Alcuni lettori ci pongono le domande espresse nel titolo: risponde Valeria Della Valle.
Il dubbio che riguarda le varianti possibili per il singolare e per il plurale di casa d’asta non trova risposta nei vocabolari della lingua italiana: né quelli che descrivono l’italiano di oggi né quelli storici che registrano l’italiano del passato riportano l’espressione casa d’asta o d’aste. Per rispondere al quesito dei lettori possiamo basarci, dunque, solo sull’uso, che legittima entrambe le soluzioni: una rapida ricerca in Google consente di verificare, infatti, che le numerose imprese di vendita italiane che hanno questo nome preferiscono per il singolare la denominazione casa d’aste, e per il plurale case d’aste, forme numericamente molto più comuni. In un lungo elenco in Internet delle imprese esistenti oggi in Italia si legge: “ecco la Guida alle Case d’Aste italiane, luoghi d’arte e di cultura”.
Per spiegare l’oscillazione (e quindi l’incertezza) tra le possibili varianti, bisogna ricostruire la storia della locuzione. Tutto risale alla parola asta, derivante dal latino hastam ‘lancia’: il DELI riferisce che il senso di ‘vendita all’incanto, al miglior offerente’ deriva dal fatto che anticamente si piantava un’asta nel luogo ove si ponevano in vendita i beni dei debitori del tesoro pubblico (in latino vendere sub hasta, hastae subicere). Nel Dizionario Universale critico enciclopedico della lingua italiana di Francesco Alberti di Villanova (1797) viene riportata l’espressione vendere all’asta o sotto l’asta, definita come ‘maniera di vendere all’incanto praticata dagli antichi Romani’. Nell’Ottocento i dizionari hanno continuato a registrare solo vendere o comperare all’asta: già G. Gherardini in Voci e maniere di dire italiane additate a’ futuri vocabolaristi (1838-41) segnalava l’espressione vendere sotto l’asta, vendere all’asta ‘vendere all’incanto’, appoggiandosi a una citazione tratta dal Ninfale d’Ameto di Boccaccio. E tutti gli altri vocabolari ottocenteschi hanno riproposto, più o meno, lo stesso modello. Sorprendentemente non si trovano tracce, neppure nei dizionari novecenteschi, di casa d’asta o d’aste.
A giustificare in parte l’assenza dai dizionari italiani, almeno da quelli del passato, sta il fatto che la tradizione delle auction houses inglesi, di cui casa d’asta o d’aste è un calco, ebbe inizio a Londra con l’apertura, nel 1744, dell’azienda Sotheby’s, e nel 1766 della Christie’s, destinate alla vendita di oggetti antichi, libri e opere d’arte. Questa tradizione si diffuse in Italia inizialmente col solo nome di asta. Lo testimonia il Vocabolario italiano della lingua parlata di Rigutini e Fanfani (1875), che s. v. asta spiega: «Asta, e Asta privata, Incanto che si fa da privati e per loro propria deliberazione: “Ho comprato all’asta un bello orologio da sala, una casa, un podere”». Il luogo nel quale si svolgeva la contrattazione basata sulla migliore offerta non aveva ancora assunto, a metà dell’Ottocento, una denominazione ufficiale. Solo nel 1927, nel quotidiano “La Stampa” del 18 ottobre, p. 3, in un articolo firmato con lo pseudonimo Nomenclator, si cita una casa delle aste:
Il lugubre viaggio attraverso i due mondi delle maschere mortuarie di Sacco e Vanzetti e la dispersione inumana delle loro ceneri mi fa ripensare alla recente messa in vendita alla Casa delle Aste di rue Drouot di una testa mummificata secondo i processi in uso presso gli indiani dell’America del Sud e pagata, dopo un incanto assai movimentato, tremila e cinquecentocinquanta franchi dal poeta soprarealista Andrea Breton.
Ancora nel 1941 il Vocabolario della lingua italiana della Reale Accademia d’Italia (A-C) s. v. asta riportava solo, come ultimo significato, quello di ‘vendita a gara con aggiudicazione a chi offre di più’, seguito da un esempio tratto da Verga, ma nessun riferimento al nome del luogo dove questo tipo di vendita si svolgeva. E anche nel GDLI (1961-2002) l’espressione casa d’asta non è riportata: s. v. casa si trova, però, casa di vendite, con la spiegazione ‘ove si tengono vendite all’asta’ seguita dalla citazione tratta dal romanzo La Velia di Bruno Cicognani (1943):
Su di una pedana, davanti a una tavola, il banditore – il proprietario stesso della casa di vendite, che aveva anche, per conto suo, negozio di mobili usati […] leggeva sul catalogo, via via, la descrizione del mobile.
Tutti gli altri vocabolari consultati, fino al più recente Il Nuovo Treccani (2018) registrano solo, s. v. asta, il significato ‘vendita di beni mobili o immobili fatta a gara, in cui vince chi offre di più’ e le locuzioni vendere, mettere all’asta.
Una ricerca nei cataloghi delle case d’aste romane della prima metà del Novecento conferma che tali imprese si definivano non casa d’aste ma casa di vendita: così la Innocenzi nel 1908, la Jandolo & Tavazzi nel 1914, la Giosi nel 1924, la Guido Tavazzi nel 1931 e la Ugo Jandolo nel 1936. Estendendo l’esame ai cataloghi pubblicati nel resto d’Italia, si ottengono gli stessi risultati. Ancora nel 1982 una delle più antiche imprese commerciali di questo tipo, L’Antonina, fondata a Roma nel 1890, si definiva nella pubblicità casa di vendita all’asta.
Si tratta, dunque, di un’incertezza dovuta all’oscillazione tra più possibilità, e a una denominazione che solo nella prima metà del Novecento si è andata lentamente affiancando a asta, vendita all’asta, casa di vendita. Le forme più comuni e del tutto legittime casa d’aste e case d’aste (con le più rare ma certo non sbagliate casa d’asta e case d’asta), in attesa di essere registrate nei futuri vocabolari italiani, circolano già da tempo, e abbondantemente, in rete. E sempre più spesso, purtroppo, il nome dell’impresa commerciale è seguito non da casa d’aste, ma dal termine inglese auctions.
Valeria Della Valle
26 febbraio 2019
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