Alcuni lettori, per lo più toscani, ci chiedono se l’uso di meritare nel senso di ‘convenire’ sia di lingua o non si tratti invece di un regionalismo. Altri chiedono quale sia l’ausiliare di meritarsi.
Cominciamo dalla costruzione di meritare e dai suoi significati. Meritare è verbo prevalentemente transitivo e significa, oggi, ‘essere degno di avere, di ricevere qualcosa’: “tu meriti una promozione, una punizione”, “sono parole che non meritano attenzione”.
Meno spesso significa anche ‘rendere degno, meritevole qualcuno di qualcosa, dargli quanto gli spetta’: “il gesto gli ha meritato un encomio”, un significato che anticamente era espresso pure dal costrutto intransitivo: “Verrà a giudicare e li vivi e’ morti, e meriterà a ciascuno secondo ch’avrà servito” (dal GDLI, Storia dei Santi Barlaam e Giosafatte, I-13).
Il complemento diretto può essere espresso anche da una frase completiva, prevalentemente implicita introdotta da di: in questo costrutto il verbo ha il significato di ‘valere la pena’ o anche solo di ‘valere’: “la proposta merita di essere ascoltata”; la completiva esplicita non è comunque impossibile: “questo impiego non merita che si sia fatta così tanta fatica (per averlo)”. Anche il soggetto può essere espresso da una frase implicita o esplicita, come in “sono persone ignoranti; non merita occuparsene”, “sono premi cospicui; merita che vi si concorra”.
Da questo costrutto, con lo stesso significato, si è sviluppata (il GDLI la attesta già dal Settecento, citando il Muratori: “Merita che si rammenti un’altra nazion parimente settentrionale”) una costruzione fortemente ellittica, con soggetto e complemento sottintesi, come in: “leggi questo libro, merita” (sott. “il libro”, soggetto, e “che sia letto”, complemento diretto espresso da frase; ma il tutto è anche interpretabile con il solo sottinteso di “leggerlo”, nel ruolo di soggettiva); “ti arrabbi troppo per questa perdita; non merita” (sott. il soggetto “la perdita”, e il complemento in forma di frase, cioè “che tu ti arrabbi”; anche qui però la completiva è interpretabile come soggettiva, cioè “che tu ti arrabbi non vale la pena”); “assaggia queste ciliegie, merita” (sott. “assaggiarle” nel ruolo inequivocabile di soggettiva): questa costruzione è frequente soprattutto nel parlato o nella sua simulazione scritta: “Vieni che merita, mi disse” (Pavese, La bella estate). Interpretando in questi usi testuali di meritare la completiva sempre e solo come soggettiva, alcuni dizionari (Zingarelli, GRADIT) li classificano come impersonali. Non è per altro sorprendente né sbagliato che un lettore usi il termine intransitivo; del resto come intransitivo impersonale lo classifica lo Zingarelli. Oggi, per altro, meritare intransitivo è prevalentemente monovalente, integrato da avverbi (“ha ben meritato”, “ha meritato poco”) e ha la valenza solo positiva di ‘essere degno di apprezzamento, riconoscimento’: “nella corsa Carlo non ha vinto, ma ha ben meritato”.
Dal costrutto e significato di meritare come ‘valere (la pena)’ si deve essere sviluppato il toscanismo col senso e la costruzione del sinonimo ‘convenire’, ‘essere vantaggioso, utile a qualcuno’, segnalato da una lettrice di Arezzo (tipo mi merita fare): un regionalismo da evitare nella lingua nazionale scritta, anche se, lo abbiamo visto, in passato meritare (intransitivo) reggeva pure il terzo caso. In Dante (Inf. XXVI, 80) si dava persino col secondo, nel senso di ‘acquisire meriti verso qualcuno’: “O voi che siete due dentro ad un foco, / s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, / s’io meritai di voi assai o poco”. Ma sono usi usciti da tempo dalla lingua.
Quanto all’ausiliare di meritarsi basterà ricordare che i verbi pronominali vogliono sempre essere e quindi me lo sono meritato e non *me l’ho meritato. È sufficiente riformulare la frase sostituendo al pronome lo un nome qualsiasi (ad esempio: “il rimprovero”) per vedere facilmente l’ausiliare ammissibile: “mi sono meritato il rimprovero” (difficilmente verrebbe da dire “*mi ho meritato il rimprovero”). Il fatto che anticamente fosse usato l’ausiliare avere con verbi pronominali (“la donna che tanto pietosa ci s’hae mostrata”, Dante, Vita nuova) e che se ne trovino esempi proprio con meritarsi almeno già dal Cinquecento (Google libri riporta una Comedia di Secondo Tarentino del 1551, Il capitan Bizzarro: “voglio che il guiderdon mi doni / tosto che me l’ho meritato”) e che il tipo mi ho meritato ricorra in testi meridionali e veneti dal Settecento in poi (Alfonso Maria de’ Liguori: “io so’ certo che mi ho meritato l’inferno”) non ne legittima l’uso oggi, pur favorito, nelle aree menzionate, dal retroterra dialettale. Me lo sono meritato, forma corretta, è, tra l’altro, anche largamente maggioritario su Google e a questa forma è dunque bene attenersi.
Vittorio Coletti
27 luglio 2021
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