Da Torino ci chiedono se il termine babbo (o babba) per ‘stupido’, conosciuto e usato anche in Sicilia abbia rapporti con babbeo; dalla Sicilia e dalle Marche domandano quale sia il rapporto di babbo ‘stupido’ con babbo ‘padre’; infine da Padova si chiede se l’origine di babbeo possa avere un rapporto con “la confusione linguistica e l'incomprensione, associate alla vicenda di Babele”.
Che una medesima base babb- veicoli due significati decisamente contrapposti, quello di babbo = ‘papà’ e quello di babbeo (e simili) = ‘stupido, sciocco’, non è casuale; però, si faccia attenzione: non è che dal significato di ‘papà’ si sia sviluppato quello di ‘stupido’ o da quello di ‘stupido’ si sia sviluppato quello di ‘papà’ (in effetti, si tratterebbe di passaggi semantici difficili da giustificare) – in realtà, siamo qui in presenza di due diverse traiettorie semantiche che hanno avuto origine da uno dei primi suoni che il bambino produce nella fase della lallazione.
La fase della lallazione (che dura fin verso il primo anno di età) è la fase in cui il bambino non parla ancora (non essendo in grado di farlo) ma lalla, ossia produce volontariamente delle sillabe costituite da un suono consonantico seguito da un suono vocalico: si tratta in fondo di un primo esercizio di produzione di suoni che al bambino serve per arrivare infine a parlare. Le prime sillabe che il bambino “lalla” sono ovviamente quelle più “facili” da articolare: di norma, quelle costituite da una consonante o labiale (come b, p, m) oppure dentale (come d, t, n) seguite dalla vocale a o da una vocale tendente ad a: di qui, sequenze come ba, ba-ba o ma, ma-ma o da, da-da o na, na-na…, ciò che, si badi, avviene per tutti i bambini del mondo e non solo per quelli d’Italia. Precisiamo che, in questa fase, le sillabe lallate non sono parole dotate di significato: sono in effetti, da parte del bambino, meri esercizi per fare pratica di fonetica; ma quelli che stanno intorno al bambino, a cominciare dai genitori, sono portati a “interpretare” le sillabe lallate, dando loro un significato: e così, la sequenza ma-ma viene di solito “interpretata” dai genitori come un tentativo del bambino di chiamare la ‘mamma’ (o anche la ‘mammella’); la sequenza ba-ba viene di norma interpretata come un tentativo del bambino di chiamare il ‘babbo’ cioè il ‘papà’ e così via. Siccome poi, abbiamo detto, le prime sillabe che il bambino impara a lallare sono le stesse per tutti i bambini del mondo, ne viene che i nomi familiari o colloquiali per ‘mamma’ sono sorprendentemente simili in molte lingue (imparentate fra loro o non imparentate); e che lo stesso succede coi nomi per ‘babbo’ o ‘papà’. In effetti, facendo una rapida ricognizione (per altro facilmente ampliabile), troviamo che i nomi familiari per ‘mamma’ contengono una m seguita dalla vocale a o tendente ad a ad es. in italiano (mamma), francese (maman), inglese (mom o mamy), neogreco (mana), cinese (mama), in latino (nel quale mamma era la ‘nutrice’, cioè un surrogato della madre, o la ‘mammella’); mentre i nomi familiari per ‘babbo’ contengono una b (o anche una p) seguita dalla vocale a o tendente ad a ad es. in italiano (babbo; papà), neogreco (babás), arabo (bâbâ), cinese (baba), francese (papa), latino (pappa), neogreco (papás), oppure una d (o una t) seguita dalla vocale a o da una vocale tendente ad a, ad es. in inglese (dad) o in non pochi dialetti italiani (tata; si ricorderà il racconto mensile “L’infermiere di tata” nel Cuore di E. De Amicis) e così via.
Tornando ora (e riassumendo quanto detto fin qui) allo specifico dell’italiano babbo come modo familiare per chiamare il ‘padre’, possiamo dire che siamo alla presenza della “ufficializzazione” nella lingua vera e propria (in questo caso, l’italiano) della sillaba ba-ba lallata dal bambino, alla quale i genitori hanno “voluto” dare il senso di ‘papà’, e divenuta un nome a tutti gli effetti: di genere maschile (ovviamente, riferendosi al padre), di numero singolare (in -o, perché, in italiano, i più dei nomi maschili escono in -o), pluralizzabile in -i come qualunque altro maschile singolare in -o e così via (e lo stesso discorso vale, al femminile, per mamma).
Ciò detto, però, come si spiegano tutte quelle forme (italiane o italiane dialettali) a base babb- e che invece voglion dire ‘sciocco’?
Anche in questo caso si parte dalla sillaba lallata ba-ba; ma se nel caso di babbo ‘papà’ la sillaba lallata viene “interpretata” dai genitori come tentativo del bambino di chiamare il ‘babbo / papà’, nel caso di babbeo ‘sciocco’ (e simili), invece, la sillaba lallata viene utilizzata per designare chi è ‘ingenuo, innocente, naif’ come il bimbo che sa dire solo ba-ba; e da ‘ingenuo, naif’ si arriva facilmente, con peggioramento semantico, a ‘sciocco, stupido, scemo’. Ne viene tutta la serie delle forme italiane e dialettali per ‘stupido’: dall’italiano babbeo / babbione e simili, ai tipi bbabba f. / bbabbu m. di molti dialetti italiani meridionali (ad es. nel Salento, in Calabria, in Sicilia – nei dialetti del Salento, bbabbare è sia, transitivamente, ‘stordire qualcuno, farlo rimbecillire con sostanze stupefacenti, o con chiacchiere, parole o altro’ sia, intransitivamente, ‘restare imbambolato’; mentre tipicamente calabrese e siciliano è bbabbijari / bbabbïari, di per sé un babb-eggiare, ‘comportarsi da sciocco’, anche nell’italiano regionale: ma stai babbiando! ‘ma stai scherzando!’) e, soprattutto al femminile baba, settentrionali (chi abbia letto Lessico familiare di Natalia Ginzburg ricorderà che babe era l’epiteto del quale il padre della scrittrice, il terribile professor Levi, gratificava le amiche della moglie), al tipo bbabbasóne ‘scioccone, credulone’, spesso anche con sfumatura affettuosa, di molta parte del sud d’Italia a cominciare da Napoli, e via discorrendo. Ma formazioni a base bab(b)- e con significati analoghi troviamo (né, in base a quanto abbiamo detto più su, possiamo stupircene!) anche in molte altre lingue, ad esempio in greco antico, con bábion ‘bébé’, babázein / babízein ‘parlare difettosamente (come i bambini che non sanno parlare)’, babái ‘esclamazione di meraviglia’ (> latino babae) e via discorrendo.
Da quanto argomentato sin qui discende infine che, diversamente da quel che pure si potrebbe pensare, babbeo e affini non hanno etimologicamente a che fare col nome della città di Babele o Babilonia (quasi il ‘mentalmente confuso’, cioè ‘lo stupido’ o ‘tardo di comprendonio’, fosse stato denominato babbeo perché la confusione mentale che lo caratterizza è stata in qualche modo assimilata alla confusione delle lingue come punizione divina, secondo il racconto biblico, degli uomini che avevano eretto la torre di, per l’appunto, Babele): l’italiano babbeo e le forme consimili (italiane dialettali, greco-antiche ecc.) hanno origine, abbiamo visto, da un “riutilizzo” della sillaba lallata dal bambino; laddove Babele (nome della città cui è legato il mito della torre) è voce semitica (babilonese) e propriamente vuol dire ‘porta (bāb) del dio (ilu)’. Ciò non toglie, però, che possa essersi talora prodotto qualche accostamento etimologicamente indebito (cioè, ingiustificato dal punto di vista scientifico, ma spiegabile in base alla somiglianza della forma della parola o del suo contenuto semantico) fra il nome di Babele e quello del babbeo (e affini; ad esempio, nei dialetti salentini è usata, col senso appunto di ‘babbeo’, la forma bbabbalèu, che si direbbe stare a Babele più o meno come romèo, cioè ‘romano’, sta a Roma).
In altri termini, non è escluso che, in certi casi, abbia agito la paretimologia, o etimologia popolare, che è il procedimento in base al quale il parlante prende una voce A e, per sua “comodità”, la avvicina a un’altra voce B, che, storicamente, non ha nulla a che fare con A ma che pure ha qualcosa (nella forma o nel significato) che, al parlante, ricorda A. Di seguito, un esempio (utilizzando le forme di cui ci stiamo occupando) per chiarire il meccanismo della paretimologia: nei dialetti salentini, bbabbáfaru è il ‘papavero da oppio’, una pianta, in Puglia (come, del resto, in molte parti d’Italia), spontanea, dalle cui capsule si ricavava un tempo un infuso utilizzato, fra l’altro, per acquietare i bambini (piccoli) irrequieti, soprattutto se in preda a coliche intestinali o altri disturbi del genere. Ebbene: bbabbáfaru è con ogni evidenza il corrispettivo salentino dell’it. papavero (e, come questo, viene dal lat. păpāvĕr); ma sorprende che, a p dell’italiano, nella voce salentina corrisponda bb e non p (in effetti, all’italiano pàpera ‘oca’, ad esempio, corrisponde il salentino pápara, con tutt’e due le p, così come all’italiano pepe corrisponde il salentino pipe ecc.); e bbabbáfaru, allora? Semplice: siccome l’effetto dell’infuso di papavero era quello di bbabbáre (i bambini), cioè ‘calmarli, spesso col farli addormentare’, è chiaro che il corrispettivo salentino di ‘papavero’, cioè un qualcosa che possiamo supporre essersi presentato in origine all’incirca come papáfaru, è stato secondariamente incrociato col verbo salentino bbabbare (per via dell’effetto dell’infuso di papavero), donde alla fine il risultato salentino bbabbáfaru ‘papavero’.
Franco Fanciullo
21 luglio 2020
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