Diversi lettori hanno richiesto chiarimenti sul corretto uso, grammaticale o semantico, di una classe omogenea di aggettivi, tutti indicanti vicinanza spaziale o figurata fra due o più entità. In particolare, sono state richieste risposte sul significato e sulla reggenza grammaticale di adiacente, sulla differenza semantica e sul corretto uso di attiguo e contiguo, sul significato e sulla morfologia di limitrofo, su cosa intendere con l’espressione immediate vicinanze.
Cominciamo col dire che, nello stesso àmbito semantico, sono disponibili, come vedremo, altri aggettivi, spesso presentati come sinonimi nei dizionari, ma in realtà non sempre sovrapponibili per significato o per contesto d’uso: finitimo e contermine; ravvicinato, accostato (nell’uso toscano accosto), attaccato (di uso familiare; regionalmente, anche appiccicato); e i più generici prossimo, vicino, circostante e circonvicino. In vari quesiti posti dai lettori traspare l’aspettativa di un chiarimento che possa essere rilevante per la corretta lettura di una norma o per fini giudiziali: a questo proposito, dopo una disamina dei singoli quesiti e delle rispettive risposte, aggiungeremo una postilla finale.
Adiacente: costruzione e significato
Il primo quesito («È più corretto dire “adiacente la casa” oppure “adiacente alla casa”?») ci viene posto da otto lettori e lettrici, di varia provenienza.
Va senz’altro detto che la costruzione corretta è quella adiacente a, quindi indiretta, con reggenza preposizionale in a, secondo l’uso attualmente prevalente e nel rispetto della tradizione. La necessità di esprimere un complemento (o un argomento, utilizzando un termine tecnico della linguistica moderna) è posta dalla derivazione verbale dell’aggettivo: dal punto di vista etimologico, infatti, adiacente deriva dal latino adiacentem, participio presente del verbo intransitivo adiacēre, che, riferito a entità spaziali, significa ‘stare accanto, giacere a fianco; estendersi, distendersi, collocarsi, essere situato vicino a’. Il verbo latino si costruiva con ad + accusativo (meno comunemente con il dativo). Pertanto, anche l’italiano adiacente, nel senso di ‘che sta accanto a, prossimo a’, richiede un complemento ed eredita dal latino la reggenza con la preposizione locativa a.
Precisiamo però che l’aggettivo può essere usato anche in modo apparentemente assoluto (la casa adiacente; in geometria, con significato specifico, angoli adiacenti): in questi casi si verifica un’ellissi di un complemento, che è deducibile però dal testo o dal contesto (l’abitazione e il giardino adiacente: si intende, adiacente all’abitazione), ovvero si tratta di usi in cui l’aggettivo, al plurale, abbia valore reciproco: angoli adiacenti, case adiacenti (si intende, l’una rispetto all’altra). Ma laddove segua un argomento, la disamina lessicografica, l’analisi dei testi e l’uso corrente dimostrano agevolmente che la costruzione indiretta del complemento è la più diffusa: il Grande Dizionario della Lingua Italiana (GDLI), maggiore interprete della tradizione della nostra lingua, riporta esempi dal Trecento alla metà del secolo scorso, tutti con la costruzione preposizionale in a; una recente indagine, fondata sulla consultazione del PTLLIN Primo Tesoro della Lingua Letteraria Italiana del Novecento curato da Tullio De Mauro, e in particolare sui romanzi vincitori del Premio Strega dal 1947 al 2006, ha verificato che su 23 casi pertinenti, 21 volte adiacente è seguìto dalla preposizione. D’altra parte, la solidità della costruzione è mantenuta anche dall’analogia con altre costruzioni locative, più diffuse e direttamente confrontabili: vicino a, accanto a, accosto a, a fianco a, intorno a, prossimo a e simili, che richiedono senza dubbio la preposizione.
Vero è che in latino era possibile anche la costruzione diretta con l’accusativo semplice, come accadeva spesso nei verbi intransitivi ove si avvertisse la presenza della preposizione nella composizione del verbo (adiacēre è composto di ad + iacēre), così da evitare la ridondanza preposizionale. Ma non crediamo che oggi tale consapevolezza, tipicamente dotta, possa influire sulla soppressione della preposizione nell’italiano, né tanto meno autorizzare il costrutto. Sulla costruzione diretta avrà piuttosto influenza, oltre alla generale tendenza alla semplificazione grammaticale e allo smarrimento della derivazione verbale di adiacente nella coscienza etimologica del parlante, l’analogia con i seguenti fenomeni, originariamente non corretti ma oggi molto frequenti, e non solo nell’uso informale:
1. l’omissione della preposizione a in locuzioni preposizionali come riguardo a “con riferimento a, in quanto a” (riguardo l’accaduto, riguardo la scuola, ecc.; ma la preposizione si mantiene nella versione più colta con riguardo a), e altre con valore propriamente locativo: vicino a (è il tipo vicino casa, vicino scuola), intorno a. Si osservi che anche riguardo a, in quanto connesso con sguardo e guardare, rivela, pur nell’uso figurato oggi esclusivo, un’origine locativa. Su riguardo a l’Accademia della Crusca si è già espressa in questo articolo.
2. la costruzione diretta di alcuni participi presenti del tipo inerente, attinente, afferente, prevalentemente di ambito burocratico, sui quali la Crusca è già intervenuta, rinviando alla nota che Valeria Della Valle e Giuseppe Patota hanno dedicato alla questione nel loro Il Salvaitaliano (Milano, Sperling & Kupfer, 2000, p. 218). Al modello corretto di facente, ledente, implicante invocato dagli autori, aggiungerei soprattutto l’analogia con la costruzione diretta di riguardante, in questo caso corretta, e del meno comune prospiciente.
Riguardo invece al significato di adiacente, sul quale diversi lettori hanno richiesto il nostro parere (quale sia la differenza fra adiacente e contiguo, e se adiacenza implichi sempre accostamento, contatto, ecc.), va detto subito che non è sempre possibile definire in modo univoco la semantica dell’aggettivo, che può variare in base ai contesti: adiacente può infatti significare sia ‘vicino’, sia ‘confinante, attaccato’ (questa la definizione del GDLI: “posto vicino, accosto, a fianco; attiguo, contiguo, confinante”, con riferimento a luoghi, terre, spazi, edifici; in modo analogo si esprimono diversi dizionari dell’uso). Come vedremo, la stessa indeterminatezza caratterizza l’uso che in vari contesti viene fatto di voci analoghe come attiguo, contiguo e limitrofo.
In effetti, una strada adiacente può essere una via parallela, con un isolato interposto (nell’espressione la piazza e le vie adiacenti l’aggettivo indica genericamente le vie intorno, le strade vicine); e con adiacenze si intendono ‘i dintorni, il circondario’. Pertanto, adiacente non è sempre sinonimo di confinante (e in tal senso risulterebbe imprecisa la definizione di confinante riportata in un moderno dizionario dell’uso: “Che è o che sta in un territorio o in un’abitazione adiacente”). Solo nel significato tecnico della geometria, con riferimento ad angoli e lati, adiacente implica contatto diretto. È possibile che questo uso più specifico, che ricorre in nozioni elementari di geometria scolastica, condizioni anche il significato comune di adiacente. E probabilmente per questo motivo anche nel settore tecnico dell’edilizia e della disciplina del territorio i concetti di adiacente e di adiacenza, riferiti a locali, manufatti o terreni collocati sullo stesso piano, sembrano più spesso implicare una immediata contiguità, senza interposizioni che non siano rappresentate da un confine fisico o materiale. In passato, per indicare un contatto immediato, era anche possibile utilizzare aderente: “La porticina […] metteva in camera di Elia, aderente alla mia” (Vittorio Alfieri, Vita).
Detto questo, e tenendo in conto la possibilità di usi più generici, sembra comunque improprio definire adiacente una farmacia “collocata a circa metri 500 da un Centro Commerciale” (come scrive un nostro lettore); né si direbbero adiacenti terreni che semplicemente insistano sullo stesso territorio (quesito di un altro lettore).
Attiguo e contiguo: sono sinonimi?
Veniamo ora ad analoghi quesiti, posti da due lettori e una lettrice: la differenza di significato fra attiguo e contiguo e il loro corretto uso.
Va osservato in primo luogo come non sempre due o più termini che condividano astrattamente lo stesso significato risultino di fatto utilizzabili nelle stesse situazioni comunicative, e siano quindi sempre scambiabili e dunque realmente sinonimi: potrebbe esserci infatti una differenza di stile, ovvero una delimitazione di contesti d’uso, per cui alcuni termini vengono utilizzati solo con riferimento a determinati argomenti (non si direbbe poltrone limitrofe: vedi oltre). D’altra parte, non sempre è possibile invocare l’etimologia per determinare l’uso corretto di una parola: nel corso della storia linguistica è infatti del tutto normale, né deve essere visto come fenomeno negativo, che le parole modifichino il proprio significato o ne sviluppino altri, per lo più a partire da un’estensione o da una restrizione di quello originario.
Passando quindi ad attiguo (“assai vicino, che confina; prossimo; adiacente”) e contiguo (“che sfiora, che è accostato a un’altra cosa in modo da toccarla; posto nella vicinanza immediata, prossimo; vicino; confinante; che si trova, che abita nei pressi”), osserviamo che le definizioni del GDLI appena menzionate, come quelle di altri dizionari storici e dell’uso, non rilevano particolari differenze semantiche fra i due termini: perché se è vero che l’uno e l’altro sembrano presupporre un effettivo accostamento e contatto (secondo l’etimologia, entrambi dal verbo latino tangĕre ‘toccare’; in tal senso il sinonimo più adeguato, nell’uso familiare, sarebbe attaccato), è altrettanto dimostrabile che sia attiguo sia contiguo possano essere utilizzati anche con il significato più generico di ‘molto vicino, prossimo’, quindi senza necessità che gli elementi così avvicinati si incontrino. Fra ciò che, rispetto a un altro elemento, è “vicino, circostante”, oppure “accostato” o infine “coincidente”, esistono differenze reali che non sempre il nostro repertorio lessicale esprime in modo univoco. La distinzione, nel senso di una progressiva restrizione della distanza, è bene osservabile in questa definizione che della voce Castello ci offre il Tommaseo vocabolarista, autore del più importante dizionario italiano dell’Ottocento (Tommaseo-Bellini 1861-1879): “Grandioso edifizio di abitazione signorile, isolato generalmente sopra un poggetto che può trovarsi fra campagne ovvero prossimo, attiguo e talvolta anche posto nel centro di un borgo o città…” [corsivo nostro].
Osservo di passaggio che la minore distanza fra due spazi, terreni, enti amministrativi, ecc., può essere espressa con il latinismo viciniore, a dire il vero tipico del linguaggio burocratico, che significa appunto ‘più vicino’ (la sede viciniore; nei centri viciniori; il termine deriva dal comparativo di maggioranza del latino vicinus, ma l’articolo determinativo, che pressoché sempre precede il nostro termine, attesta che nell’uso italiano viciniore rappresenta un superlativo relativo, ed è quindi sinonimo di prossimo nel significato etimologico del termine).
Tornando ad attiguo e contiguo, una nota dello stesso Tommaseo privilegia il senso più ristretto di contiguo: “Dicesi delle parti componenti un corpo fra di loro separate, ma che l’una sia al contatto dell’altra”. Interessante, ma forse non del tutto persuasiva, l’osservazione presente nel Dizionario dei sinonimi della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Giuseppe Rigutini (Milano, Vallardi, 1925, 2a edizione; la prima edizione, pubblicata senza data, è del 1905): “Attiguo è men di contiguo; s’accosta, ma non combacia, se non forse in uno o in pochi punti”.
Da un punto di vista diverso, si potrebbe invece osservare che attiguo sembra richiamare più limitatamente un affiancamento su un piano orizzontale, sullo stesso livello (non definiremmo né attigua né adiacente una stanza collocata al piano sottostante; in ciò concorre anche il significato della preposizione latina ad; il Devoto-Oli definisce attiguo ciò che è “disposto in modo da consentire il passaggio immediato”); contiguo sembrerebbe invece più estensibile nella direzione dello spazio (un esempio antico, dell’Ottimo commentatore della Commedia dantesca: “questo mondo di sotto è contiguo a quello di sopra”). Ciò può determinare che contiguo, avendo valore più esteso, possa essere impiegato, sebbene non comunemente, anche sul piano temporale (“vicino nel tempo”, in alcuni dizionari dell’uso: accadimenti contigui) e in usi figurati: due progetti contigui (ma non due progetti attigui); “vizio contiguo a l’umiltà, ch’è la bassezza” (Tasso, Lettera a Scipione Gonzaga, 14 giugno [1576]); “Sensi, Idee contigue” è l’esempio riportato nel Tommaseo per il significato traslato (nel linguaggio della logica, esiste anche il tecnicismo contiguità). Ma nello stesso autore si legge: “Soggetto attiguo al nostro argomento. Dice meno che Attenente”; da parte sua, il Palazzi-Folena registra un diverso uso figurato di attiguo, piuttosto insolito: “simile, concordante: essere su posizioni attigue”. Il solo Vocabolario Treccani 2014 riporta un uso figurato di contiguo riferito a persone che abbiano interessi comuni, in genere disonesti.
Contiguo sembra inoltre essere più adeguato anche nel descrivere non una generica situazione di adiacenza, ma di accostamento di elementi analoghi, sia reali sia figurati, in una successione lineare e seriale. Nel seguente esempio di Silvio Pellico, contiguo suggerisce che le celle dello Spielberg erano probabilmente disposte lungo una fila: “Maroncelli e io fummo condotti in un corridoio sotterraneo, dove ci s’apersero due tenebrose stanze non contigue” (Le mie prigioni, capo LVII). Ugualmente in Dino Campana: “contigui uguali gli archi perdendosi gradatamente nella campagna tra le colline fuori della porta” (Canti Orfici, con riferimento al lungo portico di San Luca, extra moenia, a Bologna; è bene precisare che gli esempi poetici e letterari, nelle nostre ricerche, vengono spesso scelti non per la loro autorità nell’uso presente della lingua, ma per l’efficacia rappresentativa che spesso possiedono). La stessa idea di sequenza/ricorrenza, ma stavolta temporale, dello stesso elemento, è espressa in queste parole di Gadda: “in occasione d’una contigua sigaretta” (cioè ‘successiva, seguente’; L’Adalgisa).
Contiguo, infine, ha significati tecnici che attiguo non possiede, specifici del linguaggio della matematica (classi contigue) e della geometria (riferito ad angoli e lati di un poligono).
Ma forse non è il caso di sottilizzare troppo in astratto, di fronte alla possibile variabilità degli usi e sulla base di singoli esempi a volte espressione di usi estemporanei. Passando quindi a una circostanza specifica, ritengo che al quesito di un nostro lettore («due tratti dello stesso mare, al di qua ed al di là di una scogliera lunga circa 200 metri, si possono considerare “contigui”?») si possa senz’altro rispondere positivamente: confinante, adiacente, attiguo, contiguo, presuppongono tutti la presenza di più realtà (case, terreni, angoli geometrici) che giacciono accanto, ma comunque distinte attraverso un confine fisico (una linea reale o ideale, una recinzione, una parete), senza il quale l’entità sarebbe unica. Proprio in virtù di questa condizione, ovvero l’interruzione della continuità, contiguo si contrappone a continuo.
Al quesito di un altro lettore (“…vorrei sapere la differenza in Italiano tra attiguo e contiguo e quale dei due aggettivi si può usare in riferimento a Paesi confinanti”) si può rispondere che contiguo, con riferimento geografico a popoli e nazioni, è sicuramente più attestato nell’uso e nella tradizione letteraria: paese, territorio contiguo; “recuperare il Polesine di Rovigo, paese contiguo e molto importante alla sicurtà di Ferrara” (Guicciardini, Storia d’Italia). Nell’uso anche il corrispondente sostantivo astratto: contiguità geografica, territoriale; “gli Olandesi [...], per la contiguità dei confini, erano esposti i primi a sentire la tempesta delle armi francesi” (Carlo Botta, Storia d’Italia; ma nello stesso autore: “gli Austriaci, non solo vicini, ma attigui all’incendio della guerra”). Ma a dire il vero, quando ci sia riferimento a territori e popolazioni, sono attualmente più consueti gli aggettivi limitrofo e confinante, sui quali diremo fra poco. Inoltre, l’italiano presenta anche, come sinonimo di confinante, ma di uso molto poco comune, la parola finitimo (latino finitĭmus, da finis ‘confine’), che appunto si riferisce, in particolare, a Stati, regioni, province, comuni, popoli e abitanti (nella tradizione anche sostantivato, al plurale: i finitimi, cioè le popolazioni confinanti); essendo di uso letterario, l’aggettivo si rinviene utilizzato anche in senso figurato (leggiano in una prosa di Giovanni Pascoli: “La Caina punisce un peccato che è sì superbia, ma è finitimo all’invidia”, Minerva oscura, Livorno, 1898, p. 164). Con ciò crediamo di aver risposto al dubbio di un altro lettore.
Va peraltro osservato che finitimo, come adiacente, attiguo e contiguo, può assumere il significato più generico di ‘vicino al confine’ e senz’altro quello di ‘vicino, prossimo’, senza implicare di necessità una situazione di immediato accostamento; cosicché, in quasi tutti i dizionari storici e dell’uso che abbiamo consultato, tutti questi termini sono proposti come possibili sinonimi l’uno dell’altro. Più avanti diremo qualcosa sulle analoghe e ricorrenti discussioni che sono sorte in àmbito giuridico e giurisprudenziale intorno al senso non condiviso di limitrofo, e perfino intorno al significato di confinante. Per ora osserviamo solo che, ogni qualvolta si pongano esigenze di espressione precisa e di interpretazione univoca, soprattutto in àmbito giuridico-legale, è comunque possibile utilizzare l’aggettivo contèrmine, che in italiano, giusta l’etimologia (dal latino contermĭnus ‘confinante’, da cum + termĭnus), significa ‘che condivide lo stesso confine’.
Attiguità
C’è un lettore che dubita dell’esistenza del termine attiguità, e resta comunque perplesso nei confronti di un suo utilizzo in letteratura. Per quanto di uso non comune, la voce attiguità esiste, significa ‘l’essere attiguo; vicinanza o prossimità reciproca’, ed è registrata sia nel GDLI (che tuttavia non riporta esempi), sia in vari dizionari dell’uso contemporaneo, fra cui il GRADIT, curato da Tullio De Mauro. Assente come lemma nel grande Vocabolario Treccani, è tuttavia riportato nel più ridotto Dizionario e nel dizionario dei sinonimi dello stesso Istituto come equivalente di adiacenza e contiguità.
Nulla da eccepire pertanto sul piano storico e lessicografico. Cadono particolarmente opportune due notevoli citazioni colte rinvenute a questo proposito: la prima nei memorabili Saggi ladini di Graziadio Isaia Ascoli, dove il grande linguista parla di “comunanza ed affinità di fenomeni che derivino da attiguità genetica” (in “Archivio glottologico italiano”, I, 1873); la seconda del critico letterario Marcello Aurigemma (1920-1992), con riferimento alla struttura topografica dell’Inferno dantesco: “l’attiguità con lo Stige della città di Dite” (voce L’Inferno nella Commedia, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970).
Non c’è quindi ragione di sconsigliare l’uso di attiguità, tanto più in un testo letterario, dove maggiore spazio si concede alla creatività dell’autore e all’espressione insolita. Del resto, su un piano più strettamente paradigmatico, la coppia attiguo/attiguità è del tutto analoga a quella contiguo/contiguità, e probabilmente su questo modello è stata creata la nostra voce: l’analogia è uno dei moventi storici della necessaria evoluzione della lingua, e anzi, rispetto ad altri fenomeni di innovazione, garantisce il vitale sviluppo del linguaggio nell’ambito delle regole del proprio sistema.
Con l’occasione, segnaliamo che nel lessico italiano è presente anche il termine confinanza, certo non comune, in uso nell’italiano antico (ricorre ad esempio in una lettera di Paolo Segneri, secolo XVII: “confinanza di Stato altrui”) ma oggi recuperato nel linguaggio giuridico, come vedremo più avanti attraverso alcuni esempi.
Limìtrofo: origine e significato
E veniamo infine a limìtrofo, Per ciò che riguarda la grammatica, rispondendo a una lettrice e a un lettore, precisiamo che la morfologia di limitrofo è regolare, in quanto il termine si declina sul modello di buono/buona/buoni/buone, in accordo con il genere e il numero del sostantivo.
Può essere interessante e certo utile, per la storia e il significato del termine, ricordare la sua trafila etimologica, che prende inizio dal latino tardo limitrŏphus, già presente nel Codice Teodosiano: si tratta di un composto ibrido, formato dal latino limes -mĭtis (per semplificazione, ‘limite, confine’; la parola è tuttavia spesso utilizzata impropriamente nei testi di storia romana) e dal greco τρέϕω ‘nutrire’ (per questo motivo, secondo il Tommaseo, “nel Cod. Teod. dovrebbesi dire Limitotrofo”). Con riferimento al tardo impero romano, i terreni limitrofi erano quelli che fornivano le vettovaglie per le guarnigioni di confine. Ma la parola, quasi certamente, proviene all’italiano indirettamente, attraverso la mediazione del francese limitrophe, nella seconda metà del Settecento.
Concludiamo questa nota etimologica con un breve cenno su limitaneo, sinonimo di limitrofo e finitimo, che significa appunto ‘che appartiene o si riferisce ai confini; che è situato in zona di confine’, e che ritroviamo già nel tardo latino in espressioni del tipo milites limitanei, agri limitanei (‘terreni che segnano il confine’), e simili. Il termine in italiano è di uso letterario nel significato generico, ma è tuttora utilizzato nel linguaggio degli antichisti a indicare i soldati che, dopo le riforme di Diocleziano e di Costantino e in contrapposizione ai comitatensi, erano di stanza alle frontiere dell’Impero come contadini-soldati, e perciò risiedevano nel fondo dato in loro possesso e si dedicavano anche alla bonifica e alla coltivazione dei territori di confine.
Ma veniamo ora al significato odierno di limitrofo. Come già detto prima, ricordiamo che, dal punto di vista semantico, alcuni termini vengono di fatto utilizzati solo riferendosi a determinati referenti. Esaminando le registrazioni dei dizionari storici, si può verificare che limitrofo è stato utilizzato pressoché sempre con riferimento a Stati, nazioni, territori, popolazioni, poi anche agli enti amministrativi secondari (province, comuni, ecc.): ossia, secondo l’etimologia, sempre in ambito geopolitico (e già il Tommaseo eccepiva su questa estensione di significato rispetto all’etimo: “Ma non è proprio se non de’ terreni; e ora lo dicono de’ paesi in generale che confinano intorno, e degli abitanti. Inutile”). Solo da alcuni decenni, a quanto pare, la parola comincia ad essere utilizzata nell’edilizia e nell’urbanistica, con riferimento a fabbricati, strade o porzioni urbane. L’unica fonte lessicografica da me rinvenuta che, attualmente, attesti questo uso estensivo è il Wikizionario – Il dizionario libero.
Premesso tutto questo, l’espressione poltrone limitrofe per “poltrone accostate”, che suscita perplessità in una lettrice, sembra certo insolita. Allo stesso modo, la tradizione e l’uso registrano raramente usi figurati di limitrofo, neppure con riferimento a nozioni temporali (“giorni limitrofi, è corretto?”, chiede un lettore); uso che invece il Sabatini-Coletti registra, anche se non comune, per il termine contiguo (“vicino nel tempo: due accadimenti contigui”). Queste considerazioni ovviamente non vietano la possibilità di usi personali e “creativi”, come vediamo in questo esempio di Giosue Carducci: “i discenti […] bloccano le scuole con tumulti interni esterni e limitrofi” (Agitazione universitaria, “Gazzetta dell’Emilia”, 28/2/1897); oppure, più recentemente (2013), in un testo di filosofia del diritto di Letizia Gianformaggio: “mi rivolgo al settore, limitrofo, della filosofia morale”. E si ripensi alla contigua sigaretta dell’Ingegnere, sopra menzionata, oppure alla seguente similitudine del Carducci delle Odi barbare: “I poggi sembrano capi di tignosi ne l’ospitale, / l’un fastidisce l’altro da’ finitimi letti” (Libro II, Pe ’l Chiarone Da Civitavecchia, vv. 7-8).
Confinante o limìtrofo? Una questione normativa e giudiziale
Deponendo ora gli usi estensivi e figurati, poco rappresentati, riprendiamo in esame il significato proprio di limitrofo: anche in questo caso la tradizione, la lessicografia e l’uso attuale testimoniano un utilizzo della voce tanto specifico (‘confinante, contiguo, accostato’), quanto generico (‘vicino, prossimo al confine’, e anche ‘vicino, circonvicino’), anche in circostanze e in testi, come quelli giudiziari, in cui il significato possa essere dirimente per gli effetti. Di conseguenza, si sono rese necessarie, anche recentemente, diverse pronunce degli organi superiori (Consiglio Superiore della Magistratura, Consiglio di Stato, TAR). Riporto per intero l’avviso di un chiarimento fornito dal CSM nel 2019, esemplare per chiarezza e consapevolezza del problema, presente sul sito istituzionale dell’organo:
Nella risposta a quesito del 10 ottobre 2019, si chiarisce l’effettiva portata del concetto di “comune limitrofo”, rilevante, ai sensi dell’art. 31 della circolare 13378 del 2014 sui trasferimenti ordinari, ai fini del riconoscimento dei punteggi aggiuntivi per la salvaguardia del nucleo familiare. In proposito, la delibera, richiamando un precedente del 4 aprile 2019, afferma che per “comune limitrofo” deve intendersi esclusivamente un comune “confinante”, escludendo quindi nozioni più ampie come comune nelle immediate vicinanze, al fine di conferire alla nozione connotati di oggettività e uniformità.
Vediamo un altro caso, stavolta in ambito civilistico e notarile. L’art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817, dispone che il diritto di prelazione agraria previsto dal primo comma dell’art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, “spetta anche […] al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti con fondi offerti in vendita”. Poiché, come prima osservato, limitrofo può essere più generico di confinante, risulterebbe impreciso il commento esplicativo di un notaio (2019), che per l’identica fattispecie di prelazione utilizza invece limitrofo: l’autore osserva che la norma intende “favorire la creazione di aziende agricole di maggiore estensione, attraverso l’accorpamento dei fondi limitrofi, sempre in presenza della qualifica di coltivatore diretto”.
Anche nella disciplina urbanistico-edilizia, l’indeterminatezza lessicale delle norme ha suscitato diverse e non sempre omogenee pronunce degli organi amministrativi e giudiziari, relativamente in particolare all’art. 8 del D.M. 1444/1968, la cui previsione normativa impone che l’altezza massima dei nuovi edifici non possa superare l’altezza degli edifici “preesistenti e circostanti”. Il secondo termine è evidentemente generico e interpretabile in diverso modo, ciò che comporta il rischio di incorrere in violazioni normative e in contenziosi. Di conseguenza, in un recente intervento (2023), la giurisprudenza amministrativa è tornata nuovamente a chiarire il significato assunto dal termine:
Al riguardo, per la definizione del concetto di “circostante o limitrofo” rileva la costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 settembre 2014, n. 4553; 14 maggio 2014, n. 2469), secondo cui, in applicazione del criterio letterale (privilegiato dall’art. 12 delle preleggi), la locuzione “edifici circostanti” indica lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area oggetto del permesso, senza a tali fini poter estendere l’area di interesse ad ulteriori concetti come zona o fasce territoriale o comparto. Ciò nonostante, l’intento di restringere l’area di confronto non può essere portata all’estremo di poter ritenere rilevanti ai fini del calcolo dell’altezza ammissibile i soli edifici confinanti, trattandosi di locuzione di distinto significato oggettivamente riferibile ad un ambito più circoscritto. (Consiglio di Stato, Sez IV n. 3115, 6 dicembre 2022, pubblicata il 27 marzo 2023)
In ragione di questa premessa, i giudici di Palazzo Spada entrano nel merito della fattispecie oggetto di contenzioso, ritenendo che possano fungere da parametro le costruzioni “che, sebbene non confinanti con il terreno interessato dall’erigendo edificio, insistano nell’area circostante, comunque circoscritta e non eccessivamente estesa” (anche se poi, di fatto, la qualifica della prossimità viene estesa a un edificio situato a circa 200 metri dalla palazzina oggetto di contestazione).
A dire il vero, questo orientamento, ritenuto valido per il singolo caso, in generale mantiene un ampio margine di discrezionalità per la determinazione del parametro in discussione. In effetti, lo stesso Consiglio di Stato, in una precedente pronuncia (Consiglio Stato, sez. IV, n. 3184/2013) e richiamandosi piuttosto alla ratio della norma più che al significato letterale del termine, aveva definito l’espressione circostante in modo più restrittivo, ossia come limitrofo:
Laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l’altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell’altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l’assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione.
Questa sentenza, peraltro, fa riferimento a una precedente pronuncia dello stesso collegio, sez. V, 21 ottobre 1995, n. 1448 (ma varie e recenti sono le sentenze sulla stessa questione: ad esempio, Consiglio di Stato, n. 4553/2014; TAR di Napoli, sezione VII, sentenza n. 4102 del 26 agosto 2016; TAR della Calabria, n. 387 del 17 giugno 2019; TAR di Venezia, n. 1255/2020).
In un articolo di commento alla citata pronuncia del 2013, un professionista del settore, riteniamo a torto, intende limitrofo senz’altro stricto sensu, cioè ‘confinante’ (“edifici limitrofi, ergo confinanti”): non a ragione, a nostro avviso, perché confinante non ricorre affatto nel testo del Consiglio, dove si parla invece di “fabbricati contigui e vicini”.
La precisazione lessicale è spesso riservata alle FAQ. Nel 2016, il Ministero dei Beni Culturali, a chiarimento dei dubbi terminologici su limitrofo manifestati dai destinatari di un precedente Avviso pubblico (quesiti posti: “Cosa si intende per Comuni limitrofi? Confinanti al Comune proponente o vicini? Se vicini, in quale misura?” e «Si rileva la necessità di chiarire il significato del termine “limitrofo”. Nello specifico, si chiede di indicare la distanza chilometrica che definisce un paese rispetto ad un altro»), risponde richiamando il concetto di “contiguità territoriale”: “si richiede nello specifico che tali Comuni siano limitrofi, cioè confinanti”.
Vediamo ora un ultimo esempio, tratto dal decreto legislativo n. 285 del 1992, meglio noto come Nuovo Codice della Strada, più volte modificato negli ultimi anni. Nel 2020, con Decreto Legge n. 76 del 16 luglio, fu aggiunto all’articolo 93 il comma 1-quinquies, dove ricorre l’espressione “Stato confinante o limitrofo”, nella quale il secondo termine non può avere valore di sinonimo, ossia di commento metalinguistico al primo, ma definisce presumibilmente un’estensione della prima fattispecie (quindi: “Stato confinante o comunque immediatamente prossimo”). Questo comma però fu presto abrogato dalla Legge n. 238 del 23/12/2021, la quale introduce al suo posto il comma 3 dell’articolo 93-bis, dove la giacitura sintattica delle parole è singolarmente invertita: “territorio di uno Stato limitrofo o confinante”.
La nuova formulazione a nostro parere è veramente infelice: qualora infatti si sia voluto intendere limitrofo in senso stretto (‘che confina’, come pure spesso avviene nel linguaggio burocratico e normativo), confinante verrebbe ad aggiungersi come sinonimo inutile e fuorviante, del tutto inopportuno in un testo legislativo; se invece si intende limitrofo nel senso più generico di ‘prossimo, circonvicino’, e quindi si intendeva integrare l’àmbito di validità della norma (“Stato confinante o anche solo vicino”), si constata come l’ordine sintattico dei termini sia illogico, in quanto il significato specifico di confinante è già compreso nell’aggettivo precedente. Anche in questo caso, viene il dubbio sull’effettiva consapevolezza degli autori e sull’ambito di vigenza della norma.
Pochi mesi dopo, sono di necessità intervenuti due chiarimenti, rispettivamente dell’Automobile Club d’Italia e della Polizia Stradale, che intendono con Paesi limitrofi anche quelli che non hanno in comune la linea di frontiera con l’Italia. La circolare dell’ACI (prot. n. 029/0000580/22 del 15 marzo 2022) usa la formulazione “Stato confinante o limitrofo” (si osservi il ripristino del più logico e naturale ordine sintattico) e precisa:
Sono Stati confinanti la Francia, la Svizzera, l’Austria, la Slovenia, Città del Vaticano, mentre costituiscono Stati limitrofi quelli che, pur non confinanti, sono relativamente vicini al territorio nazionale e quindi raggiungibili dal lavoratore in tempi ragionevolmente brevi quali, ad esempio, il Principato di Monaco, la Germania, il Principato del Liechtenstein, la Croazia.
Stessa interpretazione è nella circolare del Dipartimento della Polizia Stradale (Circolare n. 300/STRAD/1/0000009865.U/2022 del 23 marzo 2022), anche se espressa con maggiore cautela:
Il legislatore ha utilizzato due termini che, normalmente, sono considerati sinonimi, ma in questo caso sono indicati come alternativi. Si ritiene, pertanto, che tra gli Stati limitrofi all’Italia possano essere ricompresi quelli che, pur non essendo confinanti, sono relativamente vicini al territorio nazionale.
Sulla questione è autorevolmente intervenuto anche Gianluca Fazzolari (sostituto commissario della Polizia di Stato, sezione di Polizia Giudiziaria presso la procura del Tribunale di La Spezia), il quale tuttavia, richiamando al rispetto dovuto sia al senso letterale dei termini sia alla ratio della norma, ritiene che l’espressione “limitrofo o confinante” debba essere intesa come semplice dittologia sinonimica, restringendo quindi il campo di applicazione del diritto predicato (G. Fazzolari, Stato limitrofo o confinante. Quando l’interpretazione della norma cambia la sostanza delle cose…, “Il Centauro”, n. 253, gennaio 2023. Ringrazio qui il Dott. Fazzolari e il Dott. Giordano Biserni, direttore della citata rivista e Presidente dell’ASAPS, per avermi liberalmente consentito la consultazione dell’articolo).
Va infine detto che, in alcune situazione normative, ai concetti di confinante e limitrofo in senso stretto viene assimilato quello di “funzionalmente contiguo” (“la Città metropolitana appare configurata nella legge come centro di gravità del livello locale territorialmente limitrofo o funzionalmente contiguo” (corsivo nel testo: Simone Calzolaio, Città metropolitane e Province nella “Legge Delrio”. Appunti e spunti per i Comuni di province limitrofe, Osservatoriosullefonti.it, fasc. 3/2014). Il concetto esteso di “confinanza” e quello di contiguità funzionale fanno vacillare lo stesso significato proprio di confinante, come molto chiaramente si legge in una recente sentenza del TAR Piemonte (Sez. II, 25 agosto 2022, n. 717), nella quale si afferma che per stabilire i concetti giuridici di confinanza e di fondo confinante può farsi riferimento alla cosiddetta contiguità funzionale eventualmente presente, per cui, agli effetti dell’esercizio di un diritto quale la prelazione o la concessione, possono definirsi confinanti due fondi materialmente separati, in assenza di “contiguità fisica e materiale” e di un “contatto reciproco lungo una comune linea di demarcazione” (di passaggio, la Corte avverte la necessità di precisare anche il senso di contiguo: “fondi contigui, vale dire confinanti”).
In claris non est interpretatio: splendido e civilissimo precetto giuridico, ma non sempre le disposizioni di legge possono espressamente prevedere tutte le fattispecie che la situazione normata può presentare nella realtà. Diversi lettori, e in particolare un rappresentante delle forze di polizia, ci hanno segnalato la difficoltà di intendere e di applicare i concetti di prossimità e di immediate vicinanze, utilizzati ad esempio nelle norme straordinarie adottate durante l’emergenza COVID: decreti e ordinanze governativi parlano di attività motoria da poter esercitare “in prossimità della propria abitazione”; le ordinanze regionali utilizzano invece l’espressione “immediate vicinanze della residenza o dimora” (eventualmente ponendo un limite oggettivo: “e comunque non oltre 200 metri dalla stessa”; così si precisa nell’ordinanza della Regione Veneto). Si tratta di espressioni inevitabilmente relative, come dintorni e circondario.
Conclusioni
Va però dato atto al legislatore dell’impossibilità di individuare in molti casi il campo di applicazione di una regola, posta la varietà incontrollabile degli insediamenti e delle realtà abitative e geografiche, nonché dell’opportunità di limitare l’ipertrofia di norme e di casistiche, che per amore di esaustività possono essere fonte di ulteriori incertezze. Osserviamo a questo proposito che il diritto prevede per alcune situazioni il ricorso a formulazioni e parametri per forza di cose generici: come nel caso, ricorrente più volte nel Codice Civile, del dovere di svolgere determinate prestazioni con la “diligenza del buon padre di famiglia” (criterio antico, già in Giustiniano: diligentia diligentis patris familiae), lasciando al destinatario della norma, ed eventualmente al giudice, la responsabilità della valutazione, non solo linguistica, del singolo comportamento.
Per altro rispetto, ricordiamo l’obbligo prescritto dalle cosiddette preleggi (“Interpretazione della legge”: la disciplina preliminare al Codice Civile): “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Viene quindi privilegiata, nei casi dubbi, l’interpretazione letterale (la cosiddetta vox iuris), affinché si attribuisca alla norma il significato che si evince immediatamente dalle parole utilizzate. Tuttavia il senso dell’espressione “secondo la connessione” delle parole, evidentemente relativa al diverso significato che una parola potrebbe assumere in relazione alla costruzione sintattica, non è interamente chiarito neppure nel Dizionario giuridico del Brocardi, ove il lemma Connessione delle parole (interpretazione della legge) viene così definito: “Esposizione delle parole in una concatenazione di concetti”.
Osservo infine che in alcuni recenti testi di legge càpita di incontrare una premessa opportunamente riservata alla definizione dei termini in parola, secondo la previsione del legislatore: l’art. 1 del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 agosto 2023 è interamente dedicato alle definizioni dei termini principali utilizzati del testo.
In conclusione, vorremmo fornire ai lettori qualche indicazione generale. L’Accademia della Crusca non ha oggi la pretesa di “imporre” l’una o l’altra forma corretta, ma semmai di fornire consigli e indicazioni, generali o specifici, sul possibile governo dell’uso linguistico, nella consapevolezza che sarà appunto l’uso, più che la norma, a legittimare forme che potrebbero addirittura, inizialmente, essere generate da errori ortografici, grammaticali o semantici; la moderna linguistica testuale, del resto, considera anche le norme e i valori eminentemente pragmatici della comunicazione, a cui la regole della lingua finiscono spesso per soggiacere. In questa prospettiva, l’obiettivo di questi chiarimenti potrebbe allora essere quello di salvaguardare, perlomeno nelle istituzioni e nei soggetti più consapevoli, quali supponiamo essere i nostri lettori, le funzionalità della lingua (sulla base di analisi fondate sulla tradizione, sulle istanze dell’atto comunicativo e sulla logica), nonché i valori civili della chiarezza e della trasparenza, di fronte alla concorrenza di forme che possa indurre incertezze e confusioni nella vita reale. Con riferimento al caso di nostro interesse, rileviamo che i quesiti posti dai lettori sono effettivamente prodotti da una indeterminatezza semantica del lessico italiano disponibile per esprimere i concetti di vicinanza e “confinanza”, a fronte, o forse proprio a causa, della presenza di vari sinonimi e analoghi; indeterminatezza non sempre risolta nell’uso giuridico.
Come abbiamo verificato analizzando alcuni esempi, nell’uso comune e nella tradizione storica le parole possono avere significati più ampi e più sfumati che nell’uso tecnico; e di conseguenza, nel linguaggio giuridico e prescrittivo o nella descrizione tecnica è necessario usare la massima precisione terminologica, che identifichi con chiarezza le situazioni e gli àmbiti di riferimento. Ma poiché negli stessi quesiti dei lettori si intravede il desiderio di poter dare soluzione a questioni giudiziali che siano sorte o possano essere suscitate da diverse interpretazioni del significato di alcuni termini, va detto che le questioni giudiziali, nella varietà delle fattispecie e degli usi lessicali, dovrebbero essere prevenute dal legislatore (ciò che spesso avviene anche mediante successivi interventi di precisazione terminologica, o attraverso i chiarimenti delle FAQ, come nell’esempio prima riportato), ovvero contestualizzate e individualizzate dal giudice sulla base di circostanze e ragionamenti che non possono essere esclusivamente semantici.
Massimo Bellina
21 febbraio 2025
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Partecipa alla realizzazione del piccolo glossario illustrato della lingua del fumetto!
Tutte le informazioni qui.