecc.): l’imperativo affermativo è infatti uno dei casi in cui si è generalizzata una norma dell’italiano antico (la cosiddetta legge Tobler-Mussafia in onore dei due studiosi che la individuarono) che prevedeva che i pronomi clitici non potessero trovarsi in apertura di frase (quindi Pregoti e non Ti prego), né dopo le congiunzioni e e ma (ma dicoti e non ma ti dico), né all’inizio di una principale preceduta da una subordinata (su questo si può vedere anche la risposta Grammatiche italiane nello spazio e nel tempo: particelle pronominali, costrutti esistenziali e verbi ausiliari di Michele Loporcaro sulla “Crusca per voi”, n. 64, 2022-I, p. 15). Non applicata rigidamente nemmeno nell’italiano antico, la legge Tobler-Mussafia è stata superata nell’italiano moderno, lasciando però la sua traccia in alcune espressioni tipiche degli usi burocratici (dicasi, leggasi), scientifici (come volevasi dimostrare, dove peraltro non è all’inizio di frase) e commerciali (vendesi, affittasi, cedesi, cercasi), oltre che appunto nelle forme dell’imperativo affermativo (fermati, curami, portalo, ecc.), modo verbale che non tollera la subordinazione e quindi tipicamente a inizio di frase, nell’infinito (per dirgli, a salutarla, senza volerlo, ecc.), nel gerundio (parlandole, chiamandola, prestandogli, ecc.) e nel participio passato assoluto (vedutolo, ordinatolo, ecc.).

Le due espressioni in esame hanno però una patina decisamente letteraria e arcaizzante dovuta, oltre che alla rara forma in -i del congiuntivo (vogli ormai è stato completamente soppiantato da voglia e resta solo in vogliti), alla loro cristallizzazione specie nelle formule di saluto tipiche del genere epistolare, attraverso cui sono arrivate fino a noi.

Un ulteriore problema sintattico rende i dubbi dei nostri lettori ancora più fondati: se in vogliti bene il clitico ti sta, in modo del tutto normale, per ‘a te’ (come in regalati una vacanza, comprati un libro, ecc.), in abbiti cura il ti starebbe per ‘di te’, assumendo una funzione non canonica; infatti ti può sostituire o un complemento diretto, quindi stare per ‘te’ (come in amati, calmati, riposati, ecc.), o un complemento indiretto introdotto da a (come visto negli esempi precedenti), ma non da di. All’interno di questo schema dovremmo dunque interpretare abbiti cura come ‘abbi a te cura’, ‘fa’ in modo di curarti’. Possiamo però ipotizzare, grazie, come vedremo, anche alla presenza dell’espressione nella tradizione epistolare, che abbiti cura si sia diffuso, fino a diventare accettabile, per analogia con altre forme di imperativi in -i, come lo stesso vogliti bene (ma anche sappiti regolare) in cui ti è pienamente ammissibile in quanto sostituto di ‘a te’ o di ‘te’.

Abbiti cura, nel senso di ‘abbi cura di te, riguardati, cerca di stare bene’, la ritroviamo come traduzione delle chiuse cura ut valeas (fac valeas), ricorrenti nelle Epistole famigliari di Cicerone, già volgarizzate da Aldo Manuzio all’inizio del Cinquecento e riutilizzate in chiave manualistica dal nipote, anche lui chiamato Aldo, nel 1573 per la selezione delle Locuzioni dell’epistole di Cicerone, scielte da Aldo Manuzio, utilissime al comporre nell’una, e nell’altra lingua. La traduzione di Manuzio vedrà successive edizioni, dal 1584 (appresso Fratelli Gio. Battista e Ugolino Ugolini) a quella veneziana del 1736 (Le Epistole famigliari di Cicerone, già tradotte, et hora in molti luoghi corrette da A. Manutio). Nell’Ottocento dobbiamo al padre Antonio Cesari, classicista e massimo sostenitore del purismo linguistico arcaizzante, un’altra edizione volgarizzata delle Epistole ciceroniane (Milano, A. F. Stella, 1826-1831). Questa diffusione di traduzioni e riduzioni manualistiche deve aver agito su molta epistolografia e, specie nell’Ottocento, del nostro abbiti cura si rintracciano molti esempi, 15 solo nell’epistolario di Leopardi (“salutami tutti, abbiti cura, e non stare al sole”, Lettera alla sorella Paolina, 2 maggio 1828), altri nelle lettere di Pietro Giordani (“Abbiti cura; e conquista una intera sanità” Lettera a Leopoldo Cicognara, 4 marzo 1826) e di Silvio Pellico (“Spero che il tuo incomodo di salute sarà cosa lievi; abbiti cura” Lettera a Pietro Giuria, 24 febbraio 1842), solo per citarne alcuni. Anche nella biblioteca digitale Bibit se ne ritrovano 17 esempi, tutti in lettere, mentre la ricerca della stringa sinonimica “abbi cura di te” nella stessa banca dati restituisce soltanto 6 occorrenze, sempre tra Settecento e Ottocento, una piccola conferma della preferenza per la formula sintetica, notata anche da Giuseppe Antonelli, che, a proposito delle formule di congedo negli epistolari ottocenteschi e dell’accumulo di espressioni conclusive diverse, scrive: “il topico invito a riguardarsi [abbiti cura] si incrocia con l’immancabile (quando a scrivere sia il genitore) benedizione e si somma o all’invito di volerle bene o al classico addio” (La grammatica epistolare nell’Ottocento, in La cultura epistolare nell’Ottocento. Sondaggi sulle lettere del CEOD (Corpus Epistolare Ottocentesco Digitale), a cura di Giuseppe Antonelli, Carla Chiummo, Massimo Palermo, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 27-49, cit. p. 31), a conferma quindi del largo impiego della formula, al limite dell’automatismo in chi scrive lettere.

La più antica attestazione che sono riuscita a rintracciare (con Google libri) di abbiti cura  è contenuta nella Predica di frate Francesco da Monte Pulciano de frati minori (1569), ma il passo non è di agevole interpretazione: “una scrittura che se non sarà vera si che abbiti cura” e farebbe supporre il valore di ‘stai attento’, lo stesso documentato nella seconda impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1623, s.v. favorito, che riporta un passo del Discorso degli animali di Agnolo Firenzuola (composto tra il 1541 e il 1542 e pubblicato nel 1548), in cui appunto l’espressione è utilizzata nella diversa accezione di ‘guardati, stai alla larga’: “Abbiti cura dalla ’nvidia, la quale, come palla di sapone si mette sotto i piedi de’ favoriti”. In questo stesso significato sarà inserita da Giovanni Gherardini nelle sue Voci e maniere di dire italiane additate a’ futuri vocabolaristi (Milano, 1840) sotto la voce aversi cura in cui è citato un passo della Andria di Machiavelli (“E’ non mi fu predetto. Abbiti cura”) che viene indicato come traduzione di cave ‘stai attento, guardati’, presente nel testo latino di Terenzio.

Decisamente più difficile stabilire la consistenza della diffusione attuale di abbiti cura: la ricerca della stringa su Google restituisce complessivamente 2.140 occorrenze (nelle pagine in italiano al 30/5/2022), ma restringendo l’intervallo temporale agli anni Duemila (quindi dal 2000 al 2022) si ottengono 131 risultati. Anche così non si ha comunque la garanzia che le occorrenze siano tutte effettivamente dell’ultimo ventennio, ma scorrendo i risultati possiamo fare alcune considerazioni: il primo rimanda al Nuovo De Mauro online, unico dizionario contemporaneo che segnala l’espressione s.v. aversi cura (locuzione marcata come appartenente al lessico comune) e nota “usato spec[ialmente] all’imp[erativo]: abbiti cura!”, seguita dal punto esclamativo, a sottolinearne l’intonazione esortativa e, forse, il registro scherzoso. Molto più consistente la presenza in rete dell’espressione distesa abbi cura di te (133.000 occ.), condizionata senz’altro dalle molte canzoni con questo titolo uscite negli ultimi anni: dalla prima dei Nomadi del 1973, si passa poi al 2009 con quella di Arisa, al 2015 con Levante, al 2017 con Maldestro, fino all’ultima del 2022 di Highsnob.

Grazie alla versione elettronica del GDLI, ritroviamo abbiti cura in qualche altra citazione, poche in verità e, se si esclude quella, già citata, del Firenzuola nell’accezione di ‘stati in guardia, stai attento’, ripresa probabilmente dalla Crusca, tutte contenute in lettere redatte da autori ottocenteschi: s.v. Rifiorire, da una lettera di Carducci, “Abbiti cura, molta cura: non fare improvvide bravure: non alzarti avanti tempo...  Ora viene la primavera, e tu rifiorirai con lei”; s.v. Imbianchito, da una lettera di Mazzini, “Abbiti tutte le cure possibili per amor del tuo vecchio amico”.

Usando gli stessi strumenti per indagare sull’espressione vogliti bene, possiamo constatare che essa ha avuto un impiego ancora più raro da parte di autori della nostra storia letteraria e pertanto non è rintracciabile nei dizionari storici, neanche nelle versioni elettroniche. Qualche traccia emerge con Google libri che, per le pagine in italiano, restituisce 168 occorrenze (molte delle quali duplicate). Tra queste, per la maggior parte recenti, la più lontana nel tempo pare un brano contenuto nel mensile letterario satirico “Il Piovano Arlotto. Capricci mensuali d’una brigata di begliumori”, pubblicato a Firenze dal 1858 al 1862: “e non ti addormentare prima di chiamare per tre volte a rassegna tutte le opere tue della giornata: […] Esaminale così ad una ad una; garrisciti delle triste; e vogliti bene delle buone.” (anno II, 1859, p. 380); segue poi la chiusa di una lettera di Francesco Domenico Guerrazzi, “Dunque vogliti bene: procura emendarti da te, per non patire ammenda altrui. Mai debiti, mai bugie; e acquista fama di leale e di onorato. Addio. Saluti a Maria, tua buona amica e mia” (Lettere famigliari, nell’edizione delle Lettere a cura di G. Carducci, Livorno 1880-1882) e poi il famoso componimento di Giorgio Caproni costruito con il tu “interno”, in cui il poeta si rivolge quindi a sé stesso: “Vogliti bene, Giorgio, / vogliti tutto il bene / che nessuno che ti vuol bene / ti vuole. / Accarezzati / il povero corpo magro / che nessuno più accarezza” (Giorgio Caproni, Versicoli del controcaproni, 1969). Le altre occorrenze nei libri sono recenti così come le presenze della formula in rete: Google (in italiano al 30/5/2022) ne rileva 5.640, anche in questo caso con molte duplicazioni e interferenze, comunque più numerose di quelle di abbiti cura. Molti passaggi in rete sono determinati anche dal dibattito linguistico sulla forma stessa, sulle perplessità di molti rispetto alla sua correttezza e alla possibilità di utilizzarla: pertanto la forma ricorre con funzione metalinguistica, perché se ne parla, si chiedono ragguagli sulla sua correttezza e sull’opportunità di impiegarla. Oltre a questi, i contesti sono perlopiù di conversazioni in cui si instaura una qualche empatia, ad esempio in rubriche come quella di Nancy Brilli su “Leggo” (brilli se vuoi) in cui l’affettuosa raccomandazione vogliti bene, rivolta a donne afflitte da problemi di relazione, ha lo scopo di incoraggiare le destinatarie all’autostima, ad avere rispetto e giusta considerazione di sé. Non a caso ho parlato di raccomandazione e incoraggiamento, perché è semanticamente difficile da giustificare il modo imperativo per un verbo come volere che esprime esattamente il contrario dell’obbligo, della coercizione; l’italiano, dal punto di vista formale, ha supplito con il congiuntivo (esortativo, appunto) e, quindi, non possiamo dire che si tratta di una forma scorretta; tra l’altro possiamo ricorrere sempre a perifrasi, più lunghe ma meno “imperative”, del tipo, cerca di volerti bene, fai di tutto per volerti bene, ecc. Certo è, che i contesti d’uso restano abbastanza rari e caratterizzati da informalità, fino talvolta a una certa ironia accentuata dalla patina letteraria e antica dell’espressione.

In sintesi, consiglierei di optare per abbi cura di te al posto di abbiti cura in contesti non marcati, in cui cioè non si voglia connotare di qualche venatura ironico-scherzosa il nostro enunciato, come avviene quando si inseriscono formule ormai desuete o citazioni letterarie proprio per mettere in luce l’assoluta mancanza di poesia e di aulicità dei contesti rappresentati. Per quel che riguarda vogliti bene, meno connotato dall’ironia rispetto ad abbiti cura, resta l’unica forma sintetica del congiuntivo esortativo del verbo volere, le cui possibili perifrasi hanno il limite della maggiore lunghezza e complessità sintattica. Un limite che però possiamo tranquillamente accettare quando si tratta di usare qualche parola in più per incoraggiare qualcuno a volersi più bene.

Raffaella Setti

5 settembre 2022


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