Molti lettori ci scrivono per avere delucidazioni sulla correttezza della locuzione avere da + infinito nel significato di ‘dovere’ e sulla sua possibile derivazione dal corrispettivo inglese have to + infinito. Alcuni utenti ci chiedono inoltre se nello stesso significato sia possibile ricorrere anche alla costruzione avere a + infinito.
Le costruzioni avere da + infinito e avere a + infinito possono essere usate in alternativa al verbo dovere per indicare necessità o obbligazione (per esempio ho da confidarti un segreto; aveva da finire il lavoro entro le 16; questo discorso ha da restare tra noi; ebbe a ricredersi; ebbe a rimangiarsi l’offesa; ho a dire una cosa). L’italiano ammette infatti la possibilità di sostituire i verbi modali (ossia quei verbi che si combinano con altri verbi di modo infinito per indicare una particolare modalità dell’azione, come la possibilità, la volontà o la necessità, e che sono detti anche, nella tradizione grammaticale, servili) con delle perifrasi verbali di valore appunto modale: il significato di necessità espresso dal verbo dovere può quindi essere reso, per esempio, anche dal costrutto andare + participio passato (la relazione va consegnata oggi), da essere/esserci da + infinito (c’è da studiare tutto il libro, la sua posizione non è da criticare), dalla forma impersonale bisogna + infinito (bisogna fare la spesa), o appunto dalle nostre costruzioni avere da + infinito e avere a + infinito.
Per quanto riguarda la prima costruzione, la possibilità di ricorrere alla perifrasi avere da + infinito nel significato di ‘dover fare’, ammessa dalle principali grammatiche e considerata di uso comune dalla maggior parte dei dizionari, è da considerarsi del tutto legittima. Si tratta del resto di una costruzione attestata nella nostra lingua sin dalle origini e ampiamente diffusa anche nella scrittura letteraria, come documentano, tra gli altri, Salvi-Renzi 2010 e il GDLI (s.v. avere): la ritroviamo per esempio in Bono Giamboni, Dell’arte della guerra libri IV di Vegezio Flavio, “Molte cose hanno da apparare, e da servare i combattitori”; Caro, Lettere, “e facendo le viste ch’avessimo da scrivere per Roma”; Goldoni, Il poeta fanatico, “Se avessi da scrivere in versi, mi sarebbe più facile”; Manzoni, I promessi sposi, “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”; ecc.
Ugualmente corretto il ricorso ad avere a + infinito con valore modale: seppure meno comune, la costruzione rappresenta infatti una semplice variante della prima perifrasi, con sostituzione della preposizione reggente l’infinito: in italiano antico le due preposizioni erano d’altra parte in molti casi intercambiabili (o in altri casi addirittura sostituibili con la reggenza di grado zero, ossia con l’assenza della preposizione). Numerose sono quindi anche le attestazioni di questo costrutto nella lingua letteraria, già in epoca antica, che ci sono di nuovo documentate da Salvi-Renzi 2010 e dal GDLI: per esempio “Oi, quanti piccioli figliuoli ho a notricare!” Novellino; “Non hanno molto a volger quelle rote” Dante, Purg. XXIV, 88; “Oh quanti hanno a morire, oh quanti hanno andare allo inferno!” Savonarola, Prediche; “Voi avete a fingere di dargli un medicamento, e gli avete a dare una boccia d’acqua” Goldoni, La finta ammalata; “se la cose avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco” Manzoni, Promessi Sposi; ecc.
È di conseguenza da escludere un possibile, recente influsso sulle due perifrasi della corrispettiva costruzione inglese have to + infinito: il ricorso alle forme del verbo avere in strutture perifrastiche di valore deontico (che esprimono cioè un significato di necessità), indipendentemente dalla preposizione reggente l’infinito, è infatti un tratto comune a molte lingue, non solo neolatine (si pensi per esempio al tedesco haben zu + infinito, allo spagnolo haber de + infinito, al portoghese haver de + infinito, o al francese avoir à + infinito).
Accanto al significato modale di ‘dovere’, avere da e avere a + infinito possono inoltre assumere anche valore di futuro, per indicare un’azione o un evento che sono solo possibili o che sono proiettati in un tempo futuro (per esempio ha da passare ancora molto tempo; ha ancora da nascere chi possa batterlo; hanno da venire giorni migliori; lo stallo ha a durare ancora a lungo): il dato non stupisce se si pensa al fatto che la stessa formazione del futuro in molte lingue romanze (compreso l’italiano) deriva da una struttura perifrastica, formata proprio con l’infinito e le forme del presente del verbo latino habere, che in seguito a una serie di trasformazioni sono state grammaticalizzate e ridotte a desinenza verbale (per esempio, per l’italiano, da stare habeo letteralmente ‘ho da stare’ > stare *ao > starò).
Tuttavia, con l’eccezione del toscano e di diverse varietà meridionali (tra cui il siciliano, il calabrese, il napoletano e il salentino), in cui, come sottolinea Rohlfs 1969, la costruzione avere a con valore tra il modale e il futuro risulta ancora oggi largamente diffusa (o addirittura grammaticalizzata come forma analitica di futuro), nel resto della penisola l’uso di tale perifrasi si rivela decisamente meno frequente della variante concorrente avere da, in quanto ormai percepita come più propria della lingua letteraria. Letterario è secondo il GRADIT e lo Zingarelli 2019 anche l’uso di avere a + infinito con valore puramente fraseologico, col verbo avere che non assume un significato autonomo, ma si limita a trasferire il valore del suo tempo e modo al verbo che lo segue (per esempio ebbe ad ammalarsi per il dolore ‘si ammalò’; come ebbi a dire anni fa ‘come dissi’, non avrai a pentirtene ‘non te ne pentirai’). Gli stessi dizionari registrano infine come raro e letterario anche l’uso della perifrasi per indicare un’azione imminente, che rischia di verificarsi, o che è stata sul punto di realizzarsi in passato (per esempio ebbe a morire ‘poco mancò che morisse’; temo che abbia a essere una delusione ‘temo che possa rivelarsi una delusione’).
Per concludere, entrambe le costruzioni considerate, avere da e avere a + infinito nel significato di ‘dovere’, sono da considerarsi senz’altro corrette, per quanto nell’uso corrente la seconda, ormai in disuso nell’italiano standard, possa essere percepita come arcaica e desueta, o come forma propria di alcune varietà regionali.
Nota bibliografica:
A cura di Sara Giovine
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
20 novembre 2018
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