Manuele Esposito da Ravello, Pasquale Esposito da Ferrara, Daniele Rutigliano da Bari, Valentina Banda da Caltanissetta e Giancarlo Matta da Chivasso ci chiedono se la locuzione conditio sine qua non sia corretta o non debba invece usarsi condicio sine qua non, anche in considerazione dell'esistenza dell'espressione par condicio.
Condicio o conditio sine qua non?
Attorno alla grafia della locuzione latina (che riportiamo tradotta letteralmente) condizione senza la quale non, con cui si indica comunemente un vincolo considerato irrinunciabile, esiste una grande oscillazione, a partire già dai maggiori dizionari sincronici - che, uniti nella definizione ('condizione indispensabile per compiere un'azione o per il verificarsi di un fatto'), si dividono quanto alla registrazione fra quelli che lemmatizzano condicio sine qua non (lo ZINGARELLI, insieme al Dizionario delle voci latine ricorrenti nell'uso italiano edito da Sansoni nel 1985) e quelli (Sabatini-Coletti, Devoto-Oli, VOLIT) che riportano conditio sine qua non (anche al plurale); in una posizione intermedia si pone il GRADIT che le accoglie entrambe come varianti. L'espressione non compare, invece, nel GDLI.
L'alternanza dell'una e dell'altra forma si riscontra anche nel linguaggio giuridico (in cui la locuzione definisce la clausola apposta a un atto perché questo sia valido o efficace); ugualmente - per un termine d'uso frequente nel diritto - notiamo che il DIRKSEN (dizionario ottocentesco delle fonti giuridiche romane) registra conditio, mentre il Vocabolarium iurisprudentiae romanae del secolo successivo, condicio. Tra le edizioni dei due vocabolari si colloca la "Teoria della equivalenza delle condizioni", enunciata dal criminalista tedesco Von Buri nel 1873, alla quale ci si riferisce generalmente (con la medesima oscillazione) come teoria della condicio ovvero della conditio sine qua non.
Stessa variabilità nel web, dove le due espressioni risultano usate indifferentemente (anche se qui la versione conditio sine... sembra essere più rappresentata).
Quanto alle attestazioni letterarie - stando ai maggiori repertori elettronici - esse sembrano concordare, invece, nel riportare un'unica forma (conditio sine qua non).
La locuzione compare, almeno dalla fine del Cinquecento, in opere di teologia: "Finem igitur apprehendi & amari ab agente, non est vera & propria contra ius caussalitas; sed est conditio, sine qua non caussaret in agentem per intellectum" (Benito Perera, Benedicti Pererii Societatis Iesu, De communibus omnium rerum naturalium principiis & affectionibus, libri quindecim. Qui plurimum conferunt, ad eos octo libros Aristotelis, qui de physico auditu inscribuntur, intelligendos , Parisiis - Parigi, 1579); "[...] utique quemadmodum, ut sint peccata propter quae quis reprobetur, tanquam conditio sine qua non essent, requiritur ut Deus illa permittat" (Luis Molina, Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis, diuina praescientia, prouidentia, praedestinatione, et reprobatione, ad nonnullos primae partis D. Thomae articolo, Olyssipone - Lisbona, 1588). Nell'Ottocento, la ritroviamo in un passaggio delle epistole di Leopardi: "Egli è tempo che tutti gli uomini probi e intelligenti rivolgano le loro cure a diffondere la morale cristiana (conditio sine qua non del vero bene sociale) e le utili pratiche dell'economia politica". Mentre nel secolo successivo, Ernesto Buonaiuti, nelle Lettere di un prete modernista (1908), scrive "[...] io penso che l'Italia [...] si avvierà verso quella politica francamente anticlericale, che è, sembra, ad un certo punto di sviluppo nelle nazioni moderne, una conditio sine qua non di progresso" (Lettera V); e ancora, Pirandello, nell'opera I vecchi e i giovani(1913): "Ora il principe, lo sai, conditio sine qua non, vuole che il matrimonio sia soltanto religioso" (Parte 1,2.5).
Allo stesso modo, la forma conditio ricorre nella storia della nostra letteratura con una frequenza d'uso maggiore rispetto a condicio (fino all'emblematica sequela di latinismi che Manzoni mette in bocca a Don Abbondio davanti al povero Renzo, per confonderlo e farlo desistere dai suoi propositi: "Error, conditio, votum, cognatio [...]".
In realtà, la doppia grafia - segnalata dalla domanda dei lettori - è già del latino medievale, quando condicio e conditio (entrambe pronunciate con affricata alveolare finale /-tts-/, da cui, per via dotta, condizione) concorrono nelle scritture (con una sorte analoga ad altre parole latine in -icium, come ad esempio indicium > indizio, passate in epoca tarda ad una pronuncia avanzata dell'affricata).
Che nei testi antichi i segni per l'affricata alveolare sorda siano del tutto interscambiabili, è un fatto che risulta bene anche dalle varianti riportate dal TLIO Tesoro della Lingua Italiana delle Origini alla voce condizione (condicione, conditione, condictione, etc.).
Come condicio/conditio sine qua non, un'altra espressione - sub condicione 'a condizione' (per la quale abbiamo testimonianza in Livio, nel I sec a. Cr.) - è soggetta alla medesima oscillazione; diverso è invece il caso (anche questo posto dai lettori) di par condicio: tale locuzione, infatti, è stata introdotta nel linguaggio politico solo negli anni Novanta, riprendendo, in forma ridotta, una formula propria del diritto romano - par condicio creditorum - e come tale essa gode di una maggiore stabilità.
Per approfondimenti:
A cura di Chiara Mussomeli
Redazione Consulenza Linguistica
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