Ci sono pervenute varie domande – anche da italiani residenti all’estero – che chiedono come mai la nostra lingua abbia un unico termine, nipote, per indicare tanto il figlio o la figlia del fratello o della sorella quanto il figlio o la figlia del figlio o della figlia. A loro parere, la mancata distinzione può creare equivoci parlando con sconosciuti e costringere a successive precisazioni, tanto che c’è chi suggerisce di creare una nuova parola ad hoc.
In effetti è così: nell’àmbito dei cosiddetti singenionimi, cioè dei nomi di parentela, l’italiano, mentre distingue i nonni dagli zii, non dispone – almeno nell’uso comune – di due termini diversi per indicare i rispettivi nipoti. Va inoltre notato che la parola nipote < latino nepōte(m) è ambigenere, e solo l’articolo consente la distinzione tra maschi e femmine. Questi due tratti costituiscono indubbiamente delle particolarità dell’italiano rispetto ad altre lingue, romanze e non romanze, che hanno una ricchezza terminologica molto maggiore: così, per esempio, il francese distingue neveu (maschile) e nièce (femminile), nipoti di zii, da petit-fils e petite-fille, nipoti di nonni, e così l’inglese nephew e niece da grandson e granddaughter; analogamente, in spagnolo si hanno, rispettivamente, sobrino/sobrina e nieto/nieta; anche in tedesco Neffe e Nichte sono diversi da Enkel e Enkelin.
Come risulta dalla voce del TLIO, nipote è attestato in entrambi i valori, sia al maschile sia al femminile, in testi antichi di tutte le aree geografiche italiane (in alcune delle quali si hanno però distinzioni di genere: per esempio con i femminili nepota/nipota o col maschile nevodo). L’attestazione più antica è in un documento di carattere pratico edito da Arrigo Castellani (Affitti della badia di Coltibuono) che risale alla fine del sec. XII: "Guido dela Bursella v staia d(i) grano. Rinieri lo nepote i staio alo staio picculo"; non è chiaro se Guido sia lo zio o il nonno di Rinieri.
Probabilmente, il fatto che l’italiano non distingua tra due gradi di parentela che pure sono certamente diversi si lega all’organizzazione familiare tra Tardo Antico e Alto Medioevo, che equiparava i diritti e i doveri di nonni e zii nei confronti dei figli dei fratelli o dei figli e viceversa. Ricordiamo infatti che nel latino classico il maschile nepos e il femminile neptis indicavano solo i figli del figlio o della figlia e la loro estensione al posto di filius/filia fratris o sororis risale all’epoca imperiale.
Se questa è, da secoli, la situazione dello standard, l’italiano ha però la possibilità di precisare di quale nipote si tratti. Infatti il Dizionario di Tommaseo-Bellini (d’ora in avanti TB) registra (vol. I, p. 43) abiatico come sostantivo nel senso di ‘nipote, figlio del figlio o della figlia’, riportando alcuni esempi antichi; la voce è però marcata con la croce che TB premette alle parole uscite dall’uso, croce che manca invece nel caso di abiatico aggettivo, registrato subito dopo nel senso di ‘del nonno’ e documentato con l’esempio eredità abiatica.
Certo sulla scia del TB, non solo il GDLI, ma anche vari dizionari contemporanei registrano il termine abiatico (come vivente ed esclusivamente come sostantivo), marcandolo come lombardo (GRADIT, che data la voce al 1865, anno del TB), o come settentrionale (Sabatini-Coletti e ZINGARELLI 2015, che segnalano anche la variante con -bb-, in realtà rarissima, e riportano la data del sec. XIV del primo esempio citato nel TB, privo peraltro di riscontri nel TLIO).
Il termine abiatico deriva dal latino aviatĭcus, a sua volta derivato di avus ‘avo, nonno’: così il LEI (vol. III/2, coll. 2657-2659), che ne documenta la diffusione (con varianti e derivati) in area lombarda, con irradiazioni in Piemonte e in Svizzera. Anche la carta 18 dell’AIS (oggi in rete all’indirizzo http://www3.pd.istc.cnr.it/navigais-web/), intitolata I nostri nipoti (figli del figlio) – Unsere Enkel – Nos petits-fils, mostra come i termini dialettali biadek, aviadek e simili siano diffusi nella Svizzera italiana e in Lombardia tra i punti 227 (Albosaggia - SO), 244 (Sant’Omobono - BG) e 245 (Stabello - BG). Alla stessa base di abiatico sia il LEI sia il TLIO riconducano il termine abladhesi, documentato nel milanese Bonvesin de la Riva (sec. XIII).
In anni più recenti abiatico è talvolta comparso in testi letterari di autori settentrionali: un esempio si ha nel celebre romanzo Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, del 1895 ("Don Franco Maironi, l’abiatico della vecchia marchesa Orsola"); un altro nelle Novelle dal ducato in fiamme di Carlo Emilio Gadda, del 1953, particolarmente notevole perché qui il termine, al plurale, figura subito dopo nipoti: "Quali erano le persone più vicine al suo cuore, dopo la moglie e i figlioli? Erano le sorelle, i cognati, i cugini, le cugine, i nipoti, gli abiatici e i parenti tutti: le mogli dei cugini e i mariti delle cugine".
Il LEI sostiene, molto plausibilmente, che la voce latina aviaticus sia diventata un tecnicismo giuridico in epoca longobarda. In effetti anche oggi abiatico (con il femminile abiatica), da solo o posposto a nipote (e dunque con la funzione aggettivale segnalata nel TB, ma non nei dizionari più recenti), ha una certa diffusione negli studi notarili lombardi. Non so se sia usato anche altrove: non a Roma, dove, a quanto mi risulta, per la distinzione tra i diversi nipoti si usano locuzioni come “figlio del figlio” o “figlio del fratello germano” (specificazione, quest’ultima, che indica che i fratelli hanno in comune entrambi i genitori). Va peraltro segnalato che a Roma l’ambiguità del termine nipote è ancora maggiore, perché vengono tradizionalmente indicati come nipoti anche i figli dei cugini di primo o persino di secondo grado (che da quelli vengono chiamati zii), come avviene anche in altre aree del Sud, laddove invece al Nord per il complesso di questi rapporti di (non stretta) parentela si usa il termine cugino.
Tornando alla domanda, possiamo dunque rispondere che anche in italiano per indicare o distinguere i nipoti dei nonni una parola, per giunta di trafila popolare e non dotta, c’è. O per meglio dire, ci sarebbe, perché si tratta di un termine raro, rimasto sempre confinato in usi regionali e/o settoriali oppure all’interno dei vocabolari. Perché l’intera comunità dei parlanti imparasse e facesse propria la parola abiatico (acquisendone una competenza sia attiva sia passiva), ci vorrebbe qualche canale di diffusione particolarmente efficace. Ma se per secoli l’uso nazionale non ha sentito l’esigenza di distinguere tra nipoti e nipoti, è poco probabile che la avverta oggi, quando l’abbondanza di figli unici e quindi la scarsità di zii da un lato e la crescita delle distanze generazionali dall’altro sembrano ridurre le possibilità di equivoci.
Personalmente, ricordo di aver sentito per la prima volta abiatico (anzi nipote abiatico) alla televisione, in una scenetta (o forse un breve atto unico) con il comico torinese Erminio Macario, nel varietà Macario Più, trasmesso nel 1978. Da allora non l’ho più dimenticata perché mi è parsa subito una parola “utile”. Confesso però di non avere mai avuto occasione di adoperarla; e d’altra parte, se pure l’avessi usata, non è affatto sicuro che i miei interlocutori ne avrebbero còlto il significato.
Paolo D’Achille
6 settembre 2016
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