Alcuni frequentatori del nostro sito pongono alcuni quesiti sulla coniugazione di tre verbi: coalescere, quiescere e acquiescere.
Si tratta di tre verbi di trasparente origine latina. Il più interessante, e l’unico di una qualche vitalità, è coalescere; il verbo latino coalescĕre, uno dei numerosi corradicali di alĕre ‘nutrire’, valeva ‘crescere insieme, congiungersi’. Già nel XVIII secolo dal verbo latino si è ricavato in italiano coalescenza, dapprima nell’accezione medica di ‘aderenza patologica’, poi in quella, fisica, di ‘tendenza di gocciole immerse in un liquido diverso ad aggregarsi a gocce più grandi’ ma anche in accezione generica di ‘fusione, aggregazione’. Ecco tre esempi molto diversi.
Il primo, settecentesco, fu pubblicato nella rivista “Il caffè” da Alessandro Verri ed è una beffarda caricatura della pretesa di descrivere qualsiasi fenomeno sociale in termini rigorosamente scientifici (in questo caso matematici): un Trattato matematico-logico-politico sulle riverenze dovrebbe rappresentare la pratica degli inchini
in base all’angolo a cui [gli uomini] sono abituati nel far riverenza ad altri. Farò molto vedere come la perpendicolare dinoti divisione di beni e l’orizzontale coalescenza dei medesimi.
Gli altri due, recentissimi, sono tratti dall’archivio del giornale “la Repubblica” e trattano rispettivamente di una mostra di artiste molto innovative e del cambiamento di direzione nella rivista “Il Mulino”:
non esiste in realtà nemmeno il “NOI”. Esiste un equilibrio provvisorio, fragile, di coalescenza tra cose diverse. (Antonella Marino, 2/6/2019)
coalescenza improvvisa di umori e dissensi di diversa natura, ma significativa: proprio nel momento più drammatico del letale immobilismo italiano. (Michele Smargiassi, 26/10/2011)
Coalescenza, dunque, è una parola radicata ampiamente in italiano: sia per età (ha tre secoli di storia sulle spalle), sia per la varietà degli usi (la polisemia è sempre segno della buona vitalità di una parola). Del tutto normale, allora, che sorga la necessità di articolarne il campo nozionale attraverso la duttilità di un verbo e allo scopo risponde l’infinito coalescere, che potevamo considerare virtuale in italiano: qualsiasi parlante è in grado di riconoscere, o di formare lui stesso, correlazioni come reggere – reggenza o coesistere – coesistenza (non importa, ora, se sia attestato prima il sostantivo o il verbo). Un’analoga esigenza non si è prodotta per verbi correlati, ad esempio, a incandescenza (nonostante il lat. incandescĕre) e recrudescenza (nonostante il lat. recrudescĕre), perché si tratta di parole meno “importanti”, cioè di significati più circoscritti. Coalescere, invece, è perfettamente funzionale in una frase che un nostro corrispondente, lo studente di ingegneria aerospaziale Ferdinando B., ci propone: “Le curve caratteristiche coalescono in un punto”.
Fin qui tutto chiaro. Ma il signor Ferdinando e altri si chiedono: esiste il participio passato di coalescere? E il passato remoto? Qual è la coniugazione di altri due latinismi come quiescere e acquiescere?
Per rispondere dobbiamo premettere che le voci verbali, anche di un verbo molto comune, hanno un diverso statuto di frequenza: in generale, i modi verbali più usati sono l’infinito, l’indicativo, il gerundio, il participio (passato), l’imperativo; dei tempi, il presente, il futuro, il passato prossimo, il trapassato prossimo (rarissimo il passato remoto, che sconta il generale declino nell’italiano contemporaneo, tranne poche aree); delle persone è molto meno comune la quinta (chi di noi dice abitualmente steste e beveste o anche berreste, beviate, rispetto alle innumerevoli volte in cui ci capita di usare altri tempi verbali come stavate, o avete bevuto?).
I verbi dei quali si usano solo alcune forme si chiamano in grammatica “difettivi”. Qualche volta si tratta di verbi che, in quelle poche forme, sono di uso comune, per esempio si addice o si addicevano (l’antico participio addetto si è staccato dal paradigma ed è un sostantivo autonomo: “gli addetti ai lavori”). Ma in generale si tratta di latinismi, che hanno conosciuto isolate attestazioni in italiano antico; alcuni di essi hanno avuto corso più a lungo nella lingua poetica, per esempio tepere ‘diffondere un piacevole calore’ (lat. tepēre), che piacque ancora al Carducci in una delle Odi barbare (Presso l’urna di P. B. Shelley, 46: “odora e tepe e brilla la primavera in fiore”) e, probabilmente per suo tramite, si trova ancora in Marino Moretti.
A questa categoria appartengono anche quiescere con i composti acquiescere e requiescere. Solo antichi gli esempi, ottenibili attraverso il Grande dizionario della lingua italiana di S. Battaglia (GDLI), ora consultabile online, o i motori di ricerca: “Ogni intelletto qui quiesca e dorma” (Cecco d’Ascoli, XIV secolo), “mai però quiescono” (Alberti, Libri della famiglia), “A le quali parole acquiescendo el Bazza, el frate uscie de la cella” (Sabadino degli Arienti, XV secolo), “sì ch’e’ voli e requiesca” (Lorenzo de’ Medici), “più che cibo appetiva di quiescere” (Scroffa, poeta pedantesco del Cinquecento), “ad soi pareri non repugnemo; acquiescamo alli soi consigli” (Equicola, XVI secolo; repugnemo e acquiescamo sono congiuntivi), “è impossibile che mai acquieschino e stieno pazienti” (Machiavelli; anche qui due congiuntivi).
Come si vede, le forme anticamente documentate di quiescere e composti sono il presente, indicativo e congiuntivo, l’infinito e il gerundio: nessuna traccia di condizionale, per esempio, o di participio passato. Trattandosi di arcaismi, è forse possibile in parlanti colti (o saccenti) un uso scherzoso che ridia momentanea vita a singole forme attestate nel passato, per esempio l’infinito quiescere; nulla più di questo.
Luca Serianni
19 marzo 2021
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