Alcuni lettori segnalano defaunazione tra le nuove parole del lessico dell’ecologia, nel significato di ‘perdita di fauna’; si interrogano sulla sua origine e si chiedono se la parola sia formata correttamente o se non sarebbe piuttosto preferibile defaunizzazione.
Una breve premessa storica
La diffusione del concetto espresso in italiano da defaunazione si deve a uno studio pubblicato nel 2014 sulla rivista “Science” da Rodolfo Dirzo della Stanford University, Defaunation in the Anthropocene. Secondo Dirzo, “defaunation is both a pervasive component of the planet’s sixth mass extinction and also a major driver of global ecological change” (‘la defaunazione è una componente pervasiva della sesta estinzione di massa del pianeta e al tempo stesso uno dei principali fattori del cambiamento ecologico globale’); si realizza con la progressiva scomparsa di una specie e delle popolazioni che la compongono, che si riverbera su tutto l’ecosistema producendo, col tempo, cambiamenti irreversibili. Lo studio di Dirzo ha fatto subito il giro del mondo e il filosofo della scienza Telmo Pievani ha usato defaunazione in un articolo uscito il 3 agosto 2014 sul “Corriere della Sera” (Salviamo gli insetti o sarà tardi per l’uomo).
In questo significato, dunque, la parola defaunazione circola in italiano da almeno una decina d’anni; eppure non risulta ancora registrata dai principali dizionari; è però possibile ritrovarla in testi scientifici italiani e stranieri almeno dagli anni Venti del secolo scorso grazie alla ricerca in Google libri. In francese défaunisation risulta già usato nel 1927 (“La défaunisation a été faite à l’aide de sulfate de cuivre”, cioè ‘la defaunazione veniva realizzata usando solfato di rame’), e défaunation almeno dal 1938; alcune pubblicazioni scientifiche in lingua inglese attestano defaunation e refaunation nel 1929; l’italiano defaunazione appare almeno nove volte in un saggio di Umberto Pierantoni pubblicato nel fascicolo 24 (1937) dell’“Archivio zoologico italiano”; la ricerca in rete permette di recuperare anche lo spagnolo “defaunación del termito” in un testo datato al 1965; ciò nonostante, non mi risulta che la parola sia registrata dai principali dizionari delle lingue francese e spagnola, mentre trovo defaunation e il verbo (to) defaunate nella versione digitale del Merriam Webster’s Dictionary.
Ma che cosa significava defaunazione nei primi decenni del secolo scorso? Per comprenderlo, prendo dalla rete una citazione dal “Bollettino della Società italiana di biologia sperimentale” (1940, p. 221):
Ho defaunato successivamente mediante soggiorno in termostato alla temperatura di 37oC operai adulti tenuti su carta da filtro inumidita. La completa defaunazione veniva indi controllata su numerosi individui.
Gli “operai adulti” sono termiti e la fauna eliminata sperimentalmente è la fauna batterica presente nell’apparato digerente di questi insetti. Dunque qui defaunazione – come défaunisation / défaunation in francese, defaunation in inglese e defaunación in spagnolo – significa ‘rimozione degli organismi parassiti o simbiotici da un ospite’; è interessante registrare, nella citazione, l’uso del verbo defaunare, pure sconosciuto alla lessicografia italiana.
Già corrente tra biologi e zoologi nella prima metà del Novecento, con una significativa convergenza di più lingue nel processo di formazione del tecnicismo, la parola defaunazione ricompare oggi in un’accezione diversa: non un processo indotto per via sperimentale, bensì il risultato dei cambiamenti climatici, causati da diversi fattori e soprattutto dall’intervento umano, anche se non intenzionale.
Un tecnicismo linguistico: parasintetico
Il verbo defaunare (da cui defaunazione deriva) appartiene alla categoria dei verbi “parasintetici”; definiamo parasintetico un verbo formato da una base, nominale o aggettivale, a cui si aggiungono, simultaneamente, un prefisso e una desinenza verbale. In questo caso la base è il nome fauna, latinismo moderno introdotto dallo svedese Linneo nel 1746 (nella mitologia romana, Fauna è la moglie del dio dei boschi Fauno), e l’uso di fauna per ‘insieme degli animali di un determinato ambiente’ è relativamente recente in italiano, visto che i vocabolari etimologici lo attestano dal 1832.
Nel verbo defaunare e nel nome defaunazione il prefisso de- indica una trasformazione, suggerisce il passaggio da una condizione a un’altra, preannunciando un ristabilirsi della condizione iniziale; quest’azione è detta tecnicamente “reversativa”. In altri verbi il passaggio è evidente: per esempio, nel confronto tra regolare ‘dare una regola’, stabilizzare ‘rendere stabile’ e deregolare ‘togliere una regola’, destabilizzare ‘togliere stabilità’ ecc.; invece, nel caso di defaunare non si presuppone una precedente azione di *faunare ‘riempire di fauna’, ma tutt’al più l’esistenza, la presenza di una fauna. Del resto, l’assenza di una precedente forma verbale senza prefisso è la norma nei verbi parasintetici, e verbi simili a defaunare sono disboscare o sbucciare (*boscare e *bucciare non esistono, e per questo li contrassegno con un asterisco).
La scelta del prefisso e del suffisso (o della desinenza)
È stato calcolato che i verbi cosiddetti “reversativi”, che indicano un processo di rovesciamento di una situazione precedente, sono formati al 70% con il prefisso de-; seguono, per frequenza, quelli formati con dis- o con s-, come disboscare e sbucciare; ma la produttività di de- è cresciuta nella seconda metà del Novecento.
Quanto alla desinenza, sono di antica attestazione in italiano i verbi formati da nomi per “conversione”, cioè per passaggio di categoria grammaticale (per esempio gocciare da goccia), un processo che alcuni studiosi preferiscono definire di suffissazione zero, cioè aggiunta del morfema dell’infinito alla base senza altri elementi morfologici; antichi sono anche i verbi parasintetici, come arrivare o innamorarsi. Ma altrettanto antichi sono i verbi formati da una base perlopiù aggettivale con l’aggiunta del suffisso -izzare, un suffisso causativo di lontana origine greca, passato precocemente al latino, soprattutto tardo e medievale: volgarizzare ‘tradurre dal latino in volgare’ appare già nel Novellino, uno dei testi di prosa letteraria più antichi, composto in Toscana alla fine del Duecento.
Sulla scelta tra parasintesi e suffissazione agiscono almeno tre fattori: l’eufonia, l’analogia, la spinta contingente della tradizione e delle mode. Prendiamo volgarizzare: un virtuale *volgarare può essere stato frenato dall’effetto cacofonico della sequenza -arar-; si è però formato il parasintetico involgarire, con un’altra coniugazione verbale e significato diverso dell’aggettivo che costituisce la base. Da una parola come rendiconto, composta da rendere + conto, la lingua burocratica ha formato rendicontare per analogia con contare e raccontare, ma non un pur possibile *rendicontizzare. La preferenza per un dato suffisso può essere al tempo stesso eufonica e analogica: dagli aggettivi con il suffisso -ico (allergico, estetico, magnetico, sintetico, ecc.) si formano tendenzialmente verbi in -izzare con la caduta del suffisso -ico (che talvolta può conservarsi, come in politicizzare). Infine, la fortuna di un suffisso o di un modulo formativo può variare nel tempo: il suffisso verbale -izzare conosce più ondate di successo: nel Seicento (concettizzare, cristallizzare, fraternizzare, organizzare ‘ordinare, disporre’), e poi soprattutto nel Settecento (autorizzare, civilizzare, divinizzare, neutralizzare) e a fine Ottocento, specialmente nei linguaggi tecnico-scientifico e burocratico (centralizzare, idealizzare, legalizzare, polarizzare). Cercando i verbi in ‑izzare e i nomi in ‑izzazione nella base di dati elettronica M.I.Dia Morfologia dell'Italiano in Diacronia gli esempi si moltiplicano proprio nei periodi che vanno dal 1691 al 1840 e dal 1841 al 1947, trainati anche dall’adattamento sistematico delle parole francesi in -iser / ‑isation, e poi delle moltissime parole angloamericane create con questo stesso meccanismo. Nel vocabolario scientifico si crea dunque una “tradizione” internazionale che favorisce la scelta di determinati moduli formativi e l’abbandono o la marginalizzazione di altri; alcune “mode”, o meglio tendenze, sono appunto internazionali, e coinvolgono insieme all’italiano molte altre lingue, neolatine e no; nell’alternativa tra modellare e modellizzare è la seconda forma a presentare la maggior convergenza internazionale, come ha spiegato Simona Cresti.
Un bilancio e una proposta
Come si vede anche dai pochi esempi che ho riportato fin qui, il suffisso -izz(are) è di gran lunga vincente, rispetto ad altri suffissi causativi come -ific(are) ed -eggi(are), quando la base del verbo è un aggettivo; storicamente, ha questo suffisso il 94% dei nuovi verbi deaggettivali formati nella seconda metà del Novecento; lo stesso si può dire, con percentuali un po’ meno alte, per la formazione di verbi denominali (ospedalizzare, vocabolarizzare, ecc.).
Prendono il suffisso -izzare anche i verbi formati da sostantivi inglesi in -er o in -or (computerizzare, scannerizzare, sponsorizzare, e il più recente renderizzare ‘ottenere un’immagine realistica, a partire da un modello tridimensionale elaborato al computer’); negli ultimi anni si è tuttavia osservata una controtendenza, specialmente nella lingua colloquiale, a incanalare prestiti più recenti verso la suffissazione zero (o conversione che dir si voglia): monitorare ha avuto la meglio su monitorizzare, e spoilerare, attestato dallo Zingarelli già nel 2005, è oggi l’unica forma corrente; del resto, già nel 1964 Luciano Bianciardi annotava l’uso di triggerare – dall’inglese trigger ‘grilletto, innesco’ – per ‘far scattare, innescare’ (lo ricavo dal LIS Lessico dell’italiano scritto; sulla storia più recente di triggerare si veda l’ottimo studio di Simona Cresti). Qualche anno fa Tullio De Mauro coniava scherzosamente un possibile *polderarsi ‘unirsi in una cooperativa a scopi sociali’ dal neerlandese polder, a partire dall’inglese polder model (fr. modèle polder, ted. Poldermodell). Tuttavia, nella formazione di verbi denominali prefissati delle terminologie scientifiche, il suffisso -izzare / -izzazione convive con l’aggiunta diretta della desinenza verbale, senza suffisso, e sembra anzi essere la soluzione maggioritaria.
Tirando le somme, defaunazione non solo è attestato già da quasi un secolo, ma è formalmente corretto e forse preferibile a defaunizzazione, per ragioni di analogia e prassi morfologica, e forse un po’ anche per eufonia; è ora che i vocabolari lo registrino, e, approfittando – nella lingua – del modello dell’inglese refaunation e della presenza di parole come riforestazione formato su deforestazione, mi sento di suggerire che sarebbe opportuna e urgente anche una rifaunazione del pianeta (e rifaunazione come sinonimo di ripopolamento sta cominciando a circolare, anche se cercando in rete il 23 novembre 2023, ne ho trovato solo 30 attestazioni).
Nota bibliografica:
Riccardo Gualdo
26 aprile 2024
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