Marco Falconieri ci chiede la ragione delle due forme dissolto e dissoluto e la loro differenza di significato nell’italiano contemporaneo e nella lingua antica.
Dissoluto e dissolto
Dissolto e dissoluto risalgono alla stessa forma latina dissolutum, participio passato del verbo dissolvere, verbo composto sulla base di solvere, che già nel latino, a partire dal significato primario di ‘sciogliere, diluire’, aveva esteso le sue accezioni a ‘slegare’ (in particolare in ambito nautico ancoram solvere ‘levare l’ancora’), e ‘pagare, saldare un debito’ (rem / debitum solvere, nel senso di ‘sciogliersi dal vincolo del debito’). Accanto al significato generico di ‘sciogliere’ già il latino quindi prevedeva anche quelli di ‘slegare, sciogliere da vincoli’, derivanti dalla forma primaria luere (che con il prefisso se aveva dato seluere da cui solvere,) dal quale aveva ereditato le accezioni di ‘liberarsi da regole, da leggi stabilite e fisse’ (da luere in italiano abbiamo anche lussare, lusso e lussuria). Il participio passato dissolutum, nella sua funzione aggettivale, indicava quindi anche ciò che è ‘libero da leggi’ e, accanto a questo significato coesisteva, come naturale conseguenza, quello di ‘impunito, licenzioso’.
Nell’italiano antico la forma dissoluto conserva queste due accezioni, attestate entrambe fin dal Duecento ed è altrettanto precocemente affiancata da dissolto (che ne è la forma sincopata con caduta della prima u del suffisso latino –utum, fenomeno che si riscontra in altri casi simili, come ad esempio risoluto/risolto, involuto/involto, ecc.) che ha inizialmente solo il significato di ‘sciolto, slegato, liberato’, ma che nel corso dei secoli ha acquisito anche quelli di ‘decomposto, corrotto, putrefatto’ (dal Cinquecento in poi) e, dalla seconda metà dell’Ottocento, troviamo attestato anche con il valore di ‘scomparso, disgregato’ applicato in particolare a contesti civili e sociali (“un matrimonio dissolto”, “il tessuto sociale dissolto”).
Nel corso della storia dell’italiano la distribuzione semantica dei due participi/aggettivi ha visto una progressiva specializzazione che ne ha definito i contorni e selezionato i contesti d’uso: dissoluto (che tra Quattrocento e Cinquecento si afferma nel significato di ‘immorale, licenzioso’, visto che il principale derivato dissolutezza ha le sue prime attestazioni in pieno Cinquecento), nell’italiano contemporaneo, ha come primo valore quello di ‘sciolto da ogni freno morale, quindi libero da ritegno, sregolato, licenzioso, vizioso’ (questa la definizione del Vocabolario Treccani); dissolto ha assunto i tratti più metaforici della sfera semantica dello ‘sciogliere’ e si usa di preferenza in contesti astratti e traslati, con il significato prevalente di ‘disfarsi, andare in disfacimento’: “è stato dissolto ogni dubbio”, “la nebbia si era dissolta subito”, “sembrava dissolto nel nulla”, “il loro legame si era dissolto in poco tempo”. Alla voce dissoluto alcuni tra i principali dizionari dell’uso (in particolare Treccani, Zingarelli) continuano a riportare come prima accezione, sempre segnalata come caduta in disuso, quella etimologica di ‘sciolto, disciolto’, mentre altri, come il Devoto-Oli e il Sabatini-Coletti, l’hanno eliminata facendo così avanzare in prima posizione il significato di ‘sregolato, licenzioso, vizioso’, pressoché esclusivo nell’uso contemporaneo.
L’attuale sistemazione è stata senza dubbio favorita anche dalla presenza di almeno altri tre aggettivi della stessa area di significato, sciolto, disciolto (con suono palatale intenso iniziale che è l’esito del nesso latino [ks] di exsolvere, ma all’origine c’è sempre luere) e diluito: mentre questi tre aggettivi hanno conservato l’accezione più letterale e concreta di ‘sciogliere, diluire’ (“il medicinale va sciolto in un dito d’acqua”, “le nevi disciolte ingrossano i fiumi”, “la vernice può essere diluita con acquaragia”), dissoluto e dissolto hanno subito uno slittamento nella direzione di valori più figurati e astratti.
La ricchezza di forme che l’italiano offre per coprire questa area semantica non è sfuggita ad alcuni scrittori del Novecento che l’hanno anzi ben impiegata a fini espressivi e stilistici. Due esempi particolarmente significativi anche per la loro diversità: D’Annunzio e Gadda recuperano dissoluto nel suo significato originario di ‘sciolto, diluito, disperso’, il primo, attratto probabilmente dalla patina di classicità arcaizzante che l’aggettivo conserva, lo utilizza per definire la disgregazione di popoli ed eserciti (“Impotente contro la Russia, contro la Germania, contro l’Ungheria, contro popoli vinti e dissoluti, il Congresso è impotente verso una nazione vittoriosa”), il secondo invece, alla continua ricerca di mescidazione e ibridazione tra lingue e varietà di lingua, lo inserisce nella descrizione dello scioglimento di un dado cui attribuisce il nome allusivo e ironico di Sedobrol (“Prescrisse dei dadi di Sedobrol, dissoluti ognuno in una tazza d’acqua tiepida, un paio di volte al giorno”).
Lasciando ai grandi simili “licenze” nella scelta delle forme che la lingua, anche nella sua parabola storica, mette a disposizione, fa parte della nostra consapevolezza di parlanti la corretta selezione di questi diversi aggettivi negli usi comuni dell’italiano contemporaneo: preferire la forma etimologica dissoluto riferito a un processo di scioglimento rischia di creare ambiguità che, vista la varietà di aggettivi a disposizione, è decisamente bene evitare.
Usiamo quindi sciolto, disciolto, diluito quando ci si riferisca a qualcosa che si scompone mescolato ad acqua o altro liquido, dissolto per indicare la rarefazione di qualcosa di inconsistente come la nebbia o la sparizione apparentemente inspiegabile di qualcosa o qualcuno, e dissoluto nell’unico significato ormai corrente di ‘licenzioso, immorale, scandaloso, disonesto’.
Raffaella Setti
Redazione Consulenza linguistica
Accademia della Crusca
14 settembre 2012
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