Sono pervenute da molti lettori domande sulla liceità e il valore di costrutti verbali con il sostantivo bisogno preceduto dalla preposizione di: avere di bisogno, essere di bisogno, fare di bisogno. Quesiti che provengono da diverse zone d’Italia, alcuni dei quali, infatti, interrogano sul carattere regionale di tali costrutti.
Possiamo cogliere l’occasione, rispondendo ai quesiti e documentando sinteticamente la presenza di questi costrutti oggi e nel passato, per sottolineare come molto spesso la nostra lingua offra esempi di usi che sono insieme della tradizione letteraria e di alcune aree dialettali anche di oggi. Il caso in questione è appunto uno di questi.
Nell’italiano comune dei nostri giorni avere/essere/fare di bisogno non sono presenti: si dice e si scrive soltanto, con la preposizione di collocata dopo il sostantivo bisogno, avere bisogno di qualcosa, c’è bisogno di questo, e simili costruzioni impersonali con esserci; fare bisogno di qualcosa è del tutto fuori dell’uso, mentre esiste fare al bisogno, espressione meno comune, e dal valore popolare, di fare al caso (p.es. questo tavolo fa al caso nostro).
Nella tradizione letteraria dei secoli passati costruzioni con di bisogno sono però abbastanza ben rappresentate. Le troviamo in autori della tradizione toscanista tra Quattrocento e Seicento, soprattutto ma non solo, popolareggiante: Passavanti, Sacchetti, Pulci, Cecchi, Firenzuola, Lasca, Machiavelli, Cellini. E come costrutto toscano lo avrà certamente inserito il Manzoni nella correzione dei Promessi sposi dalla prima edizione del 1827 alla seconda e definitiva del 1840: nel capitolo XXVII, descrivendo le miserevoli condizioni della popolazione nella città dopo la peste, scrive “Agli affamati dispensavano [i preti destinati al soccorso dal cardinale Federigo] minestra, ova, pane, vino; ad altri, estenuati da più antico digiuno, porgevano consumati, stillati, vino più generoso, riavendoli prima, se faceva più di bisogno, con cose spiritose”. E quel di prima di bisogno il Manzoni lo ha proprio aggiunto dalla prima alla seconda edizione del romanzo, scegliendo la forma più toscana e, secondo quello che appare a noi oggi, meno comune.
Ma la tradizione letteraria ci offre anche esempi non toscani: hanno usato avere di bisogno o essere di bisogno, o fare di bisogno, per esempio, autori di area veneta come Goldoni, Algarotti, Svevo, ma anche Leopardi, l’emiliano Romagnosi, il piemontese Giacosa, e altri. Naturalmente, come insegna il caso del Manzoni, non è solo l’area di provenienza che determina certi usi degli autori, ma spesso, il loro orientamento linguistico.
La presenza dei costrutti verbo+di bisogno in autori della tradizione letteraria e nel toscano giustifica la loro registrazione come costrutti accettati, potremmo quasi dire normali, in molti dizionari della lingua italiana, soprattutto del XIX secolo.
In altra direzione ci porta la diffusione e il valore che tali costrutti hanno oggi: una caratterizzazione solo regionale o dialettale. In vari dialetti d’Italia, infatti, i costrutti del tipo avere/essere/fare di bisogno, registrati dai dizionari dialettali otto-novecenteschi, sono ancora vivi, e dai dialetti si sono estesi ai rispettivi italiani regionali. Ma va precisato che si tratta, oggi, di usi piuttosto connotati verso il basso della scala sociale, caratteristici di chi non padroneggia bene un italiano comune ed è abituato a usare o sentire usato in famiglia il dialetto, o di persone anziane, per cui il dialetto è ancora il codice linguistico più familiare. Stupisce, in questo senso, quanto riferisce uno dei lettori sull’uso di questi costrutti da parte di parlanti colti a Catania (docenti, presidi, avvocati).
Senza pretendere di offrire una documentazione generalizzata al vasto panorama dei dialetti d’Italia o delle varietà regionali, ci riferiamo ad aree nelle quali i costrutti verbo+di+bisogno sembrano essere più vivi, il che del resto corrisponde, non a caso, con i riferimenti fatti da parecchi dei lettori che hanno scritto sull’argomento.
Nel dialetto milanese sono tuttora vivi Avè de bisogn, Fà de bisogn registrati nell’Ottocento dal Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini; i corrispondenti italiani hanno avuto in passato una presenza che oggi sembra essere fortemente diminuita, e confinata in parlanti poco colti.
Lo stesso si può dire per l’area emiliana, sia relativamente alla documentazione dei dizionari dialettali ottocenteschi (p.es. il Vocabolario parmigiano-italiano del Malaspina, 1835), sia relativamente all’uso dialettale e regionale.
L’area ligure non ci offre documentazione lessicografica (i dizionari ottocenteschi di Casaccia e Olivieri non documentano questi usi), ma a confermare l’uso dialettale e regionale, sia nell’area genovese, sia nel ligure occidentale (avé de bésőgnu p.es. a Oneglia e a Taggia) supportano varie testimonianze attuali, oltre che gli stessi quesiti di lettori, alcuni dei quali fanno proprio riferimento all’area ligure.
In area siciliana è documentato, sia per il passato che per l’oggi, il costrutto con avere+di+bisogno: nel Nuovo vocabolario siciliano-italiano di Antonino Traina, 1868, aviri di bisognu, e in alcuni testi italiani di autori siciliani si trova avere di bisogno, presente anche, ai nostri giorni, in un autore siciliano tanto noto e amato, Camilleri.
Due parole, infine, in risposta a chi chiede se “avere bisogno qualcosa” è ammissibile. Si tratta di un uso transitivo scorretto nell’italiano, che ha tuttavia una certa presenza non soltanto nel parlato poco sorvegliato o connotato verso il basso, ma anche, forse in espansione, nello scritto di media e bassa formalità, in articoli giornalistici, in certa prosa narrativa meno curata, e naturalmente nella scrittura informale nella rete, specie nei social (si veda Luigi Spagnolo, *Avere bisogno qualcuno/qualcosa, nel portale Treccani sulla lingua italiana).
Ilaria Bonomi
17 novembre 2020
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