Massimo T. di Teramo, Susanne R. di Palermo e Patrick P. dalla Svizzera ci chiedono se si debba dire accesso d’ira o eccesso d’ira e se entrambe le espressioni siano corrette.
Accesso o eccesso d'ira?
L’espressione corretta è accesso d’ira.
Fin dalla sua prima attestazione in italiano, risalente alla prima metà del XIII secolo, accesso [dal lat. accĕssu(m)] è un termine che appartiene al linguaggio della medicina e indica la "insorgenza improvvisa di un disturbo o una malattia" (GRADIT). Con il significato di 'attacco di febbre', ad esempio, lo si rinviene nel volgarizzamento trecentesco del Thesaurus pauperum, seu Practica medicinae, attribuito a Zucchero Bencivenni (fonte: TLIO). Per indicare il manifestarsi repentino di uno stato morboso, l’italiano antico ricorreva anche, e forse più spesso, ad accessione, come mostra l’occorrenza in Dante, Inferno XX: "Sì come li medici sanno le accessioni, stati, e recessi delle febbri". Della preferenza per accessione dà conferma l’inserimento del lemma nella prima impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), mentre per accesso occorrerà attendere la terza impressione (1691), dove la parola verrà registrata con due significati entrambi tecnici, il primo medico: "Accessione, in sentimento d’accessione di febbre. Lat. paroxysmus"; e il secondo giuridico: "la visita, che fa ’l giudice al luogo della controversia".
Ma perché i lessici italiani testimonino anche dell’uso figurato di accesso, quello cui si riferisce la nostra locuzione di partenza, dobbiamo avanzare fino alla metà dell’Ottocento, quando la quinta impressione del Vocabolario della Crusca all’accezione medica fa seguire l’uso traslato, esemplificato proprio con accesso d’ira: "§ IX. E per similit. riferito agli affetti, vale Sopravvenienza, Impeto e simili, dicendosi Accesso d’ira, di malinconia ec.". Quanto alla datazione possiamo indicare il 1843, anno di uscita della prima dispensa della lettera A, anziché il 1863, anno di stampa del primo tomo del Vocabolario.
Dopo la metà del XIX secolo, le attestazioni di accesso d’ira si infittiscono: nel 1861, nel primo volume del Dizionario della lingua italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini, alla voce accesso si legge: "Degli effetti dell’animo. Accesso d’ira, di malinconia, e simili", con l’aggiunta di una noticina ammonitrice: "Usisi con cautela, perché dai Francesi abusato", che non impedirà però alla locuzione di venire poi attestata nei successivi vocabolari dell’uso come il Vocabolario della lingua italiana parlata (1891) di Giuseppe Rigutini, che alla voce accesso chiosa così: "Si estende anche a significare Il prorompere d'una passione veemente: Accesso d'ira, di collera, di furore ec.", mentre il Novo dizionario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (1870-1897), compilato da Giovan Battista Giorgini ed Emilio Broglio, aveva preferito gli esempi accesso di follia, di collera.
A ben vedere, la notazione di Tommaseo sulla connotazione francesizzante dell’espressione accesso d’ira appare d’ordine culturale più che linguistico. In francese, come in italiano, il termine accès viene dal latino ed entra nel linguaggio della medicina con il significato di choc 'colpo' fin dal XIV secolo. La prima attestazione di accès de colère, il corrispettivo del nostro accesso d’ira, risale invece al XVII secolo (fonte: Google Libri), ma soltanto dopo la metà del Settecento l’espressione comincia a comparire in pubblicazioni mediche, di argomento storico o saggistico (L’Encyclopédie di Diderot) e nei lessici (il Dictionnaire de synonimes françois, Paris 1767). Nel corso dell’Ottocento, accès de colère viene largamente impiegato dalla medicina e dalla fisiologia sperimentale in lingua francese di cui il volume Médecine des passions (1841) di Jean Baptiste Félix Descuret, che dedica all’ira un intero capitolo, è un significativo esempio. L’avvertimento puristico del Tommaseo dunque non va rivolto tanto alla forma linguistica della locuzione, italiana da molto tempo per struttura e significato, quanto probabilmente a una remora dettata dal successo degli studi sperimentali francesi di ambito psicosociale, di cui la traduzione italiana, uscita nel 1855, del volume del Descuret è uno dei testimoni.
E gli scrittori italiani? Già Alessandro Manzoni, nei Promessi sposi, attribuiva a Gertrude improvvisi accessi d’umore ("In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto", cap. X) e Giosue Carducci si dipingeva quale "novello Otello", confessando in una lettera a Lidia di svegliarsi talvolta con "un accesso di gelosia furiosa". E se Svevo faceva cogliere il suo Zeno da "un accesso folle d’ira" a causa di una divergenza di opinioni con la moglie Augusta intorno a una minestra ritenuta troppo salata, Camillo Sbarbaro, traducendo dal francese il romanzo Germinal di Zola (poi pubblicato da Einaudi nel 1951), trasponeva l’originale "folie jalouse" di Hennebeau in un ormai canonizzato "accesso di gelosia furiosa". Recentemente, sebbene da tempo non si usi chiedere più agli scrittori di offrire una bussola alle scelte linguistiche della comunità, due finalisti del Premio Strega non hanno vacillato di fronte all’alternativa accesso/eccesso, attestando sicuri accesso d’ira: "la qual notizia […] gli procurò il più violento e durevole accesso d'ira della sua vita" (Sebastiano Vassalli, La chimera, 1990); "l'Ettorre, in un accesso d'ira violento, schiaffeggiò il figlio" (Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, 2004).
Riguardo invece alla domanda specifica di uno dei nostri lettori sulla correttezza della frase "Giuseppe, in un eccesso d'ira, strappò l'assegno" risponderemo che la frase non è corretta sul piano semantico per due motivi: il primo perché la parola eccesso non richiama necessariamente quell’elemento di 'insorgenza improvvisa, subitanea' che invece la parola accesso, nella sua accezione medica, possiede; il secondo perché l’ira è già di per sé un sentimento che contempla l’eccesso e dunque dire un eccesso d’ira significherebbe ammettere non solo la possibilità di misurare, di graduare l’ira ma anche quella di riconoscerne un livello socialmente accettabile.
Manuela Manfredini
16 maggio 2017
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