A tendere: l’“aziendalese” dietro l’angolo

Due lettori chiedono ragguagli sulla locuzione, molto rara, a tendere, per dire ‘in futuro, prossimamente’.

Risposta

Dal momento che si tratta di un’espressione settoriale, è utile segnalare che uno dei nostri lettori scrive di averla sentita in qualche riunione del settore commerciale di Posteitaliane (a tendere, raggiungeremo il budget; a tendere arriverà un prodotto rivoluzionario; a tendere ci doteranno di auto per visitare i clienti).

In realtà si tratta di una locuzione non registrata nei repertori lessicografici dell’italiano, molto recente (è difficile reperirla prima del 2000 interrogando Google e Google books), ma anche molto circoscritta e settoriale, tipica del gergo dell’economia aziendale, di quell’“aziendalese” su cui anche questa rubrica si è ogni tanto soffermata (e cfr. Lubello 2014, pp. 55 e 98).

Sembrerebbe, a prima vista, una forma ellittica di una struttura più lunga e complessa che potrebbe essere ‘modello, obiettivi, scopi a cui tendere, da realizzare’. In realtà l’origine è ravvisabile in un’espressione inglese più complessa, propria dell’economia aziendale, as is / to be, che distingue ‘ciò che è’ (quindi lo stato delle cose) da ‘come dovrebbe essere’ (quindi come le cose dovrebbero diventare): a tendere corrisponderebbe nella fattispecie all’inglese to be. L’uso di tali espressioni, inglesi e italiane, attiene solitamente a contesti riguardanti il miglioramento dei processi aziendali che quindi vanno fotografati sia nella situazione di partenza, il modello esistente (as is), sia in quella futura, il modello da prevedere (to be / a tendere).

Riporto un chiarimento tecnico molto utile dalla pagina Business process modeling di Wikipedia:

In questo campo l’attività di rappresentazione dei processi aziendali è divisa nelle due ottiche:
• la situazione attuale, detta “as-is”
• la situazione futura desiderata, detta “to-be”
La mappatura dei processi reali (“as-is”) e di quelli a tendere (“to-be”) sono due attività di analisi nettamente distinte, che portano a definire i miglioramenti necessari per passare dai processi rilevati nell’“as-is” a quelli formalizzati nel “to-be”.

Ma abbiamo anche esempi di usi, sempre di ambito aziendale, in cui all’inglese to be corrispondono espressioni italiane più chiare:

1. “una mappatura delle competenze esistenti (as is) e attese (to be) consentono di misurare il gap…” (Agenda Digitale, 29/6/2018;
2. “Passiamo cioè dal AS IS (come è il processo, la fotografia fatta) al TO BE (come dovrebbe diventare)” (Agenda Digitale, 8/3/2017).

Gli esempi forniti dal nostro lettore sono simili ai pochi che si trovano cercando sul web (ultima consultazione al 19/3/2021); ne riporto uno con un po’ di contesto, tratto da una pagina di Posteitaliane, datata 2012, dal titolo, Strategie di ottimizzazione del cash delivery, in cui Stefano Grassi, allora Direttore della Tutela Aziendale di Poste Italiane, rispondendo all’intervistatore, usa a tendere per dire ‘in futuro’:

Superata la fase pilota, stiamo implementando l’ottimizzazione e il forecasting per tutti i 14mila uffici. […] Grazie a queste caratteristiche, stiamo customizzando gli algoritmi in modo che il sistema possa calcolare l’equilibrio finanziario di ciascun ufficio in base alle sue peculiarità operative e finanziarie. A tendere, avremo 14mila algoritmi di riferimento che si autoalimentano e si aggiornano dinamicamente sulla base dei flussi in arrivo.

L’espressione, almeno per ora, non ha travalicato i confini dell’uso settoriale (dell’economia aziendale) e quindi degli addetti ai lavori per i quali l’espressione è perspicua.

Mi permetto una riflessione più generale. Possiamo dire poco sul futuro di alcune parole / espressioni nuove, specie se gergali o settoriali come nel nostro caso. Ma sappiamo con certezza che l’aziendalese con tutto il suo armamentario lessicale è spesso a un passo dalla lingua d’uso: ne conosciamo bene molti termini che sono passati perfino nel linguaggio ministeriale a proposito di scuola, università e ricerca (mission, manager, credito/debito, meeting, agenda planning, customer satisfaction, ecc.; cfr. Lubello 2018). All’aziendalese, o meglio alla “infima e corrotta aziendalità” (Antonelli 2016: p. 68) appartengono vari termini inglesi poco noti o simil-inglesi o varie formazioni bizzarre e incomprensibili: nel marzo 2018 fece scalpore un Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria del MIUR (sul quale si sono espressi in modo perentorio e giustamente duro non solo il Gruppo Incipit, nel suo comunicato stampa n. 10 intitolato Sillabo per l’imprenditorialità o sillabario per l’abbandono della lingua italiana?, ma anche Raffaele Simone sull’“Espresso”), intriso non solo di anglicismi tecnici opachi, ma anche di vari “cascami di cultura aziendale”.


Nota bibliografica:

  • Antonelli 2016: Giuseppe Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione 2.0, Bologna, il Mulino, 2016 (II ed.).
  • Lubello 2014: Sergio Lubello, Il linguaggio burocratico, Roma, Carocci.2014.
  • Lubello 2018: Sergio Lubello, Buone e cattive pratiche burocratiche, in Dalla semplificazione all’openness. Il terzo manuale di comunicazione istituzionale e internazionale, a cura di Raffaella Bombi, Roma, Il Calamo, 2018, pp. 117-130.
  • Simone 2018: Raffaele Simone, Abuso dell’inglese e modello aziendale: così il ministero distrugge la scuola, “L’Espresso” 11/3/2018.



Sergio Lubello

31 gennaio 2022


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