Sono arrivate in redazione molte domande che riguardano le denominazioni di alcuni fenomeni atmosferici. In particolare per alluvione e acquazzone si chiede quale sia il genere corretto e le eventuali motivazioni; altre domande riguardano i significati di alluvione, acquazzone, temporale, nubifragio e bomba d’acqua; infine un gruppo di lettori domanda se acquazzone sia un termine derivato, alterato o entrambe le cose.
L’impatto della crisi climatica prodotta dal riscaldamento globale ha sollecitato un ampio dibattito scientifico, economico e sociopolitico, e dato grande risalto ai fenomeni meteorologici; la pioggia, nelle sue diverse forme e soprattutto nei suoi effetti talora estremi, è uno di questi. Raccolgo in questa scheda alcune delle molte richieste di consulenza linguistica relative alla meteorologia e ai nomi della pioggia e di alcuni fenomeni atmosferici, ma il tema meriterebbe spazio e dettaglio maggiori.
Comincio da due parole che incuriosiscono lettrici e lettori grandi e piccoli di queste pagine della Crusca: acquazzone e alluvione. Si rassomigliano un po’ nell’aspetto, per via del suffisso ‑one, ma c’è una somiglianza più nascosta: l’acquazzone è una forte pioggia, e la parola pioggia proviene da una forma *plŏia(m) – l’asterisco si antepone alle forme ricostruite, di cui mancano attestazioni scritte –, a sua volta da *plŏvia(m), all’origine di piova (voce usata anche da Dante nell’Inferno e da Leopardi nella Quiete dopo la tempesta e collegata a plovĕre, da cui deriva piovere). Nel latino parlato, ploia sostituiva il classico plŭvia(m), in cui si può riconoscere la stessa radice -luv- di alluvione e di diluvio, di cui tratterò più avanti; pluja, chuva e lluvia, le parole che indicano la pioggia nelle lingue neolatine occidentali, catalano, portoghese e spagnolo, lasciano la forma antica più riconoscibile; l’italiano la conserva senza adattamenti nell’aggettivo di relazione pluviale, di uso tecnico e colto rispetto al popolare piovano.
A prima vista il suffisso ‑one sembra lo stesso che forma gli alterati accrescitivi, come palazzone da palazzo o come pelliccione da pelliccia; di certo, questa è la spiegazione che darebbe d’istinto e d’intuito ogni parlante madrelingua. In realtà, la base è la forma di caso accusativo aquatiōne(m) della parola latina aquatio; dunque, -zzone è un suffisso derivativo, nel quale la -i- latina è stata assimilata dal nuovo suono consonantico volgare, come è successo nel derivato antico e popolare del latino spatiu(m), spazzo ‘terreno, pavimento’ (da cui spazzare), rispetto al semidotto spazio. Nella lingua antica si trova, con pochi esempi, anche l’aggettivo acquazzoso – ‘piovoso’, detto di una stagione, ma anche ‘bagnato’, detto di un terreno – che però deriva dall’aggettivo latino aquaceus.
Dunque, per rispondere al dubbio sollevato da alcune lettrici e dal gruppo di insegnanti delle scuole primarie, acquazzone è un derivato e non un alterato. Ma come mai è di genere maschile, visto che aquatio è un nome femminile? Diciamo per prima cosa che nella più antica attestazione disponibile il genere non è chiaro: “le biade cadute e piegate per l’aquazone e per vento” si legge nelle Prediche del 1304-1305 di Giordano da Pisa; e nel Trecento si trovano acquazzoni sicuramente femminili, per esempio in Giovanni Villani (1348), e acquazzoni altrettanto sicuramente maschili, in Antonio Pucci (1388), come risulta dalla voce redatta da Valentina Pollidori per il TLIO; ma col tempo la forma maschile ha avuto la meglio.
Vari altri lettori chiedono perché alluvione sia femminile e acquazzone maschile. L’attribuzione del genere ai nomi in -e è una faccenda complicata, nella quale entrano in gioco più fattori. Per acquazzone è probabile che il maschile dipenda proprio dall’interpretazione della parola come un accrescitivo. Nel §1095 della sua classica Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (Rohlfs 1969), Gerhard Rohlfs spiega che le parole latine in -o, -onis indicavano una particolare caratteristica – spesso una qualità negativa, con intento spregiativo – di una persona, e sono passate nelle lingue romanze per formare molti derivati, da verbi (per esempio mangione da mangiare), ma anche da aggettivi (grandone) e da nomi; aggiunto a nomi femminili il suffisso produce un cambio di genere, e così scarpa dà il maschile scarpone e perfino una donna diventa un donnone.
Senza dubbio di genere femminile è alluvione; la forma maschile, un alluvione, al plurale gli alluvioni, di cui chiedono conto una lettrice e tre lettori, è in effetti attestata occasionalmente già nella Descrizione di tutta Italia del domenicano bolognese Leandro Alberti (1550); con una discreta frequenza in testi del Settecento e poi, più largamente, nell’Ottocento. Però tanto i vocabolari storici (la quinta impressione del Vocabolario degli accademici della Crusca, il Tommaseo-Bellini, il GDLI), quanto quelli sincronici registrano solo il femminile, e il DOP indica come “errato” l’uso al maschile.
Per rispondere ai dubbi bisogna tener conto di due fatti, uno morfologico e uno semantico. I nomi della seconda classe in -e con plurale in -i hanno la stessa forma sia quando sono femminili, sia quando sono maschili: a decidere il genere è l’etimologia, oppure l’uso prevalente. In usi scientifici l’alluvione è il terreno che si forma dal deposito dei materiali trasportati dall’acqua durante la fase di piena di un fiume; per il diritto privato questo terreno appartiene a chi ha la proprietà del fondo lungo le rive del corso d’acqua straripato. La norma è negli articoli 556 e 557 del Code civil des Français napoleonico del 21 marzo 1804, tradotto in italiano e adottato dal Regno d’Italia dal 1° gennaio 1806; in usi tecnici si parla di diritto di alluvione. È possibile che la coincidenza di forma e la divergenza semantica abbiano suggerito di distinguere l’alluvione femminile, sinonimo di ‘allagamento, inondazione’, dall’alluvione maschile nel significato di ‘terreno alluvionale’. Però a decidere non sono le attestazioni di usi particolari, ma l’uso prevalente e – soprattutto – la percezione e la sensibilità delle persone che hanno l’italiano come lingua materna, uso e percezione che i vocabolari registrano, confortano e autorizzano. Dunque, alluvione solo femminile, in tutte le sue accezioni.
Alluvione, come si è detto, è una parola dotta derivata dal latino alluvio, -onem (femminile) ed è palesemente imparentata con il biblico diluvio (da diluvium, neutro, passato al maschile). Il diluvio appare nelle traduzioni in volgare della Bibbia fin dal Trecento, ma è accompagnato dall’aggettivo universale solo dalla fine del Quattrocento, e stabilmente dall’inizio del Seicento, nella prima edizione della cosiddetta “Bibbia Diodati”, risalente al 1607, diventando così un’espressione fissa, anche in senso scherzoso (“ripariamoci prima che ci prenda il diluvio universale!”); trecenteschi sono anche l’aggettivo diluvioso e il verbo diluviare transitivo ‘sommergere qualcosa con un diluvio’; cinque-seicentesco è il moderno uso impersonale nel senso di ‘piovere a dirotto’; addirittura ottocentesco è il raro aggettivo diluviale, usato sia dai biblisti sia dagli scienziati, mentre le persone comuni conoscono gli animali antidiluviani, e qui il suffisso potrebbe aver subito l’influsso di piovano. Dalla stessa radice e tramite modelli già latini, classici o tardi e medievali, sono arrivate all’italiano parole rare come colluvie ‘afflusso di acqua sporca, di materia putrida’ e per traslato ‘insieme confuso di cose o di persone’, e illuvione ‘inondazione’.
Tanto alluvione quanto gli ultimi termini che ho elencato sono usati in geologia per indicare i fenomeni di deposito di materiali a seguito di alluvioni, inondazioni o dell’azione di fiumi e torrenti: nel Dizionario di geologia curato nel 1968 da Marcello Manzoni si trova anche alluviale, che sembrerebbe avere un significato diverso dall’aggettivo alluvionale ‘relativo a un’alluvione’ riferendosi a un ambiente caratterizzato “dall’azione di deposito di fiumi e torrenti”; la forma alluviale segue direttamente il latino alluvies (alluviem, all’accusativo), e probabilmente risente anche dell’influsso di alluvial, forma identica in francese e in inglese.
Il genere umano ha sempre temuto i diluvi e le alluvioni, e in Italia se n’è avuta esperienza antichissima: di un’alluvione parla già lo Statuto volgare di Perugia del 1342; l’aggettivo e sostantivo alluvionata, alluvionato ‘persona vittima di un’alluvione’ è attestato in italiano dal 1927, ben prima della tragica alluvione del Polesine nel 1951 e di quella notissima di Firenze del 1966. Sul piano semantico l’alluvione, come l’inondazione, è un esteso allagamento provocato da grandi masse d’acqua straripate da fiumi o torrenti in piena a causa delle precipitazioni che si sono verificate soprattutto nelle zone montuose attraversate dai loro corsi. Un’alluvione è dunque cosa diversa dal diluvio, che è un tipo di precipitazione, anche se a Roma nel Quattrocento si dava il nome di diluvio alle inondazioni del Tevere. La portata e le dimensioni dell’alluvione non permettono di confrontarla con l’allagamento di una cantina dopo una notte di piogge intense, per quanto torrenziali, come quello che ha danneggiato un lettore. Devono insomma esserci condizioni di eccezionalità e di gravità straordinarie – 50-100 mm d’acqua e oltre nelle 24 ore per più giorni – che giustifichino la dichiarazione di calamità naturale, un’espressione entrata nella normativa con la legge 996 dell’8 dicembre 1970, che ha segnato la nascita della protezione civile in Italia. Niente impedisce a nessuna e a nessuno, naturalmente, di preferire inondazione o alluvione al più semplice allagamento per definire un danno causato dall’acqua, ma potrà farlo in senso iperbolico, non meteorologico, né giuridico.
È più difficile rispondere a chi chiede che differenza ci sia tra un acquazzone, un diluvio, un nubifragio e un temporale, perché nessuna di queste parole è usata in modo stabile e coerente nelle terminologie tecniche. Si può cominciare da temporale, antico e dal significato ormai univoco di ‘perturbazione atmosferica locale, di breve durata, accompagnata da raffiche di vento, rovesci di pioggia, talora grandine o scariche elettriche’ (prendo dal DELI la definizione, analoga negli altri dizionari). Così come tempesta, anche temporale deriva dal latino tempus ‘tempo atmosferico’; inizialmente era un aggettivo, convertito in nome già nella lingua d’origine. Fino al Quattrocento era usato come sinonimo di ‘tempo, momento, circostanza’ e ‘stato di cose’ o ‘temperie’ (che ha la stessa radice etimologica); in una lirica di Cino da Pistoia si legge: “Gentil donzella, fatta sete sposa / il temporal v’invita oma’ d’amore”. Non di rado temporale assumeva una sfumatura di senso negativa (anche nel latino tempus convivevano i due valori di ‘momento buono’ e ‘momento cattivo’). Il significato meteorologico è attestato stabilmente piuttosto tardi; l’esempio più antico riportato nel GDLI è dai Diarii del veneziano Marin Sanudo: “Ozi fo assa’ pioza, quasi tutto il zorno, e più la sera, con vento et grandissimo temporal”; siamo nell’agosto 1515; ma Sanudo usa la parola già almeno dal settembre 1496: “A dì 1.° de l’instante, havessemo [‘avemmo’] qui gran temporal” (ringrazio Francesco Crifò per l’indicazione).
Se un temporale è una tempesta circoscritta nello spazio e nel tempo, nella coscienza dei parlanti è ben chiaro che si tratta di un evento composto da diversi fenomeni: non solo pioggia, ma anche tuoni e fulmini, vento forte e magari anche una grandinata. Insomma, tecnicamente, un olonimo, cioè un termine che ne comprende altri, i quali non sono “tipi” del termine generale, bensì sue componenti, sue parti, e sono perciò detti meronimi. Invece tempesta è parola più specifica, che nelle descrizioni tecniche corrisponde a un’intensità del vento misurata tra 48 e 55 nodi nella scala Beaufort. Tipi di tempesta, di formazione e localizzazione diverse, sono la tempesta di neve e la tempesta di sabbia, mentre le parole ciclone, tifone e uragano (della cui storia non si può dar conto qui) designano tempeste più violente della norma, che si verificano nelle regioni tropicali oceaniche, non nel Mediterraneo.
Nubifragio è una parola nata nel latino medievale (nubifragium) dalla combinazione di nubes ‘nube’ e della seconda parte della parola naufragium, legata al verbo frangere ‘spezzare, rompere’, dunque letteralmente una ‘rottura delle nubi’. Attenzione, in meteorologia si parla solo di nubi, non di nuvole come nella lingua di tutti i giorni, e la classificazione delle nubi è precisa e codificata (con sigle stabilite da organi internazionali), così come quella della copertura del cielo: le persone comuni possono definire coperto un cielo nuvoloso, ma il bollettino suddivide la superficie visibile del cielo in ottavi e distingue tra cielo molto nuvoloso (6-7 ottavi) e coperto (8 ottavi). In italiano nubifragio sembrerebbe un recupero colto piuttosto recente, se si dà credito alla data 1883 riportata dai dizionari; Ludovica Maconi, però, ha segnalato nell’archivio ArchiDATA una consistente retrodatazione, trovando la corrispondenza tra il tedesco Wolkenbruch e gli italiani nubifragio e cataratta nel dizionario tedesco‑italiano di Nicolò Castelli, La fontana della Crusca (Lipsia, in der Weidmannischen Handlung, 1741); ma è probabile che si possa risalire ben più indietro, considerando che cataratta richiama le cataratte (o cateratte) del cielo, menzionate già nei volgarizzamenti trecenteschi della Bibbia quando si aprono per produrre il diluvio universale.
La meteorologia non usa volentieri nubifragio, che invece è d’uso piuttosto comune nella lingua quotidiana; come l’acquazzone e il diluvio anche il nubifragio è una precipitazione, ed è questa la parola preferita dagli specialisti, che distinguono tra precipitazioni di grandine, neve, pioggia, rugiada e brina, fenomeni che riflettono condizioni meteorologiche e meteodinamiche assai diverse tra loro. La pioggia può essere più o meno intensa (alcuni studi di meteorologia propongono una gradazione in base a quantità, diametro delle gocce e velocità di caduta), ma la lingua sembra propensa a definire i gradi d’intensità leggeri meglio di quelli forti: pioggerellina, pioggetta e pioggettina, pioggiolina, pioviggine e piovigginare, o pioviccicare, e così via; nei due verbi contano la percezione della dimensione delle gocce, più piccole, e la densità, più fitta quando pioviggina, meno quando pioviccica. Per pioviccicare il Tommaseo-Bellini suggerisce che si tratti di qualcosa di più limitato nel tempo, perché “può piovigginare anco più dì”; senz’altro pioviccicare non ha l’antichità e il blasone toscano di piovigginare, attestato già nelle novelle di Franco Sacchetti, all’inizio del Quattrocento. Quanto agli accrescitivi, un pioggione o una pioggiona sono ovviamente possibili (con Google ricerca libri trovo diversi esempi dell’accrescitivo al maschile e un solo esempio del femminile in I Rosselli. Epistolario familiare di Carlo, Nello, Amelia Rosselli, 1914-1937, a cura di Zeffiro Ciuffoletti, Milano, Mondadori, 1997), ma non sono registrati nei principali dizionari storici e dell’uso, mentre evidentemente accrescitivo e dispregiativo si addicono al temporalone e al temporalaccio. Per indicare una pioggia leggera si usa anche acquerugiola, unico esempio in italiano di un alterato ottenuto con un interfisso -er- e con il raro suffisso diminutivo -ugiolo, anche se in Grossmann-Rainer 2004 (pp. 266 e 280) è registrato da Lavinia Merlini Barbaresi.
Chi studia i fenomeni meteorologici parla di rovescio per indicare una precipitazione intensa e improvvisa di pioggia, o anche di grandine o di neve, ma di breve durata e localizzata (due combinazioni fisse sono rovesci isolati o locali rovesci), e la parola è frequentissima nei bollettini e nelle previsioni, mentre è poco probabile che la si ascolti in una conversazione tra persone comuni. Durante un rovescio l’intensità delle precipitazioni varia, e può trasformarsi in uno scroscio, generalmente con gocce, chicchi di grandine o fiocchi di neve di grandi dimensioni. Il rovescio è associato spesso a raffiche di vento (cfr. la bella e documentata ricerca di Matilde Paoli su stravento). Ancor più tipica del lessico meteorologico è la parola piovasco, che indica una precipitazione di breve durata, ma meno intensa del rovescio, e intermittente. Il piovasco è associato tanto profondamente alla speciale lingua delle previsioni del tempo che negli anni Ottanta del secolo scorso il giornalista e critico televisivo Sergio Saviane definì “Toscanini del piovasco” il più famoso meteorologo della Rai, il colonnello Edmondo Bernacca.
Mi soffermo sulla storia linguistica di queste tre ultime parole: rovescio, collegato al verbo rovesciare che prosegue il latino classico reversare o meglio il tardo *reversiare, appare già nel Trecento come aggettivo per indicare qualcosa di voltato in senso contrario, opposto a dritto, e più tardi come sostantivo per la parte opposta di un oggetto a due facce (per es. il rovescio della medaglia); il GDLI attesta in poesia l’accezione meteorologica nelle rime del fiorentino Anton Franceso Grazzini (1503-1584), ma più efficace e pertinente mi pare la citazione da una lettera di Annibal Caro (1507-1566), che riporto: “Siamo a Velletri… risciacquati per due miglia continue da un rovescio d’acqua tale che siamo tutti fradici”. Nel celebre Addio ai monti manzoniano Lucia distingue lo scroscio dei torrenti, e un verso di Guido Gozzano descrive la pioggia che “giù precipite crepita, scroscia”, usando – non a caso – il prezioso aggettivo precipite. Le parole piovasco e scroscio sono interessanti per motivi diversi: il GDLI attesta piovasco per la prima volta nel Vocabolario marino e militare di Alberto Guglielmotti (Roma, Voghera, 1889), dunque in un testo tecnico, non letterario; la seconda citazione proviene da Sull’Oceano, racconto pubblicato nello stesso 1889 dal ligure Edmondo De Amicis; sempre dal GDLI veniamo poi a sapere che Alfredo Panzini nell’edizione del 1923 del suo Dizionario moderno lo considera “termine marinaresco”. Il suffisso -asco è caratteristico di parole d’origine ligure, e il fatto che piovasco non sia parola toscana è confermato anche dalla sua assenza nella Crusca e nel Tommaseo-Bellini. Insomma, una parola collegata al mare e alla navigazione, come il veneziano burrasca, sviluppo adriatico della bora, che a sua volta discende dal latino borĕas come la buriana sul versante tirrenico (vedi la consulenza di Alberto Nocentini Che buriana: è arrivato il buran!, del 27 febbraio 2018).
Scroscio, a differenza di tutte le altre parole di cui ho trattato fin qui, è un germanismo attestato già nel Duecento. Rispetto al probabile modello longobardo o gotico – il verbo trausjan ‘precipitare, detto dell’acqua’ o ga-drausjan –, agli esiti con consonante iniziale dentale /t/, pur attestati nei verbi trosciare o strosciare, l’uso ha preferito il suono velare /k/, forse più connotato fonosimbolicamente.
Oltre ad acquazzone, per indicare uno scroscio improvviso e violento c’è una parola un po’ vecchiotta, ma non del tutto inservibile: acquata, che compare nel primo verso di una poesia di Ugo Betti (1892-1963), Piccola nuvola di primavera, che avevo imparato a memoria ai tempi della scuola elementare. Però, nel lessico meteorologico, e poi anche nella lingua comune attraverso i giornali, si è diffusa almeno dal 2010 l’espressione bomba d’acqua, che è stata accolta nei Neologismi Treccani 2018; secondo questa fonte, bomba d’acqua ricalcherebbe l’inglese cloudburst, letteralmente ‘esplosione (burst) di una nuvola (cloud)’. La terminologa Licia Corbolante ha dedicato un paio di articoli all’argomento, ricordando che in inglese esiste anche l’espressione weather bomb ‘bomba di tempo (atmosferico)’, che però indica un’altra cosa, e che cloudburst e bomba d’acqua soppiantavano un altro – precedente – anglicismo, flash flood ‘alluvione lampo’. Alle sue osservazioni aggiungo che glossario dell’American Meterological Society chiarisce che cloudburst è una parola della terminologia popolare, ingenua. Sarebbe più corretto parlare di excessive precipitation, cioè precipitazione eccessiva rispetto alle medie stagionali di pioggia, misurate in millimetri per ora. Inoltre, tradurre con alluvione lampo l’inglese flash flood – termine tecnico attestato per es. nella banca dati meteoterm della World Meteorological Organization (dotata di glossari solo in francese, inglese e spagnolo) – è poco opportuno: si tratta della crescita rapida del livello dell’acqua in una determinata zona, dovuta a precipitazioni abbondanti o straripamenti per cause accidentali o naturali; sarebbe perciò preferibile parlare di piena improvvisa o di allagamento rapido (gli equivalenti francese e spagnolo sono rispettivamente crue soudaine e crecida repentina).
Chiudo questa scheda con una parentesi sulla meteorologia per l’infanzia e con qualche altra scheda lessicale.
In uno dei racconti più gustosi delle Storie allegre di Carlo Collodi, Pipi, lo scimmiottino color di rosa, il protagonista dice: “Amici miei, come volete che io faccia a darvi il sole… finché dura quest’acquazzone che pare un diluvio?”. È uno dei tanti esempi di come le parole del tempo possono essere insegnate con leggerezza alle più piccole e ai più piccoli. Nel 1987 usciva su “Topolino” un fumetto dedicato alla meteorologia: un inventore un po’ “svirgolato” – secondo l’antico stereotipo dello scienziato con la testa fra le nuvole – costruiva un tempocomando “in grado di riprodurre fino a 999 variazioni del clima in un raggio di alcuni metri”; prevedibilmente, l’uso improprio del miracoloso strumento produceva solo danni. Tra le parole meteorologiche usate nel fumetto raccolgo bufera di grandine, bufere oceaniche, fortunale (anch’essa in origine un aggettivo che significava ‘casuale, fortuito’), tempesta di neve, caldo tropicale e uragano tropicale, vento polare. In una storia di qualche anno dopo, nel 1994, Pippo riceveva da un mago un anello fatato con cui si poteva “programmare il clima”; ma, di nuovo, la conseguenza erano disastri per i coltivatori e per il turismo. Qui le parole meteorologiche sono ancora meno numerose che nel fumetto precedente, ma è interessante il commento di Minnie: “molto strani questi continui cambiamenti climatici”, che attesta la fortuna dell’espressione anche in un testo rivolto a bambine e bambini. Tra i mille usi traslati della parola pioggia e delle tante altre che a questo fenomeno sono collegate non poteva mancare un anglicismo recente, al quale si arriva un po’ casualmente cercando acquazzone a tutto testo nella versione digitale dello Zingarelli 2025. È il baby shower, che si potrebbe tradurre con acquazzone del pupo (acquazzone è la traduzione proposta dallo Zingarelli, ma ricordo che shower significa anche ‘doccia’); il baby shower è la festa in cui si annuncia la nascita di una bambina o di un bambino e se ne rivela il sesso; l’acquazzone evoca la pioggia di regali.
Chiudo con un paio di altre parole meteorologiche: nell’ottobre del 2024 la regione spagnola di Valencia ha conosciuto i devastanti effetti della dana; questa parola è una sigla che sta per “depresión aislada en niveles altos” cioè ‘depressione isolata ad alti livelli’; si è parlato anche di goccia fredda (gota fría in spagnolo), espressione che è stata accolta da alcuni dizionari e con la quale si indica una ‘bolla d’aria fredda artica isolatasi dalla bassa pressione d’origine e stazionaria in quota, che genera forti rovesci di pioggia e temporali’ (Zingarelli 2025). Un termine più tecnico per indicare fenomeni analoghi, cioè la formazione di cellule temporalesche ad alta quota, è supercella: qui cella, come l’inglese cell o il tedesco Zell, non indica un contenitore (naturale come la cellula o artificiale come il comparto di un frigorifero), bensì un’area in cui certe condizioni si presentano in modo omogeneo. L’ufficio di meteorologia della Svizzera descrive così la supercella:
Le supercelle sono dei temporali particolarmente grandi, sviluppati e pericolosi. Provocano sovente forti grandinate e violente raffiche di vento. Una volta sviluppate possono durare per ore, rigenerandosi continuamente. La loro direzione di spostamento si lascia prevedere solo con difficoltà.
Se supercella è registrato da più d’un dizionario e il suo ingresso nella lingua comune è datato al 2005, la sigla dana non aveva mai circolato in precedenza, mentre circola in italiano già da qualche tempo (nell’edizione 2021 dei Neologismi Treccani l’esempio più antico risale al 2007) la parola medicane, tamponamento (o blend, per chi preferisce la denominazione inglese) tra medi(terranean) e (hurri)cane, cioè ‘uragano mediterraneo’, con riferimento a fenomeni che colpiscono soprattutto l’area ionica e la Puglia. Posto che la si voglia usare, proporrei di mantenerla invariabile (un medicane, molti medicane, pronunciato /ʹmɛdikein/) piuttosto che adattarla all’italiano nella pronuncia e nella morfologia (un medicano?): i medicani, forma che pure è stata usata da qualche giornalista, mi sembra poco trasparente.
Concludendo, ricordo che dall’autunno 2021 il Servizio meteorologico dell’Aeronautica militare, in accordo con centri omologhi di altri paesi del Mediterraneo centrale (Croazia, Malta, Slovenia), dà nomi di persona alle tempeste più violente che colpiscono l’Italia: si va dai classici Atena o Dionisio ai più comuni Elena, Pino o Rosa. È un sistema già in uso da tempo in altri Paesi (si pensi al terribile uragano atlantico Katrina, abbattutosi sugli Stati Uniti nel 2005), che può forse servire ad addomesticare un po’ la nostra percezione di questi fenomeni e a farceli apparire meno spaventosi, visto che dovremo incontrarli sempre più spesso nei prossimi anni.
Nota bibliografica:
Riccardo Gualdo
19 maggio 2025
Evento di Crusca
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