Ci sono cose che costano l’iradiddio!

Una lettrice ci scrive da Melbourne chiedendoci se “si può utilizzare il modo di dire l'ira di Dio per parlare di qualcosa che costa tanto”.

Risposta

Per ira di Dio (s.v. ira) il GRADIT riporta i seguenti significati:

  • ‘Persona o cosa terribile e molesta’ (quel ragazzino è un’ira di Dio, con funzione aggettivale; dire un’ira di Dio su qualcuno: dirne tutto il male possibile)
  • ‘Grande confusione, finimondo’ (fare, scatenare un’ira di Dio)
  • ‘Prezzo spropositato’ (quell’automobile costa un’ira di Dio).

Tutti i principali dizionari riportano concordemente le prime due accezioni della locuzione, ma non tutti riportano il significato di ‘costo eccessivo’: lo Zingarelli 2018 registra iradiddio univerbato (cioè con grafia unita) e col valore di ‘ira di Dio in senso figurato, grande quantità (c’era un’iradiddio di gente)’; lo stesso fa il Vocabolario Treccani online (s.v. ira). Il Devoto-Oli 2018 (s.v. iradiddio) scrive ‘quantità enorme, caterva’: è costato l’iradiddio; si scatenò un’iradiddio di fischi. I vocabolari che riportano la locuzione le associano la marca d’uso “familiare, colloquiale” e simili; dunque si tratta di un uso espressivo, vivo soprattutto nell’italiano informale, caratterizzato come un vero e proprio “modo di dire”.

Da quanto detto sappiamo che la grafia di questa locuzione non è sempre univoca: l’espressione infatti risulta talvolta univerbata nella forma iradiddio, diventando sostantivo femminile (Zingarelli, Devoto-Oli ecc.), come indicato anche dalla possibilità dell’uso dell’articolo indeterminativo (un’iradiddio); possibilità, che contribuisce verosimilmente a rafforzare nei parlanti la tendenza a categorizzare la locuzione come vero e proprio sostantivo.

L’univerbazione è naturalmente il risultato dell’altissima frequenza della locuzione nell’uso. La forma Iddio per Dio, evidente nella forma univerbata, è variante toscana e letteraria, che deriva dall’assimilazione della l della preposizione (del) con la d iniziale di Dio, fatto che origina il raddoppiamento della d, come avviene anche nella sequenza con l’articolo: il Dio> Iddio (cfr. DELI, s.v. iddio).

La fortuna e la successiva cristallizzazione del sintagma ira di Dio (o iradiddio) nell’uso informale e colloquiale derivano dal suo impiego frequente in contesti di ambito religioso; il DELI scrive: «l’ira di Dio è espressione biblica (specie del Nuovo Testamento: “sed ira Dei manet super eum”, Joan. 3,36; “Revelatur ira Dei”, Rom. 1,18; “Ira Dei in filios”, Ephes. 5,6 ecc.)». Spesso nei testi biblici l’ira di Dio è rappresentata come una furia vendicatrice e punitiva che si manifesta in disastri naturali o eventi straordinari; probabilmente da questo tipo di usi è derivato il significato, presente in tutti i dizionari, di ‘confusione’, ‘finimondo’ (e da qui ‘persona terribile, molesta’).

Una ricerca sulle banche dati della Biblioteca italiana e del corpus OVI mostra il sintagma ira di Dio cristallizzato soprattutto in testi di di argomento religioso (predicazioni ma non solo), fin dalle Origini: come prima attestazione troviamo Bono Giamboni, Storie contra i pagani di Paolo Orosio volgarizzate (anteriore al 1292), e altre occorrenze sono nel Quaresimale fiorentino di Giordano da Pisa, del 1305-06 (espressione ricorrente in questo testo è “somma ira di Dio”) e nelle Prediche dello stesso autore, nell’Esposizione del simbolo degli apostoli  del frate Domenico Cavalca, del 1342 (“gli parea la maggiore ira di Dio ch’egli mai provasse”, L.1, cap.38), nella Bibbia volgare secondo la rara edizione del I di ottobre MCCCCLXXI (a cura di Carlo Negroni) e in altri ancora.

La locuzione compare anche in testi letterari molto noti (impiegata sempre in riferimento all’‘ira divina’ in senso proprio): nel Fiore, attribuibile a Dante, nel Trattatello in laude di Dante di Boccaccio, e soprattutto nei testi canonici delle cosiddette “Tre Corone”: ossia nella Commedia dantesca, Inferno, III, v.122: “quelli che muoion nell’ira di Dio / tutti convegnon qui d’ogne paese” (da qui, naturalmente, l’espressione passa in alcuni commenti alla Commedia, come quelli di Boccaccio, Maramauro, Jacopo della Lana, l’Ottimo), nel Canzoniere di Petrarca (sonetto CXXXVII, v.2: “L’avara Babilonia à colmo il sacco / d’ira di Dio, e di vitii empii et rei, / tanto che scoppia, ed à fatti suoi dèi / non Giove et Palla, ma Venere et Bacco”), nella celebre descrizione della peste della prima giornata del Decameron di Boccaccio (“[la peste] da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali”; “quasi l’ira di Dio, a punire l’iniquità degli uomini, con quella pestilenza non dove fossero procedesse") .

Senza dubbio la fama di tali autori e delle loro opere avrà contribuito alla diffusione e alla cristallizzazione di questa locuzione (il Vocabolario degli Accademici della Crusca non la riporta esplicitamente, ma la cita all’interno di altre voci in numerose citazioni dei passi di Petrarca e di Boccaccio sopra indicati), anche se il maggior “motore” della diffusione è stato probabilmente l’opera dei predicatori che, grazie ai volgarizzamenti, ha reso familiari i testi sacri anche a livello popolare.

Come si può notare dagli esempi citati, il riferimento all’ira di Dio è spesso accostato a termini che esprimono ‘grande quantità’, proprio a sottolineare l’enormità e le ingenti conseguenze del furore divino per gli esseri umani (“somma ira di Dio”, “la maggiore ira di Dio”); in particolare i versi del Petrarca (“L’avara Babilonia ha colmo il sacco d’ira di Dio […] tanto che scoppia”) sono particolarmente adatti a esemplificare il passaggio dall’accezione biblica a quella legata alla necessità di sottolineare l’eccesso; da qui si è probabilmente avuta l’ulteriore estensione del significato fino ad arrivare a quella legata a uno degli ambiti più espressivi della lingua quotidiana, quello legato al denaro.

La vitalità della locuzione nell’uso informale è senza dubbio panitaliana (come vedremo in seguito), ma per quanto riguarda il significato di ‘spesa insostenibile’, specificamente legato al mondo dei soldi, è sicuramente presente nell’uso dialettale toscano e fiorentino in particolare, come testimonia il Vocabolario del fiorentino contemporaneo: “iradiddio: sost. femminile; grande quantità di qualcosa, spesso in dipendenza di verbi come volerci, costare e simili”.

L’accezione di ‘grande quantità’ sembra essere entrata nell’uso scritto, e dunque nei vocabolari, soltanto nel secolo scorso: il GDLI, s.v. ira, scrive: “giustizia punitiva di Dio, castigo divino (per lo più nell’espressione ira di Dio); figur. Famil. (anche iradiddio)”, e riporta, tra gli altri, anche il significato di ‘quantità enorme, caterva’: per questa accezione, la prima attestazione risale a Antonio Baldini, in Fine Ottocento, Firenze, 1947 (l’autore, di madre toscana, nacque, si formò e operò prevalentemente a Roma, dove pure l’espressione è ben viva): “Che iradiddio di punteggiatura, che interrogativi a cavaturacciolo, che tripudi di cornetta impazzita, che sgraziato finale di grancassa!”.

Una possibile conferma che l’accezione legata all’enorme quantità sia relativamente recente, almeno nell’uso scritto, è data dall’assenza in due vocabolari che descrivono il lessico toscano e fiorentino della fine dell’’800, pur con scopi diversi: il Vocabolario dell’uso toscano di Pietro Fanfani (Firenze, Barbera, 1863), opera che si propone di illustrare voci tipiche dell’area toscana, anche dialettali e “marginali”, e il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze di Giovan Battista Giorgini e Emilio Broglio (1877-1897), che costituisce il tentativo di diffondere un modello linguistico italiano a partire dall’uso colto fiorentino (sulla scia della proposta manzoniana). In entrambe queste opere l’espressione è riportata, ma non nel valore di ‘grande quantità’. Il Giorgini-Broglio registra l’espressione “pezzo d'ira di Dio, tocco d'ira di Dio, ‘di persona cattivissima’”; mentre il Fanfani indica, sotto la voce ira: “Dire ira di dio di qualcuno: dirne tutto quel peggio che si può; che alcuni dicono pure latinamente ira Dei. Pezzo d’ira di Dio: poi dicesi ad uno per dargli del furbo, del tristo o simili. È di uso continuo”; cita a titolo di esempio alcuni versi di Pananti (Opere, I, 343), autore toscano,  originario di Ronta (provincia di Firenze), ma non indica tale espressione come specificatamente fiorentina.

Un legame con l’immagine originaria dell’ira di Dio si trova ancor oggi nell’accezione indicata nel Dizionario dei modi di dire della lingua italiana a cura di Monica Quartu e Elena Rossi, Milano, Hoepli, 2012: “situazione rovinosa, calamità in genere naturale provocata da fenomeni, soprattutto meteorologici, eccezionali per vastità e durata, come ad esempio nevicate o piogge abbondanti e ininterrotte che colpiscono un intero Paese”).

Una trattazione abbastanza ampia riguardante l’ira di Dio è anche nel Dizionario dei modi di dire di Ottavio Lurati, Milano (Garzanti, 2001), s.v. Dio: “Nel linguaggio informale ira di Dio significherà spesso anche ‘pandemonio, disastro, baraonda’“ (pp. 240-241). Lurati cita come esempi letterari di questa accezione testi di Pirandello (Novelle per un anno, ed. 1958) e quello di Baldini. Inoltre aggiunge: “per molte donne e anche uomini di Calabria è un’ira de Dio ‘un uomo pessimo, una calamità’, mentre fare l’ira di Dio è ‘lo sparlare, infuriare, fare il diavolo a quattro’.[…] Anche tra siciliani fari l’ira di ddiu è ‘provocare un pandemonio’, ‘non darsi pace’, ‘lasciarsi prendere dagli impegni fino a struggersi’, […] così come un castiu di ddiu è un’enorme quantità, un subbisso: si raggiunge lo stesso semantismo di ira di Dio”.

Lo stesso autore affronta anche il significato che ci interessa: “Oggi il linguaggio espressivo ricorre – quando vi ricorre – al nesso ira di Dio soprattutto con volontà elative, enfatizzanti: costa l’ira di Dio ‘una cosa venduta a un prezzo molto alto’.

La forma iradiddio o ira di Dio è ancora vitale nella lingua di tutti i giorni, quando si voglia usare un linguaggio colorito, con scopi enfatici, anche nello scritto, anche nella lingua dei giornali. Nell’archivio di “Repubblica” (che comprende gli articoli pubblicati dal 1984 a oggi) la forma univerbata iradiddio è attestata più di duecento volte, in tutte le sue accezioni.

Per quanto riguarda specificamente costare l’ira di Dio/l’iradiddio (includendo anche un’ira di Dio / un’iradiddio), nello stesso corpus di “Repubblica” ne troviamo otto esempi. Si noti che tutte le occorrenze (meno una) fanno parte di citazioni di parole riportate, e che sei esempi su otto riportano frasi di persone dell’Italia centro-settentrionale. Riportiamo alcuni passi:

Sei Toscana [nome di un’azienda di trasporti] costa l'ira di Dio, è tutta colpa della Regione… (Franca Selvatici, Inchiesta Ato: un patto tra controllori e controllati, parole di Andrea Corti, presidente Ato Toscana Sud, 11/11/2016, sezione Cronaca).

Confalonieri ha anche parlato di Michele Santoro: “Lui da noi? Per carità, costa un'ira di Dio” (Gabriele Isman, Sbagliato chiamarle toghe rosse, però la Boccassini perseguita Silvio, parole di Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, 26/03/2011, sezione Politica interna).

Un esperimento già effettuato nel '97, sul Vesuvio. E che costa l'iradiddio: cento milioni al giorno, solo per l' utilizzo della nave oceanografica (Giantomaso De Matteis, La nave simula terremoto, ‘Noi in regola, il Comune’… 19/09/2001, sezione Napoli).

L'Europa per ora resta un' Europa monetaria e così come è a noi padani costa un'iradiddio (Guido Passalacqua, Bossi dice no all’Europa Costa troppo ai padani, parole di Umberto Bossi, 27/03/1998).

Una veloce ricerca in Google libri fornisce alcuni spunti per capire la diffusione di questo modo di dire nell’uso attuale: costa l’iradiddio ha due sole occorrenze, mentre con la forma non univerbata (costa l’ira di Dio) ne conta 202; costano l’iradiddio è attestato 24 volte, contro le 123 occorrenze di costano l’ira di Dio. L’uso con l’articolo indeterminativo risulta decisamente minoritario, almeno in questo corpus (a titolo di esempio, costano un’ira di Dio ha 35 attestazioni, e costa un’iradiddio 10). Pur non restituendo moltissime occorrenze, almeno per lo scritto, possiamo affermare che la forma univerbata iradiddio (e la sua percezione come sostantivo) è comunque diffusa.

Si tratta sempre di contesti particolari, in cui la lingua scritta si avvicina all’oralità (si è visto che molte sono all’interno di interviste o di citazioni, come anche in “Repubblica”): a titolo di esempio si può citare Grillo in parole povere, di Toni Jop (2014), in cui si riportano le parole di Beppe Grillo in un video messaggio (“[gli avvocati] mi costano l’iradiddio”); o ancora il testo Ci sono posti molto più felici di questo, di Andrea Pirro, 2016, sempre all’interno di un dialogo (“non bisogna farsi ingannare dal prezzo della benzina che qui costa meno dell’acqua minerale… tutto il resto costa l’ira di Dio”).

Il sintagma l’ira di Dio, dalla storia lunga e anche prestigiosa, sembra aver subito negli ultimi tempi un certo declino e oggi l’espressione si ritrova soprattutto in specifici contesti e registri caratterizzati da espressività e informalità; tra gli usi relativamente vitali c’è il riferimento a un ‘costo eccessivo’. Va anche detto che l’espressione costare l’iradiddio risulta diffusa e utilizzata, seppur con tali limiti, in diverse aree geografiche del Paese (particolarmente al centro-Nord, ma anche al Sud) e la si trova anche nelle parole di personalità note (sempre con l’intento di porre l’accento, in modo espressivo, sull’enormità di una spesa).

Concludiamo con una curiosità: non è raro che i parlanti interpretino la locuzione l’ira di Dio segmentando la catena fonica in modo diverso e originale, ossia come lira di Dio. Da una ricerca in Google infatti lira di Dio risulta avere non poche occorrenze (13.400 circa). Tale alternativa, in una società ormai secolarizzata e consumistica,  risulta evidentemente,  a chi la usa, più “coerente” con la semantica legata al denaro (costare, pagare tot lire), visto che tira in ballo la vecchia moneta italiana: su Google risultano 475 risultati (in riviste online, blog, siti) per costa lira di Dio.

Ritenendo perfettamente coerente questa “etimologia” del detto, alcuni parlanti (forse scherzosamente) hanno avvertito l’esigenza di un nuovo modo di dire più “aggiornato” in materia finanziaria: costa l’euro di Dio, o eurodiddio (rispettivamente cinque e sei risultati su Google), come nell’esempio seguente, tratto dal libro EGOnomia, di Gabriele e Vittorio Magrì (Youcanprint, 2014) presente in Google libri: “La benzina che costa l’ira di Dio (o era lira di Dio?... E se fosse l’euro di Dio? Boh…)” .  

 

A cura di Alice Mazzanti
Redazione consulenza linguistica
Accademia della Crusca

 

11 settembre 2018


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