Ci sono pervenuti due quesiti che ci chiedono se sfangare e svangare siano varianti dello stesso verbo e dunque possano essere usati entrambi nel senso di ‘sottrarsi da una situazione problematica’.
Le consonanti corrispondenti alle lettere f e v sono due foni distinti, che hanno in comune il modo e il luogo di articolazione: si tratta, tecnicamente, di due fricative labiodentali, prodotte entrambe facendo uscire l’aria dalla bocca con una specie di fruscio grazie al restringimento della cavità orale mediante l’avvicinamento del labbro inferiore ai denti incisivi superiori. La differenza tra i due foni sta nel fatto che [f] è sordo mentre [v] è sonoro, realizzato con la vibrazione delle corde vocali. Alla differenza fonetica corrisponde in italiano una differenza fonologica, perché la sostituzione dell’una consonante con l’altra in una parola la trasforma in una parola diversa. Abbiamo infatti coppie minime come fino e vino, fetta e vetta, foce e voce e, all’interno di parola, scafo e scavo, inferno e inverno, sfogliato (participio passato del verbo sfogliare ‘scorrere velocemente un libro’) e svogliato ‘indolente, pigro’ (qui, però, anche la s- iniziale è resa in un caso come sorda, nell’altro come sonora). È certamente possibile, soprattutto in certe pronunce regionali, che i due foni vengano confusi (infatti può essere reso quasi come invatti da parlanti meridionali; in certe zone professore viene reso come provessore; all’opposto convinto può suonare come confinto), ma ciò non compromette la loro distinzione sul piano della lingua standard, e tanto meno nella scrittura.
Questa premessa per dire che anche sfangare e svangare sono due verbi diversi, che costituiscono un’altra coppia minima da aggiungere alle precedenti. Il secondo verbo è d’uso rarissimo: manca nei dizionari dell’italiano contemporaneo, ma è registrato, con la marca ‘familiare’, nel GDLI, come intransitivo, nel senso, figurato, di ‘discutere per l’ennesima volta, rivangare’, con un esempio dal romanzo Per cause imprecisate (1965) di Carlo Bernari (“a che vale svangare chi ha avuto fiducia e chi no”). Nell’etimologia si propone la derivazione appunto da rivangare, con cambio di prefisso (dall’iterativo ri- all’intensivo s-), ma si potrebbe anche partire da vangare ‘lavorare la terra con la vanga’ (che è alla base di rivangare) o pensare che si tratti di un denominale da vanga formato per parasintesi, cioè con l’aggiunta del prefisso s- con valore “strumentale” (cfr. Claudio Iacobini, Prefissazione, in Grossmann-Rainer 2004, p. 159) e della desinenza verbale -are all’infinito, cosa che a me pare più probabile.
Quanto a sfangare, si tratta invece certamente di un parasintetico denominale da fango, ottenuto con il procedimento appena indicato, ma il prefisso s- in questo caso ha valore privativo. Il verbo è documentato fin dal sec. XIV, sia come transitivo, nel senso di ‘pulire dal fango’ o, nella tecnica mineraria, ‘sottoporre un minerale a sfangamento’ (cioè lavarlo per togliergli il terriccio), sia come intransitivo, nel senso di ‘uscire dal fango’, ‘ripulirsi dal fango’ o anche ‘muoversi a stento nel fango’ (cfr. Zingarelli 2022 e Devoto-Oli 2022; per il GDLI sfangare intransitivo, nel senso di ‘muoversi a stento nel fango’, costituisce un lemma distinto, in quanto s- ha qui valore intensivo). Ma tutte le accezioni citate sono proprie soprattutto dell’uso letterario e sono ormai diventate rare. Ben più diffuso è il verbo (nella forma attiva o riflessiva) in co-occorrenza con il clitico la (sfangarla o sfangarsela, forme che il GRADIT lemmatizza separatamente da sfangare, come verbi procomplementari), nel senso figurato di ‘cavarsela’, ‘tirarsi fuori da una situazione difficile’, o anche ‘riuscire discretamente in una disciplina o in una gara’. Tale significato è documentato dal GDLI a partire dall’Ottocento, in autori toscani (Francesco Domenico Guerrazzi, Fernando Martini, Giovanni Papini), ma poi anche in Una vita violenta, uno dei due romanzi romani di Pier Paolo Pasolini (1959) e in un articolo del giornalista lombardo Gianni Brera (1963). Possiamo aggiungere un esempio in romanesco, da un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli (datato 25 novembre 1831), anteriore a quello di Guerrazzi (1848):
Metti, cumpare mio, metti ggiudizzio, / caso te puzzi er foco de l’inferno, /chè, mmettemo la sfanghi in ne l’inverno, / ar tornà de l’istate è un priscipizzio. (G.G. Belli, Sonetti, a cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici, Edoardo Ripari, Torino, Einaudi, 2018, vol. I, p. 660)
Ora, è vero che in rete (e soprattutto nei social) troviamo molti esempi di L’ho svangata! accanto a L’ho sfangata! per dire ‘ce l’ho fatta!’, ‘mi sono tolto d’impaccio!’ e sim., probabilmente dovuti agli scambi tra [f] e [v] che avvengono nel parlato. Ma basterebbe riflettere sullo sviluppo degli usi figurati per comprendere che soltanto sfangare si dovrebbe adoperare con questo significato: superare (spesso a fatica) una situazione di difficoltà è un po’ come uscire dal fango, pulirsi dal fango. La vanga serve invece per scavare e quindi svangare, figuratamente, significa riaprire questioni che si consideravano chiuse, su cui (per usare un’altra metafora) si era messa “una pietra sopra”. Il senso di svangare è dunque quasi l’opposto di quello di sfangare: non di rado, infatti, la riapertura di vecchie discussioni crea situazioni di difficoltà nei rapporti interpersonali da cui non è poi facile uscire.
Paolo D'Achille
28 ottobre 2022
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