L'uso di che, che cosa, cosa nelle frasi interrogative dirette e indirette suscita dubbi sulla correttezza dell'una o dell'altra forma fino alla correzione da parte di altri che noti la nostra scelta come inappropriata. Scrive infatti Marco T. da Milano che gli sono state corrette le frasi "Cosa serve per...?" e "Cosa succede?" in "Che cosa serve" e "Che cosa succede" e chiede Deborah M.: «È corretta l'espressione "Di che parliamo?" in luogo di "Di che cosa parliamo" oppure "Di cosa parliamo"?». Ma non sono i soli a trovarsi nel dubbio.
Che cosa / cosa / che ne pensa la Crusca?
Si potrebbe rispondere brevemente che tutte e tre le possibilità che offre la nostra lingua sono da adottare tranquillamente perché, quale che scegliamo o che per abitudine usiamo, in nessun caso si può parlare di errore.
Ma cerchiamo di avvicinarci meglio al “problema” – ché di problema si tratta se qualcuno lo vive come tale – percorrendo la storia dell'uso, le posizioni a riguardo e l'uso odierno.
Le interrogative dirette e indirette aperte dal solo che o dal solo cosa, sono attestate nella lingua letteraria tra XVI e XVII secolo, come già osservava Giovanni Nencioni sulla base della documentazione nel GDLI; lo studioso sottolineava che la “forma familiare” compare nella lingua letteraria proprio a quell'altezza cronologica e che, per contro, Boccaccio nel Decameron, comprese le parti dialogiche, usa la forma che cosa.
La semplificazione in cosa nell'Ottocento è sostenuta da Fornaciari e Gherardini, ma fu in genere ostacolata dai grammatici e si diffuse per la scelta manzoniana.
All'italiano di oggi si riconosce un uso alternante, come sottolinea Serianni (e a questo classico della grammaticografia moderna facciamo riferimento perché, fra l'altro, si muove fra italiano comune e lingua letteraria):
Le tre forme sono tutte molto comuni nell'uso; al più possiamo notare (con Sabatini [...]) che, specie nelle interrogative indirette, «ha perduto terreno che cosa e si va affermando sempre più il semplice cosa, di provenienza settentrionale, mentre il che di provenienza meridionale, e ovviamente predominante da Roma in giù, a livello nazionale si è fissato, più che altro in talune formule (come che so? 'ad esempio' […]).
La posizione di Sabatini, accolta da Serianni, è ribadita da Berruto che cita il fenomeno fra quelli “ben noti”.
Il questionario del progetto di ricerca La lingua delle città (LinCi), somministrato ai parlanti di 31 città italiane, si limita a indagare le dichiarazioni d'uso nella sola frase interrogativa diretta “Che / cosa / che cosa fai oggi?” (domanda 183) e vuole verificare cambiamenti e resistenze delle diverse forme nell'italiano dei nostri giorni. Già avevamo avuto modo di osservare - sulla base delle prime 18 città indagate - una prevalenza di che (uso esclusivo) nelle città toscane (Prato, Firenze, Siena, Arezzo) e nelle città del centro-sud (Roma, Latina, L'Aquila, Lecce, Catania) e una prevalenza di cosa nelle città del Nord (Milano, Verona, Genova), a Carrara – città toscana, ma settentrionale dal punto di vista linguistico – e a Livorno. Anche la Sardegna è allineata su cosa (Cagliari, Nuoro, Oristano, e, minoritariamente Sassari). Di fatto sembra persistere, stando alle dichiarazioni dei parlanti, una distribuzione geografica fra cosa settentrionale e sardo, con propaggini in Toscana, e che ben radicato nella Toscana centro-orientale e naturalmente nel centro-sud.
Senza aggiungere nuovi dati ritorniamo per approfondire: ci interessa vedere da vicino il movimento e la relazione tra le diverse possibilità. La dichiarazione d'uso esclusivo di che cosa è variamente diffusa e numericamente poco significativa (21 informatori su un totale di 216), anche se dobbiamo aggiungere le dichiarazioni d'uso in alternanza con che o con cosa (18 informatori). Poco meno della metà, 17 di 39 (21+18), ha un grado di istruzione elevato e varia a seconda dell'età. Pare dunque si debba ricercare nella comune competenza della forma estesa – e nella memoria dell'uso scritto il senso della scelta o dell'affiancamento a forme ridotte, piuttosto che in rapporto significativo con l'età, l'istruzione e il sesso del campione. Si ha dunque un'idea di maggiore accuratezza di che cosa proprio perché “completa” o di maggiore “forza”, di sottolineatura. Si pensi ai molti titoli o sottotitoli di libri, sia di saggistica sia di narrativa, che contengono appunto la formula piena: Che cos'è il cinema (Fernaldo di Giammatteo); Il capitale sociale. Che cos'è e che cosa spiega (a cura di Guido De Blasio e Paolo Sestino); Che cos'è l'amore (Alfredo Panzini), Ma che cosa è questo amore (Achille Campanile)
Si è citata la lingua scritta per la forma estesa nell'interrogativa diretta come possibile punto di riferimento, ma è chiaro che la casistica andrebbe ampliata. Nel corso dell'Ottocento non mancano differenze e oscillazioni e, secondo gli autori, si rileva la sola forma estesa, la presenza frequente del solo cosa (Foscolo, Iacopo Ortis), l'alternanza delle tre possibilità con preferenza per cosa nel dialogo (De Amicis, Cuore), ma non solo (Verga, Imbriani). Tuttavia sussiste nella lingua letteraria di oggi una discreta variabilità, a favore di una delle due forme ridotte, soprattutto cosa, se nel corpus interrogabile di testi letterari contemporanei la forma estesa, considerando soltanto le interrogative dirette (in genere più ricorrenti se il testo ha una componente dialogica consistente) è presente soltanto in 6 autori (Curzio Malaparte, Carlo Levi, Alberto Arbasino, Michele Prisco, Giuseppe Montesano, Domenico Starnone, Melania Gaia Mazzucco), con densità e regolarità in opere degli anni 50-70.
Quanto all'incrinarsi di una compattezza radicata in alcune città, si tenta ora almeno una descrizione dei fatti anche minimi che offrono i dati della citata LinCi e che possono aprire una strada interpretativa. Firenze resta abbastanza solida con i suoi 8 informatori che hanno l'uso esclusivo di che, a questi si aggiungono 2 informatori (di istruzione alta, un maschio e una femmina, rispettivamente di età anziana e media) che offrono tanto che quanto cosa: del resto si tratta di materia “a disposizione” e di coscienza della propria attitudine alla variazione o comunque della possibilità di scelta libera fra due elementi ai quali si attribuisce uguale valore. La scelta secca di cosa dell'informatore di anziano non istruito, potrebbe attribuirsi al desiderio di distanziarsi da quella forma che dichiara di usare comunemente e che noi ascriviamo decisamente al dialetto “icché tu fai”. La sua coetanea pratese opta però per che, anche se dichiara nel parlato informale “icché tu fai”. Nel Fanfani-Arlia si attesta indirettamente un uso di cosa nel parlato - si intenda fiorentino - della seconda metà dell'Ottocento, ma lo si reputa affettato e non del vero popolo che impiega la forma intera e
anzi, perché va per le corte, della voce Cosa non se ne serve, e dice con più proprietà; Che ha' tu fatto? – Che desideri? E i Fiorentini Il che desideri? (cucinato nel modo loro Icchè tu fai! Icchè tu desideri?).
Di fatto al “permissivo” Fornaciari si contesta la lingua parlata di riferimento, ribadendone la matrice fiorentina. Tuttavia, ad oggi, al fiorentino icché – al quale si aggiunge il pratese – e al pistoiese il che esteso all'interrogativa, corrispondono che senese, lucchese, aretino, e cosa pisano, livornese e piombinese (cfr Giannelli, Toscana). Dunque le dinamiche interne alla regione trovano un allineamento naturale a cosa nell'area occidentale costiera che coincide con la tendenza dell'italiano contemporaneo di orientamento settentrionale, e il problema dell'oscillazione o della scelta individuali si riscontra nelle aree del che, e soprattutto nell'area fiorentina e perifiorentina, dove la base di partenza per la riflessione sull'uso è il francamente dialettale icché ora in crisi se il parlante si posiziona sull'italiano, con buona pace di Fanfani e Arlia.
Per rimanere ancora in Toscana, come non dare valore all'attribuzione di “formalità” a cosa, rispetto ovviamente all'endemico che, da parte di un informatore anziano e istruito di Arezzo – che offre anche “che se fa” come corrente, informale – che va a saldarsi con lo stesso giudizio di un leccese istruito appartenente alla fascia più giovane?
Del resto si ribadisce qui quanto detto prima citando dal DISC che offre, alla voce cosa, una sintesi ad un consultatore, anche non specializzato, che cerchi conforto sull'uso:
L'uso di cosa, con valore di pronome neutro interrogativo ed esclamativo, invece di che cosa o al posto di che, ripreso dai puristi, ha una spiegazione (evita il ripetersi a distanza dello stesso suono iniziale), è di antica data e ha trovato accoglimento in Manzoni e, in genere, nella letteratura moderna [...(seguono tre citazioni da Manzoni, Pascoli, Vittorini)]
e ancora alla voce che2:
L'oscillazione tra che, che cosa e cosa (per eliminazione di che, indotta dal fastidioso ripetersi del suono iniziale) è di antica data: dall'inizio del '600 si attesta l'uso del semplice cosa.
La riflessione sull'uso indicherebbe per il parlato comune informale un movimento lento nell'accoglimento di cosa, rispetto alla lingua letteraria che pare consolidarsi nel tempo in questa scelta, laddove non è frutto della semplificazione “tradizionale” (tipica delle città del Nord o orientate verso il Nord e la Sardegna). E anche limitandosi al solo dizionario portato ad esempio, leggiamo in filigrana la storia delle posizioni verso l'una o l'altra possibilità e la bilancia potrebbe pendere a favore di cosa, non però per gli informatori della LinCi che restano sostanzialmente legati alla forma locale, anche se, nel complesso degli usi e azzerando la diatopia, “La forma cosa ha guadagnato vistosamente terreno rispetto allo standard ancien régime che cosa e che, come pronome interrogativo neutro [...]”, come scrive Berruto.
Per approfondimenti:
Annalisa Nesi
Piazza delle lingue: La variazione linguistica
10 maggio 2013
Evento di Crusca
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