Donne al lavoro (medico, direttore, poeta): ancora sul femminile dei nomi di professione

Ritorniamo qui su un argomento già trattato più volte nel sito ma che richiede frequenti aggiornamenti proprio perché il crescente ingresso delle donne in “nuove” professioni comporta l’uso di “nuove” forme e apre anche nuovi interrogativi e ulteriori richieste di chiarimenti. Per questo oltre a rimandare ai vari interventi in proposito già presenti su questo sito segnaliamo che l’Accademia della Crusca, insieme a "Repubblica", ha inteso offrire una serie di chiarimenti e informazioni sul tema con la pubblicazione di Sindaco e sindaca. Il linguaggio di genere.

Risposta

 

Donne al lavoro: ancora sul femminile dei nomi di professione

 

Le forme femminili riferite a ruoli istituzionali o professioni che stanno entrando nell’uso comune sulla scia dei progressi in campo lavorativo, professionale e istituzionale compiuti dalle donne sono perlopiù termini “trasparenti” per quanto riguarda la loro struttura morfologica perché seguono le più comuni modalità di formazione dei nomi:

 

(a) base che porta il significato + desinenza, come in ministr-a (cfr. maestr-a). Quando la desinenza è -e il termine femminile è uguale a quello maschile ma prende l’articolo femminile, es. la vigile

(b) base che porta il significato + suffisso + desinenza come consigl-ier-a (cfr. panett-ier-a).

 

Esistono però anche termini la cui formazione è meno trasparente e che possono generare qualche esitazione a usarli. Vediamo qualche esempio. I termini maschili testimone, pasticciere e scultore, nonostante abbiano tutti la desinenza -e, hanno una struttura morfologica diversa: testimon-e ha una struttura di tipo (a) mentre pasticc-ier-e scul-tor-e hanno una struttura di tipo (b). Per questo le forme femminili corrispondenti sono testimone, pasticciera e scultrice. Altre parole presentano una forma in -a identica per il maschile e il femminile singolare, che fa pensare a una struttura di tipo (a): è il caso di fiorista (il fiorista, la fiorista). In realtà la struttura è di tipo (b) perché contiene il suffisso greco, invariabile, -ista. La struttura di questo termine è dunque fior-ista e non *fiorist-a, e infatti non esiste la forma maschile *fioristo! La ricca morfologia dell’italiano è dunque responsabile delle comprensibili incertezze che suscitano alcune nuove forme femminili nei parlanti. Vediamo qui alcune forme femminili che ci sono state indicate come “problematiche” perché, rispettivamente, non erano state mai o solo scarsamente usate in passato (medica), oppure sono in concorrenza con altre più conosciute (poeta e direttora) o pongono dubbi riguardo alla loro declinazione plurale (pilota). Vediamo nel dettaglio questi casi.

 

Medica è “accettabile”? E dire medichessa “è possibile”?

In entrambi i casi la risposta è affermativa perché entrambe le forme sono attestate nella letteratura fin dai primi secoli: e ciò non deve sorprendere perché si hanno numerosi esempi di donne che esercitavano l’arte medica a partire dalle Mulieres Salernitanae, le Dame della Scuola Medica di Salerno dell’XI secolo, capeggiate da Trotula del Ruggiero. La forma medica è lemmatizzata nel Dizionario universale critico-enciclopedico della lingua italiana dell’abate Francesco D’Alberti di Villanuova (1797-1805) e nel Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini  come “s.f. di medico” con il significato di “Donna che esercita la medicina o ha una certa pratica nella cura delle malattie o che si dedica a curare una persona malata o ferita”. Se ne hanno esempi in Boccaccio, Il Corbaccio (“Sole che le ’ndovine, le lisciatrici, le mediche e i frugatori, che loro piacciono, le fanno, non cortesi, ma prodighe”); nel Tasso, La Gerusalemme liberata (“Tu chi sei, medica mia pietosa?”); nei Panegirici di Emanuele Tesauro (“mille personaggi diversi di mendica e medica, di matrona e di madre, di padrona e di ancella, di prefica e di sepellitrice”); nell'Angelica di Pietro Metastasio (“La medica cortese / non volle ch’altra mano al fianco infermo / s’accostasse giammai”). Anche la forma medichessa, che in D’Alberti è glossata con “s.f. di medico, ed è nome per lo più detto per ischerzo” con un rimando alla forma medicatrice, compare in varie opere: nella Fiera di Michelangelo Buonarroti il Giovane (“Questa donna mi pare una di quelle / donne saccenti che noi troviam spesso / per queste e quelle cose / far delle medichesse e delle faccendiere”); nelle Annotazioni sopra la Fiera di Anton Maria Salvini (“Dipintoressa, pittrice, dipignitrice, medichessa, dottoressa e simili, sono nomi detti per ischerzo”); nel Trionfo della morte di D’Annunzio, (“La signora seduta accanto a te era Margherita Traube Boll, una medichessa celebre”); in  Il diavolo a Pontelungo di Bacchelli, (“– Sono studentessa di medicina. – E brava – esclamò Salzano – brava la medichessa”). A partire dalla seconda metà dell’Ottocento medica è praticamente scomparso dall’italiano scritto (il corpus DiaCORIS non ne fornisce esempi). Medichessa viene difeso dal grammatico Raffaello Fornaciari nella sua Sintassi (1881) ma è attestato raramente e quasi sempre è usato ironicamente, come risultava già dal passo di Salvini visto sopra. Rispetto a medica, infine, medichessa sembra conservare tutt’oggi una connotazione legata ad attività e pratiche proprie dell’arte medica del passato ma che oggi sono assenti dalla professione, quali quelle di sacerdotessa guaritrice, di creatura dotata di poteri magici e di capacità divinatorie. Tutto ciò, unito alla disponibilità del termine formato semplicemente con base lessicale e desinenza (medic-a) che rende non necessaria la forma con il suffisso –essa, foneticamente più pesante, induce a suggerire l’uso della forma medica rispetto a medichessa. E infatti è questa la forma (sostenuta anche dalla condanna delle forme in –essa espressa da Alma Sabatini nel suo lavoro Il sessismo nella lingua italiana 1987!) che, nonostante qualche esitazione, comincia ad affacciarsi anche nel linguaggio della stampa: si veda il titolo La medica ti cura meglio di un articolo comparso nel blog di "Repubblica" Il fattore X, di Letizia Gabaglio ed Elisa Manacorda il 20.12.2016.

 

È opportuno usare poeta anziché poetessa? E direttora anziché direttrice?

Le forme poeta in riferimento a una donna e direttora si sono affiancate alle più note poetessa e direttrice a partire dalle proposte di Alma Sabatini (v. sopra). L’introduzione di poeta al posto di poetessa si lega alla richiesta della studiosa di evitare le forme in –essa sostituendole con forme senza suffisso: avvocata, dottora, professora, studente, ecc. anziché avvocatessa, dottoressa, professoressa, studentessa. Queste forme senza suffisso tuttavia, con l’eccezione di avvocata, non hanno avuto successo. Ma ciò non deve sorprendere perché, come regola generale, tra due forme prevale generalmente quella di più antica attestazione e quindi più nota e diffusa. L’italiano, lungo tutta la sua storia, testimonia l’uso del solo termine poetessa (mentre poeta è riservato solo all’uomo) per la donna che si dedica all’arte poetica, almeno fino dal Quattrocento: “Or se di voi pur, donne, alcuna avesse / di compor fantasia, / da queste poetesse / sarete messe per la buona via” (Canti Carnascialeschi I, 467).

La forma direttora è attestata già nel D’Alberti come “verb.f. Voce dell’uso. Coléi, che ha l’incombenza di dirigere, o regolar checchè sia. V. Direttore” e nel Tommaseo-Bellini come “S.f. che dirige (Fanf.)” ma senza esempi, che compaiono invece alla voce direttrice, attestata sia in D’Alberti “verb. f. Colei, che dirige” sia in Tommaseo-Bellini “Verb. F. di direttore”. È modellata sulle pochissime forme d’agente in –ora esistenti in italiano come pastora, tintora e lavoratora (quest’ultima anch’essa in concorrenza con quella in –trice, v. lavoratrice) e su quelle proposte da Alma Sabatini al posto delle forme in –essa viste sopra (dottora, professora, ecc.). Su queste forme si veda l’osservazione di Giuseppe Meini nella Prefazione del 19 marzo 1879 al Dizionario di Tommaseo Bellini: “(XXXV) Come l’uso talvolta si svincoli dalle norme generali, lo dicono i femminini in ice, nei quali traduconsi i mascolini in ore, quando trattasi d’azione da potersi applicare alle femmine. Se non che, nel linguaggio familiare, taluni in quella vece finiscono in ora, come stiratora, tessitora; e anche queste eccezioni possono servire alla proprietà, distinguendo, per esempio, la povera tessitora che campa dell’onesta fatica delle sue mani, dalla dottoressa tessitrice di versi, e dalla galante tessitrice d’inganni”. Direttora rappresenta un neologismo secondo Giovanni Adamo e Valeria Della Valle (Neologismi quotidiani: un dizionario a cavallo del millennio, 1998-2003, Leo S. Olscki, 2003), che glossano il termine con “Donna che dirige un istituto, un’azienda, un’attività; talvolta, con sfumatura ironica e scherzosa, moglie e collaboratrice di un direttore”, e ne riportano come primo esempio questo: "Quando [Maria Antonietta Macciocchi] arrivò a Mosca, da direttora di Noidonne” (Foglio, 30 settembre 1998, p. 2). Il termine tuttavia compare già tre anni prima in un articolo di Elvira Naselli, Direttrice o direttora?, uscito su "Repubblica" del 26 febbraio 1995: “L’unica eccezio­ne parrebbe quella di Daniela Brancati, direttrice del Tg3, che i suoi redattori chiamano, in sprezzo a ogni logica sintattica, la di­rettora. Il perché lo spiega Neliana Tersigni, inviata: “Direttrice ci sembrava una cosa troppo scolastica, e poi noi non siamo certo scolari. Dunque, la direttora”. L’intento con cui è stata introdotta la forma direttora negli anni Novanta è stato infatti quello di disporre di un termine per indicare la donna che ricopre un ruolo dirigenziale diverso da quello relativo alla scuola, al quale riservare il termine direttrice. Ma uno sguardo alla storia del termine direttrice ci rivela che esso (originariamente un aggettivo del linguaggio geometrico, v. la linea direttrice, da cui il sostantivo direttrice) veniva usato tra Otto e Novecento per indicare funzioni dirigenziali non esclusivamente scolastiche: “Io, a dir vero, non parlai che con una tedesca e con una direttrice di scuola” (Carducci, Lettere); “Tua sorella Clementina è ancora direttrice dell’Ospedale dell’Annunciata a Genova” (De Marchi, Arabella); “Tentai di scrivere una lettera alla direttrice di un’agenzia di collocamento” (Deledda, Il sigillo d'amore). Direttora si rivela quindi un neologismo non necessario, e inoltre fortemente connotato dal suffisso -ora che lo accomuna ad altri neologismi di poca fortuna (v. sopra). Sembra quindi preferibile l’uso di direttrice anche per ruoli dirigenziali diversi da quello scolastico, come del resto sta già avvenendo (“Fabiola Gianotti, direttrice del CERN” intitolava "la Repubblica" del 28.12.2014): in breve tempo la sfera semantica del termine si amplierà di conseguenza.

 

Il femminile di pilota può essere pilotessa? E se no, qual è il plurale?

La declinazione del termine è uguale a quella di altri termini di origine greca in -ota (per es. idiota e patriota). Al singolare esce quindi in -a sia per il maschile sia per il femminile (pilota, ma i dizionari ottocenteschi attestano anche la forma piloto), mentre al plurale esce in -i per il maschile (piloti) e in -e per il femminile (pilote).  La forma pilotessa risulta attestata solo in anni recentissimi ed è modellata su altri termini in -essa, v. il titolo “Da pilotessa di guerra a profetessa dei droni”, Dronezine. La prima rivista sui droni, 21.10.2013. Costituisce quindi un neologismo non necessario, vista la possibilità di usare anche al femminile la forma pilota.

 

Cecilia Robustelli

 

21 febbraio 2017


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