Ci sono pervenute moltissime domande relative al campo semantico dell’invidia. C’è chi ci chiede semplicemente la definizione della parola; chi se sia possibile distinguere lessicalmente un’invidia “buona” o “positiva” (per cui si vorrebbe godere della stessa fortuna o felicità di altre persone, possedere i loro stessi beni o raggiungere gli stessi risultati da loro ottenuti, ma senza provare alcun sentimento malevolo, di ostilità nei loro confronti) da quella “cattiva” o “negativa”, che invece si nutre di astio e determina sofferenza per la felicità o la fortuna altrui. C’è poi chi chiede se tra invidiare e provare invidia ci sia una sfumatura semantica diversa, se sia dialettale l’espressione prendersi d’invidia e quale sia la differenza tra invidia e gelosia e quindi tra invidioso e geloso. Un ultimo quesito riguarda la costruzione del verbo invidiare (a qualcuno qualcosa o qualcosa di qualcuno?)
Le domande pervenute sono tante e vertono su temi assai diversi. Cercherò di procedere con ordine e di rispondere a tutte.
Inizio col dire che invidia è una parola dotta, derivata dalla corrispondente voce latina invidia, attestata in volgare fin dalla metà del sec. XIII, nel poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani e poi, in numerose occorrenze, nella Rettorica di Brunetto Latini e in tanti altri testi dell’italiano antico (come documenta il corpus OVI). Dal nome derivano l’aggettivo invidioso (che però potrebbe anche essere un altro latinismo, tratto dal corrispondente invidiosum, accusativo di invidiosus) con l’avverbio invidiosamente, il verbo invidiare, da cui si sono formati invidiatore/invidiatrice, invidiato come aggettivo e poi, più tardi, invidiabile e invidiabilmente e perfino il nome invidianza (di fatto un hapax del sec. XIV, che ha lo stesso significato di invidia: TLIO). In alternativa a invidioso esiste anche il letterario ìnvido (che è un altro latinismo di antica attestazione, da invĭdum, accusativo di invĭdus). Alla base di tutte queste parole c’è il verbo latino invidēre, formato da in- negativo e vidēre, che significa letteralmente ‘guardare biecamente, di mal occhio’.
Il primo (e per lungo tempo esclusivo) significato di invidiare è quello di ‘soffrire per il benessere altrui, augurandosi che venga meno’ e si lega quindi ai sentimenti, negativi, di astio e malevolenza. L’invidia è considerata il secondo dei vizi capitali, opposto alla virtù della carità, e in quanto tale è rappresentata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova come un serpente che esce dalla bocca di una vecchia e si ritorce contro i suoi occhi impedendole di vedere.
Dal sito Padova Musei Civici
(https://cappellascrovegni.padovamusei.it/it/collezioni/vizi-virtu/invidia)
Nella Commedia dantesca manca nell’Inferno un posto riservato agli invidiosi, che il poeta incontra solo nel secondo girone del Purgatorio, ma in Convivio I IV Dante parla dell’invidia e in I XII la individua come una delle cause per cui “li malvagi uomini d’Italia […] commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano”, in quanto “la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra li uomini d’una lingua è la paritade del volgare; e perché l’uno quella non sa usare come l’altro, nasce invidia”.
La condanna dell’invidia è stata sempre netta, e non solo da parte della Chiesa (secondo la quale, poi, quando si invidia il bene spirituale del prossimo, la grazia altrui, si pecca contro lo Spirito Santo), ma anche del senso comune: molti sono i proverbi e i detti che la censurano (ne ricordo uno in romanesco: “Fa più male l’invidia che nòce ch’er foco che còce”, cioè ‘l’invidia che nuoce è più dannosa del fuoco che brucia’). Già tra i dieci comandamenti, del resto, c’è “Non desiderare la roba d’altri”, che può certamente essere inteso come una esecrazione dell’invidia.
Per quanto riguarda il latino, devo al collega e amico Angelo Luceri, docente di Letteratura latina a Roma Tre, la segnalazione di due passi di sant’Agostino piuttosto interessanti. Nel primo si afferma esplicitamente: “invidia est [...] odium felicitatis alienae” (in Psalm. 104, 17; ‘l’invidia è l’odio per la felicità altrui’); nel secondo si propone una differenza tra invidia e aemulatio ‘emulazione’: “aemulatio est dolor animi, cum alius pervenit ad rem, quam duo pluresve appetebant [...], invidia vero dolor animi est, cum indignus videtur aliquis assequi etiam quod tu non appetebas” (in Gal. 52; ‘l’emulazione è il dolore dell’animo quando un altro è arrivato ad avere una cosa che due o più desideravano, l’invidia invece è il dolore dell’animo quando qualcuno sembra indegno di aver conseguito qualcosa anche se tu non la desideravi’). In ogni caso, il sentimento è considerato malevolo: infatti, i latini usavano come sinonimi di invidia le parole livor, obtrectatio, detractatio, malivolentia e malignitas. La distinzione tra un’invidia “buona” e un’invidia “cattiva”, insomma, mancava in latino, che conosceva solo la seconda.
Un po’ diversa è la situazione del greco, per cui mi sono avvalso dell’aiuto di Adele Cozzoli, anche lei cara amica e collega, docente di Letteratura greca a Roma Tre. Il greco può esprimere il concetto di invidia con due termini, ζῆλος (zélos) e φθόνος (phthònos), che possono essere usati come sinonimi, ma tra i quali si può individuare una differenza: ζῆλος indica semplicemente il desiderio di possedere quello che un altro ha (da qui la voce può poi arrivare ad assumere perfino un significato positivo, come vedremo più oltre, trattando dei suoi sviluppi moderni); φθόνος invece è il senso di invidia che possono provare non solo gli esseri umani ma perfino gli dei nei confronti di persone molto (troppo?) valorose, virtuose, belle o sagge; φθόνος genera sempre sventura ed è quindi un sentimento esclusivamente negativo, spesso associato a μῶμος (mόmos), il biasimo, la maldicenza. C’è poi il sostantivo βασκανία (baskanìa), che indica propriamente il malocchio, l’invidia che ricorre anche all’incantesimo pur di danneggiare la persona invidiata.
Come ci ricorda la psicanalista argentina Ivonne Bordelois nel suo volume Etimologia delle passioni (Milano, Apogeo, 2007) in cui segnala che molte parole riferite alle passioni umane avevano in origine significati assai lontani dai loro significati sociali attuali, “quando diciamo invidia eludiamo il riferimento all’occhio maligno che il termine possiede nei suoi ancestrali inizi” (devo la segnalazione a Cristiana De Santis). In effetti, il legame tra il concetto di invidia e quello di malocchio è stato per secoli molto forte anche nella cultura e nella lingua italiana. In anni recenti si è diffuso il sintagma invidia sociale, probabilmente con lo scopo di togliere vigore alla percezione dell’ingiustizia sociale, facendone un sentimento cattivo.
Un primo significato non negativo di invidia si può individuare in quello, reso più spesso con emulazione (altro latinismo, tratto dall’accusativo aemulationem della già citata voce latina aemulatio, documentato anch’esso dalla fine del Duecento, come mostra il TLIO) di “desiderio di imitare, di uguagliare o di superare le virtù di altri”, secondo la definizione del GDLI, che riporta come primo esempio un passo del predicatore Domenico Cavalca (nato intorno al 1270 e morto nel 1342) in cui si parla addirittura di santa invidia:
Antonio, come ape prudentissima tutti visitando e le virtudi di ciascuno considerando, di tutti si studiava di guadagnare e di trarre mele [‘miele’] spirituale. E per una santa invidia tutti con ardentissimo desiderio istudiava di seguitare.
Il concetto di “invidia buona, positiva”, per riprendere gli aggettivi usati da alcuni lettori, sembra molto più recente (forse la si potrebbe collegare alla formazione nel sec. XVII di invidiabile) e probabilmente si è sviluppato perché l’invidia “cattiva” viene sempre più percepita dalla psicologia moderna come dannosa non per chi ne è oggetto, ma per chi la prova. In ogni caso, l’uso di invidia per esprimere il ‘desiderio di raggiungere lo stesso benessere di altri, senza però soffrire per il fatto che questi ne godano’ rappresenta, secondo il GRADIT, un’estensione del significato primario del termine.
Non esiste, effettivamente, in italiano un vocabolo che consenta di distinguere questo sentimento da quello dell’invidia vera e propria, e non a caso due lettrici non hanno esitato, per riempire quello che linguisticamente si definisce come “vuoto oggettivo”, a proporre parole nuove per esprimere il concetto: il nome euvidia, formato mediante la sostituzione di in-, segmento iniziale di invidia considerato prefisso, con eu-, confisso greco che significa ‘bene’ (presente in parole dotte come eufemismo, eucaristia, eucalipto); il verbo ammidiare, che contamina, a mo’ di parola macedonia, ammi(r)are e (inv)idiare (ma che richiama anche l’esito meridionale di questo verbo, che è ’mmidià, da ’mmidia ‘invidia’). Ammirare e ammirazione sono altre parole che ci vengono indicate; ma (come rileva giustamente un lettore) “in ammirare è chiara l’idea che si apprezza la persona e/o la situazione, ma non è chiaro che si vorrebbe quella determinata cosa”. Dobbiamo dunque accontentarci di affidare la distinzione tra i due sentimenti a un aggettivo, e in effetti quelli usati dai nostri lettori (invidia buona o positiva, in contrapposizione a invidia cattiva o negativa) sembrano i più diffusi pure in rete; ho trovato però anche invidia benigna (rispetto a invidia maligna), che mi pare forse l’espressione più perspicua, così come l’invidia benevola di un lettore, che peraltro la riferisce (con un effetto di involontario humour nero) alla frase: “beati voi che siete morti prima di veder queste disgrazie” (in genere, poi, quando si sente dire “Beato te che...”, “Beata lei che…”, “Beati voi che…”, è lecito a volte sospettare la presenza di un fondo di invidia malevola…). D’altra parte la nostra lingua non ha neppure un termine corrispondente al tedesco Schadenfreude, che indica il piacere maligno provocato dalla sfortuna altrui, qualcosa dunque di ancora più forte dell’invidia.
Passo ora alla differenza semantica tra invidia e gelosia. Questo secondo termine, attestato fin dai primi decenni del sec. XIII (TLIO), è un derivato dall’aggettivo geloso (documentato negli stessi anni) col suffisso -ia. Geloso deriva, a sua volta, dal latino tardo zelosu(m) ‘pieno di zelo’, da zelus ‘zelo’, tratto dalla sopra citata voce greca ζῆλος (zélos). È certamente notevole il fatto che dalla stessa parola greca, che significava ‘invidia’, siano derivati, attraverso il latino, un nome di significato positivo come zelo “impegno assiduo e diligente con cui si affrontano compiti, doveri e sim.” (GRADIT, che data la voce av. 1306) e un aggettivo come geloso, da cui deriva un nome (gelosia) che si usa soprattutto per indicare il “sentimento doloroso che nasce da un desiderio di possesso esclusivo nei confronti della persona amata e dal timore, dal sospetto o dalla certezza della sua infedeltà” (GRADIT). Dopo aver precisato che non fa difficoltà la differenza della consonante iniziale, perché la g-, affricata palatale sonora (resa in trascrizione fonetica con /dʒ/), corrisponde alla z- sonora, che è un’affricata dentale (resa con /dz/), e che geloso e gelosia potrebbero ben costituire esiti toscani e centro-meridionali di voci settentrionali come zeloso e zelosia (e del resto la voce gelosia del TLIO riporta anche varianti come celosia, çelosia e zilosia), cerco di ricostruire le due diverse trafile semantiche.
È bene ripartire dal greco e dal latino, per dire (grazie ancora alla consulenza di Adele Cozzoli e di Angelo Luceri) che Ammonio usa il termine ζῆλος (zélos) in senso positivo, come ‘desiderio di un bene che non si ha’, e Plutarco in quello di ‘desiderio di un bene e studio per ottenerlo’; san Girolamo, a sua volta, distingue l’invidia dallo zelus, censurando solo la prima:
invidia, quam non putemus idem esse quod zelum, quia zelus et in bonam partem accipi potest, cum quis nititur ea, quae meliora sunt, aemulari; invidia vero aliena felicitate torquetur (in Gal. 6, 21; ‘non pensiamo che l’invidia sia la stessa cosa dello zelo, perché lo zelo si può anche intendere in senso buono, quando ci si sforza di emulare quelle cose che sono migliori; invece l’invidia è tormentata dalla felicità altrui’).
In effetti la parola italiana zelo, documentata fin dal sec. XIV, che ha il latino come etimologia prossima e il greco come etimologia remota, ha il significato di ‘ardore, fervore, impegno per conseguire un risultato’ (che può essere stato già ottenuto da altri). Oggi, per la verità, il sostantivo zelo (così come l’aggettivo zelante, dal verbo zelare) non ha sempre connotazione positiva, perché indica spesso un impegno esagerato (si parla, per esempio, di eccesso di zelo), ma comunque pertiene a un’area semantica diversa da quella in cui rientrano gelosia e geloso, che pure hanno la stessa matrice etimologica, comune anche a zelota, termine che figura nel Vangelo per indicare chi apparteneva a un movimento che praticava una rigorosa osservanza della legge ebraica e si opponeva alla dominazione romana. Per spiegare lo slittamento semantico di geloso, l’Etimologico postula che l’aggettivo abbia “preso il sign[ificato] proprio del lat. eccl[esiastico] zelōtēs -ae come attributo di Dio (gr. zēlōtḗs [cfr. Es. 20, 5]), in quanto egli non può ammettere che si ami qualcun altro più di lui”; da qui il riferimento al sentimento umano di amore possessivo. Il GRADIT (in cui figura il termine di zelotipia, che indica in psicologia l’amore caratterizzato dall’esigenza che la persona amata ricambi il sentimento con pari intensità) ricorda invece la locuzione del lat. tardo zelosus amor, mentre il TLIO definisce la gelosia come “timore ansioso della mancanza di affetto o di fedeltà da parte della persona amata (anche unito ad un comportamento sospettoso e diffidente, o, secondo l’ideologia cortese, a zelo e sollecitudine nel servizio amoroso)”. Quest’ultimo riferimento all’impegno nella servitù d’amore sembrerebbe in effetti “chiudere il cerchio” nel rapporto tra zelo e gelosia.
Ma vediamo ora gelosia (e geloso) in rapporto a invidia (e invidioso). Effettivamente ci sono contesti in cui i due termini sono sovrapponibili, sia nel senso di ‘invidia’, documentato nel TLIO già in alcuni esempi antichi di gelosia, sia in quello di ‘gelosia’, visto che il GDLI tra i significati di invidia registra anche quello di ‘cruccio provocato da amore non corrisposto, gelosia’ (con due esempi, il primo dei quali di Ludovico Ariosto: “Qualche rea femina, / con la qual aveva prima avuto pratica, / l’averà così concio per invidia”). Fermo restando che è difficile distinguere con nettezza i campi semantici dei due termini, potremmo invitare i nostri lettori a usare gelosia al posto di invidia soprattutto per esprimere il risentimento provato da chi pretende l’esclusivo godimento di un bene che possiede nei confronti di chiunque altro arrivi a ottenere lo stesso bene. Non di rado, in ogni caso, le due voci vengono accostate, sia come sinonimi (“Li vidi sorridersi l’un l’altro, e provai un dolcissimo sentimento d’invidia, una tenera gelosia”; Curzio Malaparte, La pelle, 1950, dal corpus PTLLIN; si notino i due originali ossimori creati con gli aggettivi corrispondenti, entrambi molto positivi), sia, probabilmente, con riferimento a sentimenti (negativi) diversi (come l’invidia della matrigna di Biancaneve e la gelosia di Otello), come nel verso della canzone di Rino Gaetano Ma il cielo è sempre più blu (1975), che, debitamente adattato, ho messo nel titolo di questa risposta.
Il verbo del verso originale di Rino Gaetano è muore e in effetti (a conferma anche di quanto si è detto sopra sul fatto che l’invidia fa male a chi la prova e non a chi ne è oggetto) tra i vari esempi di invidia che si incontrano nel PTLLIN si trovano verbi di quest’area semantica, come struggersi (“Anche a me la poesia delle rocce nere sembrava bellissima; e mi struggevo d’invidia”; Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, 1963), crepare (“Gli inglesi, col Green creperanno d’invidia”; Stanislao Nievo, Le isole del paradiso, 1987), schiattare (“La gente del paese schiattava d’invidia”; Melania Gaia Mazzucco, Vita, 2003) e, appunto, morire (“Rocco non è diventato suo amico e Diamante muore d’invidia”; ivi).
Sulla possibile differenza semantica tra invidiare o provare invidia non sono in grado di pronunciarmi, anche perché è possibile che vari in rapporto agli usi individuali o familiari. C’è però una differenza sintattica: se usiamo invidiare, verbo transitivo, indichiamo poi l’oggetto diretto; se optiamo per provare invidia, ci serviamo di un verbo supporto, trasferendo il carico semantico sul nome, che regge poi la preposizione per o la locuzione preposizionale nei confronti di. Su questa base, si può dire che invidiare ha forse un impatto e una forza maggiori, in quanto la costruzione transitiva è più esplicita e diretta.
Probabilmente equivale a provare invidia l’espressione prendersi d’invidia segnalataci da una lettrice che scrive da Berlino. Non saprei indicarne una matrice dialettale, che mi pare possibile; avrei però dubbi sulla sua accettabilità (dato anche l’uso pronominale di prendersi). In ogni caso, le occorrenze che trovo in rete (anche senza l’elisione) sono pochissime e recenti; una, con valore ironico, si ha anche in un testo a stampa:
E infatti la guardia giurata che era stata immobilizzata dal terzo bandito, quello che fino a ora non aveva fatto un cazzo, si prende di invidia e vuole dimostrare di essere lui il vero idiota, il numero uno dell’inutilità e dell’inappropriatezza, e fa per rubargli la pistola. (Carlo Loforti, Appalermo, appalermo!, Milano, Baldini & Castoldi, 2016, citato dall’e-book)
Più numerose sono le occorrenze di preso d’invidia (la prima delle quali è stata trovata da Matilde Paoli grazie a Google libri in un dizionario bilingue italiano-olandese del 1710 (Mose Giron, Il grande dittionario italiano et hollandese, come pure hollandese et italiano, Amsterdam, appresso Pietro Mortier, 2 voll.) in cui si legge “Un’animo [sic] preso d’invidia contro l’altro”) e soprattutto di preso da invidia: In questi casi, tuttavia, si può postulare un uso passivo e non pronominale di prendere.
Concludo tornando alla sintassi: i costrutti invidiare qualcosa a qualcuno e invidiare qualcosa di qualcuno sono entrambi corretti (per un caso diverso ma affine si veda la risposta di Cristiana De Santis su far fare qualcosa a/da qualcuno), ma c’è tra loro – a parte la possibile maggior frequenza del secondo – una differenza importante: l’oggetto è sempre la cosa che si invidia (secondo argomento del verbo, dopo il soggetto), ma in un caso la persona oggetto di invidia viene legata anch’essa direttamente al verbo (che diventa trivalente) e assume quindi maggior rilievo (invidio gli occhi azzurri a Luca); nell’altro rappresenta un’espansione dell’oggetto (invidio gli occhi azzurri di Luca) e quindi finisce piuttosto sullo sfondo, come se l’invidia non la riguardasse direttamente.
Posso concludere rilevando che, come avviene spesso, le domande che arrivano alla redazione, pur vertendo su un tema particolare, pongono poi di fatto questioni generali piuttosto complesse: in questa risposta si è infatti parlato di polisemia e di sinonimia, del problema lessicale del “vuoto oggettivo” (come si è visto, ci sono concetti che non in tutte le lingue corrispondono a lessemi specifici) e di quello sintattico delle valenze verbali. Insomma, una serie di temi… da fare invidia!
Paolo D'Achille
13 settembre 2023
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