Come si costruisce valere la pena? Vale la pena di rispondere o vale la pena rispondere?

Sono arrivate al nostro servizio di consulenza molte domande sulla costruzione della locuzione valere la pena: la locuzione seguita da un verbo all’infinito, regge la preposizione di? Valere la pena deve essere accordato in genere e numero?

Risposta

Valere la pena è una locuzione verbale, usata prevalentemente in forma impersonale, formata da un verbo (valere) e un sostantivo (pena) legati da una forte coesione sia sul piano strutturale sia a livello semantico: dal punto di vista sintattico gli elementi della locuzione sono vincolati dalla indivisibilità, ovvero la loro sequenza non dovrebbe essere interrotta con l’inserimento di altre parole (in generale non è una forma accettabile, ad esempio, *valere la grande pena, benché in rete si rintraccino stringhe del tipo “ne vale la fottuta pena”, “valere la cazzo di pena”, segno di un cedimento, almeno nella varietà informale-trascurata), anche se tale vincolo non condiziona l’inserimento di avverbi tra verbo e nome per cui, ad esempio, sono ammissibili stringhe come valere davvero/proprio la pena; a livello semantico il significato dell’espressione è dato complessivamente dall’unione degli elementi e corrisponde a quello di ‘meritare’, ‘convenire’, lo stesso che ritroviamo in altre locuzioni costruite sempre con il verbo valere come valere la candela, valere la fatica, valere la posta, valere la spesa. Le locuzioni verbali, come spesso accade per le espressioni cristallizzate, sono solitamente più frequenti nel parlato e facilmente risentono dell’influenza di altre lingue o incidono su di esse.

Anche la storia di valere la pena rivela questi contatti, in particolare con il francese valoir la peine (de), per cui l’attestazione della locuzione per entrambe le lingue si può far risalire tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento. Alcuni dizionari sincronici (Vocabolario Treccani online, Devoto-Oli 2023) mantengono il riferimento alla locuzione francese come calco per la formazione della corrispondente forma italiana, ma già Andrea Dardi, a cui mi piace rivolgere un ricordo affettuoso a pochi mesi dalla scomparsa, in un bell’articolo su “Lingua nostra” (XLIV, 1983, p. 51) dedicato all’influsso del francese sull’italiano, citava come precedente italiano un passo rintracciato in una lettera del 1577 di Filippo Sassetti, mercante, viaggiatore e linguista fiorentino (“Quando altro bene non uscisse..., sì var­rebbe la pena del tirare avanti questo commerzio”). Questa, in effetti, la prima attestazione in italiano riportata dai dizionari (DELI, GDLI, GRADIT), mentre per il francese, sempre seguendo le ricerche di Dardi, si arriva al 1590 circa (FEW IX 115b); il TLFi (s.v. Valoir) data la prima attestazione di valoir la peine (de) indicativamente al 1625, quindi in un periodo ancora posteriore, in un testo di Théodore Agrippa d’Aubigné (1552-1630). A prescindere da questi minimi scarti temporali, resta il dato storico per cui la locuzione si è affermata nell’uso solo nel XVIII secolo inoltrato ed è stata a lungo riprovata dai puristi proprio come francesismo. Lasciando da parte le antiche dispute, risulta ancora attuale e illuminante la nota di Ettore Marcucci, curatore dell’edizione ottocentesca (1855, Felice Le Monnier) delle Lettere edite e inedite del Sassetti, alla locuzione:

Varrebbe la pena. È il cela en vaut bien la peine dei francesi. Opportuno esempio, se non altro, per difendere l’ormai universale uso di questa frase dalle maledizioni de’ linguaiuoli, a cui pare ogni cosa che sappia tantino di forestiero, senza badare che certe forme comuni ancora ad altre moderne favelle partono da un comune principio, come ce ne avrei da mostrare un sacco e una mina, che non ci vennero di Francia, ma che essi e noi le abbiamo attinte da un medesimo fonte latino e provenzale.
Il Sassetti ce ne offrirà ancora parecchie delle nuove, e per quando capiteranno, valga quest’avviso di Vincenzo Borghini: “Sarà uno che riprenderà qualche voce o qualche modo di dire, e farà un gran romore ch’e’ non è toscano né usato da’ buoni autori; e non sa il poveretto che le lingue sono un mare magno, hanno tanta larghezza, hanno tanti privilegi, che le son più l’eccezioni che le regole; e quella voce che colui giurava non si trovare in un buono autore, va’ poi cercando sottilmente, si ritrova.
Una volta scovato l’esempio d’autore, Marcucci inserisce la locuzione nell’elenco di voci e locuzioni non presenti nella IV impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca che compila a corredo della sua edizione del Sassetti, non solo a conferma della ormai larga diffusione nell’uso comune di valere la pena, ma mettendo in evidenza come il rigido principio del “precedente d’autore” non sempre garantisca la rappresentazione adeguata della complessità dei percorsi compiuti dalle parole.

Dopo questo breve excursus attraverso la storia della locuzione, un excursus che comunque ci tornerà utile, veniamo al problema centrale che ci hanno sottoposto i nostri utenti: come si costruisce valere la pena?; regge la preposizione di (“vale la pena di rispondere”) o può essere seguita anche direttamente da un verbo all’infinito (“vale la pena rispondere”)? La questione è del tutto analoga a quella già trattata da Vittorio Coletti a proposito della reggenza del verbo meritare: proprio ‘meritare’ infatti, lo abbiamo detto all’inizio, è uno dei significati primari della locuzione e, benché dal punto di vista strutturale ci sia la differenza sostanziale che valere la pena ha in sé già espresso il complemento diretto, nella mente dei parlanti e dei lettori si attiva, direi automaticamente, l’associazione semantica tra le due forme che induce a considerarle interscambiabili e quindi talvolta sovrapponibili anche nella costruzione. Tra l’altro, a prescindere da tale accostamento, che potremmo far risalire alla competenza dei parlanti, già nel Tommaseo-Bellini (s.v. pena) l’espressione meritare la pena era indicata come forma “più italiana” da impiegare al posto di valere la pena: “Valere la pena, vale Tornare, Mettere conto. V. sopra Meritare la pena, che ha forma più ital.[iana]”; superate le questioni di maggiore o minore “italianità”, resta il fatto che solo la prima locuzione si è affermata ed è ancora viva nell’italiano contemporaneo, mentre meritare ha proseguito “senza pena” anche con il significato di ‘convenire, essere utile, essere piacevole a fronte di un impegno profuso’.

Oltre alla sinonimia, meritare e valere la pena presentano anche analogie sintattiche, ben descritte e analizzate sempre da Coletti, che risultano più evidenti in determinati costrutti: ad esempio le frasi pressoché sinonimiche “il film merita di essere visto” e “il film vale la pena di essere visto”, in cui le due forme verbali hanno come complemento diretto una frase completiva implicita introdotta dalla preposizione di, possono subire, in particolare nel parlato (o nella scrittura che simula il parlato), una drastica sintesi con l’ellissi della parte retta dal verbo principale, per cui avremo “il film merita” e “il film vale la pena”, entrambe con sottinteso “di essere visto”. Inoltre, sia meritare che valere la pena possono assumere valore impersonale intransitivo e avere come soggetto una frase completiva (in questo caso soggettiva): “merita andare al cinema” e “vale la pena (di) andare al cinema”. Proprio questo è il caso di maggiore incertezza indicato dai nostri tanti interlocutori che si chiedono: in costruzioni di questo tipo la frase soggettiva che segue valere la pena deve essere introdotta dalla preposizione di, oppure il verbo all’infinito (sempre, dunque, nella forma implicita) può essere collegato direttamente senza preposizione? Parlando dell’influsso francese abbiamo precisato che la locuzione originaria era valoir la peine de, quindi con la preposizione, ma in italiano si hanno attestazioni di costrutti diretti già dalla seconda metà del Seicento (la prima, documentata sempre da Dardi, è del 1676 e presenta l’infinito come sostantivato, preceduto dall’articolo: “in quest’occasione ha fatto e ha detto dieci spropositi che non val la pena il raccontarli”, rintracciata nell’Archivio Mediceo, 4514, c.464r.).

I dizionari storici (Tommaseo-Bellini, GDLI; nella IV edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca abbiamo visto che la locuzione non era registrata e la scheda su pena della V edizione non la contempla), rifacendosi agli esempi letterari, indicano come forma canonica quella con la preposizione di, che resta quella più rappresentata anche nei dizionari sincronici più recenti: così ad esempio il DISC (s.v. pena) ‘meritare, essere utile, metter conto’: un film che vale la p. di vedere, non vale la pena di arrabbiarsi per così poco; il Vocabolario Treccani online (s.v. pena): “valere la p. (modellata anche questa sul fr. valoir la peine de), convenire, mettere conto, a proposito di cosa ritenuta abbastanza importante da dedicarvi un po’ di fatica o d’attenzione (al contr., non valere la p., non mettere conto): varrebbe la pdi andarci di personavale la pena che vengano tutti alla riunione?non vale la pdi scomodarsi per così poco”; GRADIT (che la inserisce come polirematica del linguaggio comune), in presenza di un verbo all’infinito, offre solo esempi con la reggenza preposizionale, “valeva proprio la pena di visitare quella città, non vale la pena di prendersela tanto”; il Devoto-Oli 2023 (s.v. valere) precisa che le costruzioni ammesse sono valere la pena + che e congiuntivo (“non valeva la pena che ti scomodassi per così poco”) o di + infinito (“valeva la pena di salire fin quassù ad ammirare il panorama”). L’unico dizionario che mostra un’apertura alla reggenza diretta dell’infinito è lo Zingarelli 2023 (s.v. valere), che anzi la inserisce come prima opzione: “convenire o non convenire, meritare o non meritare (+ inf., anche preceduto da di; + che seguito da cong.): vale la pena provarcinon vale la pena di agitarsi per una cosa da poconon valeva la pena che tu ti disturbassi”.

Anche sul fronte degli strumenti grammaticali troviamo posizioni sostanzialmente allineate con la tradizione letteraria, benché la Grammatica Treccani, indicando sempre vale la pena di + infinito come “forma più corretta”, contempli anche la forma senza preposizione per una sua “certa diffusione nell’uso”. Proprio la diffusione nell’uso del costrutto senza preposizione, come accade normalmente per i fatti linguistici, ha come effetto l’alternanza delle due forme nella lingua corrente e, di conseguenza, i dubbi e le incertezze dei parlanti o scriventi.

Come notato da alcuni utenti, l’eliminazione della preposizione è un tratto molto presente nella lingua dei giornali: non è in questa sede praticabile una ricerca puntuale perché la consultazione degli archivi dei principali quotidiani nazionali restituisce un numero di occorrenze molto elevato e allo stesso tempo non perfettamente mirato rispetto alla stringa impostata “vale/valere la pena di”, ma anche semplicemente scorrendo i primi risultati sulla “Repubblica” troviamo: “vale la pena ribadirlo”, “vale la pena esporsi”, “vale la pena riflettere”, “vale la pena fare calcoli”, “vale la pena investire”, “vale la pena provarci”, “vale la pena lottare”, mentre sono sporadici, anche se presenti, i casi di utilizzo della preposizione (“vale la pena di ricordare”). Anche in rete risulta molto difficoltosa e decisamente poco affidabile una ricerca comparativa, finalizzata a valutare la prevalenza dell’una o dell’altra forma: provando a impostare su Google (pagine in italiano al 29/11/2022) alcune stringhe con vale la pena seguito da uno stesso verbo, sia preceduto da preposizione sia legato direttamente alla locuzione, si ottengono questi risultati quantitativi (in grassetto i dati maggioritari):


Pur non potendo considerare questi dati affidabili e rigorosi, i numeri sembrerebbero rivelare una certa tenuta del costrutto preposizionale in questi specifici contesti e nella lingua della rete. Ciò nonostante vediamo anche picchi di affermazione del costrutto senza preposizione, che, tra l’altro, può essere rintracciato anche in scritture particolarmente controllate: grazie a Google libri l’ho riscontrato, ad esempio, in un articolo di Edoardo Buroni pubblicato sugli “Studi di grammatica italiana” (XXVI, 2007) in cui si legge «Malgrado si tratti di un caso di “c’è presentativo” per certi versi anomalo, giacché l’elemento rematico viene posposto a quello tematico, può valere la pena ricordare qui […]» (p. 144, corsivo mio).

Un’ulteriore angolazione può essere offerta da Google Ngram Viewer, un altro strumento di indagine sull’evoluzione delle parole (nel nostro caso della locuzione) col quale è possibile avere una rappresentazione grafica della presenza delle diverse forme nei libri in rete in un arco temporale che va dal 1800 al 2019. In questo caso la ricerca è stata impostata per provare a fare un confronto tra “vale la pena” / “vale la pena di” / “ne vale la pena” considerando queste due ultime stringhe sommabili ai fini della valutazione dell’incidenza della forma preposizionale sul numero complessivo delle occorrenze. È necessario precisare, infatti, che i dati relativi a “vale la pena” non escludono quelli delle altre due stringhe, la cui somma dovremo sottrarre dal totale per avere una qualche indicazione sulla relazione tra da diffusione della forma preposizionale rispetto a quella a reggenza diretta. Ecco il grafico che abbiamo ottenuto:


Il primo dato da commentare riguarda la flessione avuta negli ultimi anni soltanto dalla stringa “vale la pena di” che confermerebbe un minor rigore nell’applicazione della reggenza canonica con la preposizione di; “vale la pena” resta prevalente anche se sottraiamo dal dato percentuale raggiunto la somma delle percentuali ottenute dalle altre due stringhe:


Si può notare infatti che, sottraendo la somma dei primi due valori relativi alle stringhe preposizionali, resta comunque quasi la metà percentuale rappresentata dalla stringa senza preposizione. Un andamento che, con tutte le cautele del caso, sembra confermare, in sintonia con le tendenze della lingua giornalistica, che il fenomeno sia in espansione nella scrittura e che la struttura della locuzione si stia progressivamente affrancando (è proprio il caso di dirlo, visto che si parte da un francesismo!) dal vincolo della tradizione letteraria.

Dunque, mi sento di rassicurare tutti coloro che hanno espresso i loro dubbi: le costruzioni sono entrambe ammesse e ben rappresentate nell’italiano antico e contemporaneo, la scelta può essere orientata eventualmente solo da ragioni stilistiche, più controllata e letteraria quella con la preposizione (“vale la pena di rivolgersi alla Crusca”), più informale quella senza (“vale la pena rivolgersi alla Crusca”); personalmente preferisco quella senza preposizione, che ritengo più fluida e, come abbiamo potuto verificare, ormai del tutto integrata nella lingua attuale anche di registro medio-alto.

Per quel che riguarda la flessione e l’accordo (per genere e persona) delle forme del verbo valere all’interno della locuzione, dobbiamo fare molta attenzione a come si costruisce il periodo e al valore, personale o impersonale, che la locuzione può assumere. La locuzione, lo abbiamo già accennato, come altri predicati impersonali che esprimono giudizio, convenienza, valutazione, sufficienza (ad es. convenire, meritare, necessitare, bastare), regge spesso una frase completiva che funge da soggetto; la soggettiva può essere espressa in forma implicita o in forma esplicita, quindi ad esempio, al presente “vale la pena (di) informare i familiari” / “vale la pena che informiamo i familiari” (o “che i familiari siano informati”); al passato “valse (è valsa) la pena (di) informare i familiari” / “valse (è valsa) la pena che informassimo i familiari” (o “che i familiari fossero informati”). Nei casi in cui si opti per la forma composta è valsa la pena, comunque sempre alla terza persona singolare e con l’ausiliare essere dato che si tratta di una forma impersonale, e quindi si impieghi il participio passato, questo sarà in accordo con il sostantivo pena e quindi al femminile valsa.

Se il verbo valere ha valore personale, assumendo come soggetto quello della completiva, allora si accorderà alla persona (e al genere e numero in caso di participio passato) del soggetto: riprendendo un esempio proposto da una delle domande arrivate in redazione, “le nostre storie valgono la pena di essere raccontate” è una costruzione accettabile, con valgono accordato alla terza persona plurale del soggetto storie, corrispondente alla forma impersonale, a mio avviso preferibile, “vale la pena (di) raccontare le nostre storie”; in presenza del participio passato esso sarà flesso secondo l’accordo richiesto dal soggetto, quindi “il nostro impegno è valso la pena”, “le nostre insistenze sono valse la pena”, “i nostri sforzi sono valsi la pena”, anche se la forte coesione della locuzione porta a preferire formulazioni che mantengano la forma impersonale, ad esempio “vale la pena / è valsa la pena impegnarsi”, “vale la pena / è valsa la pena insistere”, “vale la pena / è valsa la pena sforzarsi”.

Raffaella Setti

26 giugno 2023


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