Numerose domande arrivate alla redazione chiedono chiarimenti sulla reggenza preposizionale dell’aggettivo capace.
L’aggettivo italiano capace deriva dal latino capace(m), propriamente ‘che può prendere, comprendere (capere)’. Poiché l’aggettivo in latino regge il caso genitivo, ci aspetteremmo che l’equivalente italiano regga la preposizione di (es. capax doli ‘capace di dolo’). In effetti, questa è la costruzione che si è diffusa per prima e che è maggiormente attestata nei secoli.
Notiamo che, quando è riferito a inanimati con valore etimologico di ‘che può contenere’, capace è sempre seguito dalla preposizione di (es. uno stadio capace di 10.000 persone), oppure è usato in modo assoluto come sinonimo di ‘capiente’ (uno stadio molto capace).
Il problema della possibile alternanza di preposizioni si pone quando capace è riferito a esseri animati con il significato di ‘che è in grado di fare qualcosa’. In questo caso, capace regge sempre di quando è seguito da un pronome (es. una persona capace di qualsiasi cosa/di tutto/di questo e altro), anche se il dizionario ottocentesco di Tommaseo e Bellini (Tommaseo-Bellini s.v. capace, 5) segnala alcuni esempi con a (Capace a nulla. – Se fosse capace a qualcosa!). Di norma capace regge di anche quando è seguito da un nome (es. capace di meraviglia) o da un’espressione nominale (“Lo intelletto nostro è tanto basso, che non è capace di sì alta cosa”, San Bernardino da Siena, Prediche volgari, 1427; “Io, sotto el governo suo, divenni valoroso e capace di quella fortuna che tu medesimo hai veduta e vedi”, Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1824, I ed. 1531).
Più spesso, tuttavia, capace regge una frase all’infinito (es. capace di intendere e di volere). I dubbi posti da chi ci scrive riguardano proprio casi di questo genere: si dice “sono/non sono capace a + infinito” oppure “sono/non sono capace di + infinito”? è corretto dire “capace a leggere” o bisogna dire “capace di leggere”? Meglio dire “capace a fare” o “di fare”?
Il dubbio è legittimo perché la frase infinitiva retta da un aggettivo può essere introdotta sia dalla preposizione di sia dalla preposizione a. La scelta dipende proprio dal termine che regge la frase e dalle specifiche preferenze di combinazione: diciamo per esempio disposto a, propenso a, restio a.
Nel caso di capace, i dizionari segnalano la reggenza della preposizione di; quando viene registrata l’alternativa “capace a + infinito”, come nel caso del DISC (che riporta l’esempio Giulio non è capace a far niente), questa è connotata come familiare.
Si tratta comunque di un uso minoritario, come dimostra la sua ridotta diffusione: nel corpus dell’italiano scritto contemporaneo CORIS/CODIS, per esempio, troviamo 33 esempi di “capace a + infinito” e 5 di “incapace a + infinito” contro oltre 9.000 occorrenze di “capace di + infinito” e un migliaio di “incapace di + infinito”.
Come nota uno degli scriventi (A.R. di Milano), insegnante di italiano a stranieri, entrambe le costruzioni (quella con a e quella con di) sono attestate nella lingua letteraria, e come tali hanno una loro circolazione non limitata alla lingua contemporanea né agli usi informali o regionali.
Il GDLI, in effetti, riporta diversi esempi di capace a + infinito: da Algarotti (s.v. capace, 4: “è la invenzione un ritrovamento di cose verisimili [...] e di cose le più scelte e le più capaci ad eccitare in altrui maraviglia e diletto”) a Pasolini (s.v. trascinare, 5: “qui ci sarebbe ora un Pasolini / capace a trascinarvi con la sua parola / e di commuovere anche le pietre” – da notare che il secondo infinito è introdotto da di). In uno dei primi esempi in cui l’aggettivo risulta attestato, inoltre, capace regge l’infinitiva direttamente, senza preposizione (Iacopone da Todi, s.v. capace, 4: “la perfetta pace me fa l’alma capace / en onne loco potere regnare”).
Scorrendo il GDLI, d’altra parte, troviamo anche esempi di capace a + nome, sia nell’accezione di ‘in grado di contenere’ (Ariosto: “Rossa di sangue già correa la strada, capace a pena a tante genti morte”) sia in quella di “in grado di sostenere” (Ada Negri: “maturanza / che soggetta ti avrebbe all’uomo, e resa / capace a doglia di maternità”).
Come si vede, dunque, la preposizione di, statisticamente prevalente e ormai stabilizzata nell’uso, ha a lungo convissuto con la minoritaria preposizione a, che oggi tende a riemergere, anche per effetto di quella tendenza all’interscambiabilità degli elementi e alla gestione “leggera” delle reggenze denunciata come uno dei tratti della lingua dei giovani da Alberto Sobrero (Fra videogiochi, non-lettura e una lingua flou, in I bisogni linguistici delle nuove generazioni, a cura di Emanuela Piemontese, Quaderni del Giscel, nuova serie, 2, Firenze, La Nuova Italia, 2000, p. 24). Nel caso in questione, comunque, si potrebbe pensare che l’estensione della preposizione a sia in qualche misura indotta dalla semantica dell’aggettivo: quando capace è riferito a un essere in grado di agire, tendiamo infatti a interpretare l’infinitiva che segue come una finale implicita. D’altra parte, come notava già Niccolò Tommaseo (s.v. capace, 5) chiosando l’esempio Capace a fare gran cose, la preposizione a “dice di più, perché denota la direzione più espressa”.
Notiamo che ha origine antica anche un’altra espressione connotata come regionale nei dizionari italiani dell’uso, ed effettivamente diffusa soprattutto a Roma e nel Sud: (è) capace seguita da una frase esplicita al congiuntivo introdotta da che. Il DISC riporta l’esempio è capace che piova prima di sera, dove è capace ha evidentemente valore impersonale (con significato di “è possibile”); il Vocabolario Treccani riporta alcuni esempi in cui è capace sembrerebbe da interpretare piuttosto come predicato nominale: è capace che (lui/lei) si arrabbi; capace che (lui/lei) non si faccia neppure vedere.
Nel GDLI troviamo un esempio di è capace che con valore impersonale in Guicciardini (s.v. capace, 8: “Dico adunque che [...] è ancora agli uomini vulgari capace che el governo di uno buono sia che altro governo”) e uno con valore di predicato nominale in Castiglione (s.v. capace, 4: “Se adunque degli omini litterati e di bon ingegno e giudicio, che oggidì tra noi si ritrovano, fossero alcuni, li quali ponessino cura di scrivere del modo che s’è detto in questa lingua cose degne d’esser lette, tosto la vederessimo culta ed abundante de termini e delle figure, e capace che in essa si scrivesse così bene come in qualsivoglia altra” – si noti che qui il ricorso alla frase esplicita retta da che è legato al cambiamento di soggetto).
In conclusione, volendo rispondere alla domanda in termini di giusto/sbagliato, si dice/non si dice, possiamo senz’altro confermare che la forma più “normale” e accettabile in tutti i contesti è capace di. Tuttavia, la crescente diffusione di capace a anche in contesti scritti di media formalità induce a monitorare questa variante che – come spesso accade per i fenomeni innovativi dell’italiano contemporaneo – trova antecedenti in fasi e testi antichi della nostra lingua.
Come curiosità storica, segnaliamo che nel Repertorio per la lingua italiana di voci o non buone o male adoperate compilato sopra le opere de’ migliori filologi, opera del purista Leopoldo Rodinò (Napoli, Tip. Trani, 1858), l’espressione (esser) capace (di) è considerata un abuso poiché “mal si adopera per Aver il coraggio, l’animo o il cuore (di)”.
Insomma: secolo che vai, (mala)lingua che trovi.
Cristiana De Santis
3 novembre 2023
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