Alloquire

Un lettore chiede dei chiarimenti sul significato di alloquire e sulla correttezza del suo uso.

Risposta

Diciamo subito che il verbo alloquire è una parola dotta, un preziosismo totalmente estraneo alla lingua comune, che trova la sua origine nel lat. adloqui o alloqui ‘rivolgere la parola’, ‘rivolgersi a qualcuno’; a partire dal quale si hanno, sempre nella stessa sfera semantica, allocutivo, allocutore, allocutorio, allocuzione. Tali lemmi hanno una certa diffusione, almeno in alcuni settori, e infatti, al contrario di alloquire, sono tutti presenti nel GDLI Grande dizionario della lingua italiana, con un’esemplificazione che risale ad alcuni secoli fa. Per allocuzione, voce dotta col significato di ‘discorso’, conforme a quello del latino allocutio che “designava l’orazione del comandante ai suoi soldati prima della battaglia o in caso di ammutinamento”, il GDLI rileva la valenza letteraria e gli usi a partire da Vincenzo da Filicaia (XVII-XVIII sec.), fino a Gadda passando anche per Manzoni; allocutore/-trice è anch’esso voce dotta dal lat. allocutor (che a sua volta deriva dal lat. adloqui), adoperato al maschile già nel Settecento da Leonardo del Riccio. Non è recente neppure allocutorio (sinonimo di allocutivo) – presente come parola retrodatata nel Supplemento 2009 del GDLI –, usato nell’Ottocento da Tommaseo.

Alloquire è ignorato anche dal GRADIT Grande dizionario italiano dell’uso curato da De Mauro, e dal repertorio del PTLLIN, Primo tesoro della lingua letteraria del Novecento e contemporanea, che riunisce 115 romanzi vincitori del Premio Strega dal 1947 al 2021, oltre che da strumenti lessicografici fondamentali come il Sabatini-Coletti e lo Zingarelli.

Di esso troviamo però attestazione, in negativo, in due vocabolari ottocenteschi:

ALLOQUIRE odesi da taluni, che credono nella stranezza ritrovar fama di eletto scrittore, in significazione neutra, per Aringare. Non è voce nostrana, quindi da schifarsi. […] Userai in sua vece ARINGARE, ORARE, PARLAMENTARE. (Gaetano Valeriani, Vocabolario di voci e frasi erronee al tutto da fuggirsi, Torino, Tip. Fratelli Steffenone, 1854)

Usano alcuni questo verbo in senso di arringare, orare, parlamentare. Es. – Ieri il General supremo alloquì all’esercito. – È voce da fuggirsi (Valeriani). ALLORA: fuggi queste frasi o simili che putono di gallicume. (Filippo Ugolini, Vocabolario di parole e modi errati che sono comunemente in uso, Firenze, Barbèra, 18613)

Emerge, già negli esempi di alloquire prodotti da questi due vocabolari, un significato più specifico rispetto a quello di ‘rivolgere la parola a qualcuno’, che è quello di ‘pronunciare un discorso davanti a un pubblico’, coerente con la definizione già riportata del GDLI per allocuzione. Con questo significato si veda, nel Settecento: “alloquire il Clero e il popolo radunato per l’elezione” (Roberto Curalt, Principj genuini di tutta la giurisprudenza sacra, con nuovo, acconcio, e facil metodo trattati, Prato, Angiolo Casini, 1787, p. 13).

Lo scarsissimo favore incontrato dalla parola nei dizionari italiani è stato compensato, almeno in parte, dalla circolazione che comunque essa ha avuto nell’italiano cólto, con testimonianze che si addensano nel Novecento, in particolare in testi di carattere saggistico, filosofico, ma anche storico, letterario, artistico.

Forse non ci aspetteremmo di rintracciare alloquire nelle riflessioni di un traduttore di Heidegger a proposito del ted. ansprechen, parola-chiave del pensiero di quest’autore:

Un verbo corrispondente l’italiano non l’ha. Ci si può aiutare con apostrofare; soltanto che questo è un verbo segnato dalla sua origine retorica, e che forse non a caso non indirizza il suo dire a nessun genere di cose, ma lo restringe all’ente uomo. Inoltre esso non contiene alcun riferimento diretto al parlare e nominare. – La cosa più semplice sarebbe di coniare un verbo alloquire sul tipo di interloquire partendo dal sostantivo allocuzione che fa già parte dello stato della ‘lingua’ –. (Martin Heidegger, Vom Wesen und Begriff der φύσις Aristoteles Physik B 1, con traduzione italiana di Giorgio Guzzoni, Milano-Varese, Istituto editoriale Cisalpino, 1960, p. 72, nota 12)

Il verbo proposto da Guzzoni come un neologismo (non a caso transitivo come il ted. an-sprechen e già il lat. ad-loqui), seppur raro, in realtà esisteva in italiano, come dimostrano alcuni esempi già riportati, a cui ne aggiungeremo altri, anteriori anch’essi al 1960. In un saggio memorabile, Autodiacronia linguistica: un caso personale, in cui Giovanni Nencioni analizza genialmente il modificarsi del toscano della sua infanzia e in genere dell’italiano, compare per ben tre volte questa parola (all’infinito, e al participio passato, maschile e femminile):

Una spia verbale della scarsa tradizione democratica in Italia era, cinquant’anni fa, la mancanza di un corrispondente del pandemio monsieur! francese; alloquire (per dir così) uno sconosciuto col titolo di signore! poteva incontrare remore nell’allocutore e suscitare sospetto o irritazione nell’alloquito. […] C’era semmai verso le donne l’imbarazzo del bivio signora/signorina, risolvibile col fulmineo adocchiamento del dito nuziale o, in mancanza, con una intuizione aleatoria, al rischio, assai maggiore che non oggi, di rettifica da parte dell’alloquita. (Giovanni Nencioni, Autodiacronia linguistica: un caso personale, in La lingua italiana in movimento, Firenze, Palazzo Strozzi 26 febbraio-4 giugno 1982, Firenze, Accademia della Crusca, 1982, pp. 15-16; ristampato in “Quaderni dell’Atlante lessicale toscano”, I, 1983, pp. 1-25)

La consapevolezza da parte dell’allora presidente dell’Accademia della Crusca di usare un termine un po’ sopra le righe estraneo al registro colloquiale del suo intervento – sia pure scritto in una lingua di grande raffinatezza –, è espressa dall’inciso per dir così, che ne tempera la portata stilistica “aliena”. In un altro celebre saggio di poco precedente, Parlato-parlato-parlato-scritto parlato-recitato, Nencioni usa invece, con lo stesso significato dei participi passati passivi alloquito e alloquita, e in più di un caso, il termine tecnico allocutario (ad es., “Nel testo letterario la definizione dell’allocutario è resa più ardua dal fatto che tra l’emittente, per lo più non presente di persona, e il ricevente, per lo più non individuato fisicamente, consiste il testo con la sua chiusura ed autonomia”, in “Strumenti critici”, X, febbraio 1976, fasc. I, p. 28; ristampato in Di scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Bologna, Zanichelli, pp. 126-179; scartato in Autodiacronia probabilmente perché troppo “compromesso” con un’ottica apertamente semiologica (il Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, a cura di Gian Luigi Beccaria, Torino, Einaudi, 1994, ristampato nel 2004, riporta allocutario alla voce emittente/destinatario a firma di Amedeo De Dominicis, come variante, in linguistica, di destinatario del messaggio, “il luogo nel quale il messaggio è decodificato”).

Nelle varie attestazioni di alloquire è documentato prevalentemente l’uso transitivo adottato da Nencioni – si veda anche Giorgio Pasquali: “Egli alloquisce i propri concittadini per lo meno da pari a pari, sulla pubblica piazza” (Archiloco, saggio già edito nel 1934, ristampato in Id., Pagine stravaganti, Introduzione di Giovanni Pugliese Caratelli, I, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 304-317: p. 306) – rispetto a quello intransitivo con complemento indiretto che riscontriamo nella preziosa aneddotica storica offerta da Croce: “anche in quel familiare alloquire alla regina, Ferdinando IV adoprava i modi del volgo” (Benedetto Croce, Aneddoti di storia civile e letteraria. III. Appunti da libri rari del settecento, “La Critica: rivista di letteratura, storia e filosofia” diretta da Benedetto Croce, XXV, 1927, pp. 329-335: p. 334; ristampato in Id., Aneddoti di varia letteratura, Napoli, Ricciardi, 1942, II, pp. 323-331).

Ma è rappresentato anche l’uso assoluto, ad es. in un saggio sulla lingua di un melodramma: “Diversi i mezzi e diverse le vie (il modo di sfruttare i personaggi, di farli alloquire), ma uguale la meta: il teatro – la scena e il pubblico” (Daniela Goldin, Il ‘Macbeth’ verdiano: genesi e linguaggio di un libretto, “Studien zur italienisch-deutschen Musikgeschichte”, XII, a cura di Friedrich Lippmann con la collaborazione di Wolfgang Witzenmann, Köln, Volk, 1979, pp. 336-372: p. 338; ristampato in Id., La vera fenice, Torino, Einaudi, 1985, pp. 230-282).

Rispetto a queste attestazioni un’eccezione a livello di genere testuale è l’uso di alloquire in opere di fiction letteraria, ossia nei romanzi gialli di Rita Monaldi e Francesco Sorti (lei grecista, lui musicologo): in Imprimatur (Milano, Baldini & Castoldi, 2015 [20021]) riscontriamo, ad es., “alloquire la milizia” (la parola ritorna successivamente in Veritas del 2016, Secretum del 2015 – “parevate in grande agitazione quando m’avete alloquito” –, e Mysterium del 2016, editi sempre da Baldini & Castoldi, segnalati puntualmente da Google libri). Gli autori, marito e moglie nella vita, sono i creatori della saga di Atto Melani, l’abate pistoiese vissuto tra Sei e Settecento, che fu cantante castrato, diplomatico e spia (era uno degli agenti segreti preferiti del Re Sole), amico di papi, principi e re.

In conclusione, alla luce di questi significativi esempi, alloquire trova piena cittadinanza nell’italiano cólto, sia nel significato di ‘rivolgersi a qualcuno’, sia in quello di ‘tenere un discorso’; si tratta però di un preziosismo e dunque di una scelta stilisticamente impegnativa, che non siamo obbligati ad adottare se non con consapevolezza, tenendo presenti il tipo di testo in cui lo inseriamo e il destinatario.

Luciana Salibra

30 giugno 2025


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