Ci sono pervenute domande circa l’origine e il significato dell’espressione buon senso.
Il buonsenso, scrive lo Zingarelli 2020, è “la capacità di comportarsi con saggezza e senso della misura, attenendosi a criteri di opportunità generalmente condivisi”. La parola vi è lemmatizzata, come in quasi tutti gli altri dizionari, in forma univerbata, ma resta sua variante ammessa, ovviamente, quella in grafia disgiunta, largamente usata e ancora prevalente, ad esempio, nei romanzi del Premio Strega interrogabili col PTLLIN (80 contro 16) e usata dai nostri lettori. Buonsenso è ascritta dunque alla tipologia delle parole composte (Aggettivo + Nome), separata dal dominio principale (in italiano) del senso (come modo e organo della percezione fisica) di cui è un’estensione figurata, come lo sono “senso critico” o “senso della misura” (in cui c’è però soprattutto la valenza di “attitudine intellettuale o morale”), unità polirematiche che il Sabatini-Coletti (mi scuso per l’autocitazione) colloca in appendice alla voce senso, in particolare all’accezione figurata che lo definisce “capacità di sentire, di comprendere e di discernere sul piano intellettuale e morale”. Senso è infatti una parola, che, dai cinque sensi con cui si sente, avverte, percepisce qualcosa, ha sviluppato (già nel suo etimo latino sensus) altri significati più astratti, legati alla conoscenza e al comportamento umano. Si dice che oltre ai cinque sensi ce ne sia un sesto. In realtà ce ne sono ben di più. Alcuni sono propri di un singolo individuo (come il “senso pratico”), altri sono patrimonio collettivo (il “senso comune”), altri ancora stanno a metà strada tra la proprietà individuale e la condivisione pubblica e tra questi c’è appunto il buon senso o buonsenso. Questo quanto al significato. Veniamo ora all’origine.
Il buonsenso quale lo intendiamo oggi ci induce a chiederci: ma qual è o qual era anticamente il senso buono? Era, potremmo rispondere, il sesto, ovvero il più importante tra i tanti sesti sensi, quello che coincideva col significato di ragione. Il valore di senso come ‘ragione, discernimento’ (già compreso, come appena detto, nell’ampio spettro semantico del latino sensus) è nelle lingue romanze di origine francese (come di origine francese è il sinonimo italiano oggi disusato, senno ‘sapienza, saggezza’), attestato già nel xii secolo, ma che in Italia ha circolato poco e dopo. In verità ce n’è qualche piccola traccia in un autore francesizzante come Brunetto Latini, che nel Tesoretto scrive: “E poi ch’io veggio e sento / ch’io vado a perdimento / seria ben for di senso / s’io non proveggio e penso / come per lo ben campi / che lo mal non m’avampi” (‘poiché mi accorgo e capisco che vado in perdizione, sarebbe fuori di ragione, irragionevole se non mi premunissi e non pensassi come salvarmi col bene in modo da non farmi catturare dal male’). Ma Dante nel Convivio I, 4, dove pure usa un altro, importante ancora oggi, valore figurato di senso (anch’esso già latino), limitrofo a quello qui in questione, quello di ‘significato di una parola, di un testo, di un gesto ecc.’ (“senso letterale”, “una cosa senza senso”, “non si capisce il senso di questa decisione”, “in un certo senso”), oppone, come quasi tutti i suoi contemporanei, senso (dei cinque sensi) a ragione: “la maggiore parte delli uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli”. La valenza razionale di senso si poteva cogliere però già in certi usi medievali della parola col valore generico di ‘intelletto, intelligenza, sentimento superiore’ (Petrarca, Canzoniere, CCCLXVI: “Vergine d’alti sensi”), ma soprattutto nella definizione filosofica di senso comune, assai diversa da quella oggi corrente di ‘diffuso, prevalente modo di sentire, di giudicare, non necessariamente ragionevole o razionale’ (nelle Questioni filosofiche di fine Duecento registrate dall’OVI si leggeva: “la rasgione overo el giudicio, el quale se chiama el senso comune inperciò ke iudica de tutte le sensora”), oltre che, paradossalmente, in quella del suo contrario implicito nell’aggettivo insensato (Dante, Pd XI, 1: “O insensata cura de’ mortali”).
Lo sviluppo di senso verso il significato di ‘ragione, discernimento’ è stato comunque lento, tanto che non è davvero mai stato isolato dalla Crusca, anche se dalla IV edizione in poi il Vocabolario dell’Accademia ne registra una traccia nell’Orlando furioso I: “Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore”, più o meno negli stessi anni in cui (secondo il GDLI) Annibal Caro attesta l’aggettivo sensato nel senso di ‘ragionevole, di buon senso’.
Il passaggio di senso al significato del suo quasi omonimo senno (nel Decameron VI 6: “io credo fermamente che egli non sia in buon senno”, cioè mentalmente lucido) avviene proprio grazie all’incontro con l’aggettivo buono (che il francese associa al nome già nel XII secolo), cioè in una locuzione, così come gli era capitato incontrando comune. L’equivalenza tra buon senso e “buon uso di ragione” risalirebbe, secondo il GDLI, a Cartesio nel Discours de la méthode del 1637 (“la puissance de bien juger, et de distinguer le vrai d’avec le faux, qui est proprement ce qu’on nomme le bon sens ou la raison”), ma in realtà è precedente, sia (di molto) in francese (secondo Le Robert, Dictionnaire historique de la langue française, si trova già nel 1167), sia (di poco) in italiano, di cui del resto lo stesso GDLI porta testimonianza da uno scritto di Paolo Sarpi anteriore al 1616 (suppongo che sia a questo testo che si riferisce la datazione 1611 del GRADIT), in cui il significato della locuzione è quello di ‘fondamento razionale’: “Quanto alla terza delle constituzioni e sentenzie, non ha alcun buon senso”.
Ma il successo del buonsenso, a lungo non univerbato e a volte anche con tanto di maiuscola, esplode nel XVIII secolo, quando si presenta come una variante familiare della ragione illuminata. Da allora però inizia anche il suo scivolamento verso il senso comune, ora inteso sempre più spesso come generico ‘sentire, opinione della maggioranza’: una deriva semanticamente e culturalmente pericolosa, che rischia di smarrire una differenza importante, perché il buonsenso inteso come uso moderato, equilibrato della ragione non coincide, purtroppo, col senso comune, come ci ricorda il Manzoni del XXXII dei Promessi sposi: “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
Manzoni parlava della peste; un discorso tornato oggi, in piena epidemia di coronavirus, tristemente d’attualità. Speriamo che, diversamente dal Seicento, il buonsenso o buon senso non abbia timore del senso comune e prevalga oggi su di esso!
Vittorio Coletti
3 aprile 2020
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