Ci scrivono alcuni lettori chiedendo chiarimenti sull’origine di consapevole e consapevolezza; in particolare ci si domanda di chiarire il rapporto tra consapevolezza e coscienza.
Come già messo in evidenza dai nostri interlocutori, consapevolezza e coscienza, pur rientrando nella stessa sfera concettuale, restano parole difficili da sciogliere dato che investono le conoscenze relative al funzionamento del cervello e della mente umani, un settore di indagine che ha prodotto nel corso della storia una notevole densità e stratificazione di significati. Gli ambiti semantici di riferimento sono quelli della conoscenza, della percezione, della sensibilità, i cui meccanismi e le cui reciproche interferenze mantengono ancora aspetti misteriosi, seppur oggi in parte svelati grazie alle recenti scoperte delle neuroscienze.
Pur tenendo conto delle recenti novità scientifiche e degli effetti che la storia della cultura ha sulla storia delle parole, come linguista, per prima cosa, posso cercare di risalire alle basi etimologiche da cui ricavare il significato originario delle due parole in esame. Il tratto semantico fondante che le accomuna è quello del sapere e la loro origine risale ai due principali verbi latini che veicolavano questo significato, sàpere e scire: sàpere aveva come prima accezione quella di ‘avere sapore’ (accezione che si mantiene in italiano in espressioni del tipo “sa di fragola”, “non sa di niente”, ecc.), e manteneva quindi un legame stretto tra percezione fisica e raggiungimento della conoscenza di qualcosa; scire valeva ‘conoscere, capire’ con l’intelletto, in modo astratto, non necessariamente con la mediazione dei sensi. Una duplicità che rappresenta perfettamente quella dicotomia tipica della concezione classica, radicata per secoli nella cultura occidentale e difficile da superare ancora oggi, che porta alla netta separazione tra esperienze sensoriali e sfera mentale e spirituale, rafforzata dalla contrapposizione cristiana tra corpo e anima.
Come è accaduto per molte forme latine concorrenti, sovrapponibili almeno in parte per significato, negli esiti romanzi le diverse lingue hanno “selezionato” uno di questi due verbi che è diventato prevalente, assumendo un carico semantico più denso e, nel caso dell’italiano, un valore sempre più decisamente transitivo. Così l’italiano ha conservato sapere (da sàpere, come anche il francese savoir e lo spagnolo saber), probabilmente passando da una forma supposta del latino parlato *sapére, con spostamento dell’accento e l’assunzione a significato principale dell’accezione traslata di ‘essere a conoscenza, aver imparato’: nella forma sao (‘so, sono a conoscenza’, appunto da sapio) è presente già nel primo testo volgare datato, il Placito di Capua del 960 d.C.; scire, che invece si è conservato nel sardo ischìre e nel rumeno (a) şti (la 1a pers. del pres. ind. è ştiu), in italiano lo ritroviamo alla base di derivati come scibile, scienza, e anche in coscienza, cosciente, conscio (e nei rispettivi opposti incoscienza, incosciente, inconscio).
A partire da sapere, fin dagli inizi del ’300 si rintracciano attestazioni del derivato sapevole, nel significato di ‘che sa’, presente fin dal 1316 (grazie al TLIO possiamo retrodatarne la prima attestazione rispetto al GDLI che la colloca nel 1342 con la testimonianza di Boccaccio) nel volgarizzamento dell’Eneide redatto dal notaio fiorentino Andrea Lancia (“Dido non sapevole quanto amore a lei misera soprastea”). Si tratta di un aggettivo deverbale da sapere ottenuto con l’aggiunta del suffisso -evole, lo stesso utilizzato per la formazione di molti altri aggettivi come agevole, amichevole, dilettevole, di trasmissione popolare e corrispondente al dotto -bile di amabile, leggibile, ecc. Benché sapevole abbia avuto solo sporadiche apparizioni in testi antichi e sia poi sparito come forma autonoma, ne ritroviamo traccia nel parasintetico consapevole (formato appunto dal prefisso con- + sapere + -evole), attestato come traduzione di conscius già nei volgarizzamenti di Ovidio (Ars amandi e Rimedia amoris) del 1310 presenti nel corpus DIVO (Dizionario dei volgarizzamenti). Fin da queste prime scelte dei volgarizzatori si instaura il rapporto di sinonimia tra il latino conscius (da scire) e il volgare consapevole (da sapere) per indicare lo stato di chi è entrato in una relazione conoscitiva di sé stesso, delle proprie azioni e della realtà circostante: proprio il prefisso con- ‘con-’ (da cum, presente in entrambi) veicola il senso della relazione che tiene insieme un pensante e un pensato (che può coincidere con il pensante stesso).
Dall’aggettivo consapevole poi la sequenza derivativa prosegue, con l’ulteriore aggiunta del suffisso -ezza, tuttora produttivo, con la formazione del sostantivo astratto consapevolezza, che però entra in italiano molto più tardi; il primo esempio riportato nel GDLI è in una lettera di Francesco Redi datata 1686 (“Se a me perverrà congiuntura alcuna, o consapevolezza del negoziato, io servirò certamente con affetto di cuore il sig. Bonomo”), ancora con il significato di ‘contezza, notizia’. Possiamo però, grazie a Google libri, confermare l’ipotesi di Gian Pietro Bergantini che attribuiva la più antica attestazione di consapevolezza a Girolamo Ruscelli (cfr. DELI): nelle sue Imprese illustri (princeps 1566) si rintracciano in effetti almeno tre occorrenze della parola, sia associata a coscienza (“coscienza e consapevolezza di se medesima”, p. 301), sia da sola (“e tal confidenza […] si fa in lui per la consapevolezza dei suoi pensieri”, p. 476; “ma si contenta della consapevolezza di se stesso”, p. 553). Già a partire dal Settecento si hanno frequenti attestazioni della parola nel significato attuale di ‘l’essere conscio, cosciente (di sé e delle proprie azioni)’, in termini quindi filosofici e psicologici.
Più intrecciata la questione delle relazioni di significato: nel Thesaurus Treccani il termine consapevolezza è trattato alla voce coscienza come suo sinonimo insieme a cognizione, percezione, sensazione, sensibilità. È indubbio quindi che le due parole condividano alcuni tratti semantici, ma, come quasi sempre accade nei sinonimi, la sovrapposizione non è perfetta. In generale possiamo dire che il termine coscienza (che è parola propria della filosofia, della psicologia, della religione, del diritto, della medicina) ha assunto significati meno generici e astratti rispetto a consapevolezza: per esempio, il filosofo statunitense John Searle, che molto si è dedicato alla riflessione sul concetto di coscienza (cfr. The Mystery of Consciousness, New York, New York Review, 1997, trad. it. Il mistero della coscienza, Milano, Raffaello Cortina, 1998) limita la coscienza (consciousness) a stati e processi interiori e individuali, e fa riferimento alla terminologia della psicoanalisi contrapponendo la condizione di attenzione conscia allo stato di veglia a quella inconscia tipica del sonno. In questo senso la coscienza si riferisce dunque alla consapevolezza di sé, mentre la consapevolezza (awareness) può rivolgersi anche alla realtà esterna nell’esercizio del senso morale, alla ricerca della verità e del giudizio che porta l’essere umano a distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto.
Nel linguaggio comune la parola coscienza ha conservato invece una parte di senso concreto, quasi fosse un luogo interiore e ben circoscrivibile in cui si raccoglie il nostro operato e il giudizio morale che gli attribuiamo: da qui espressioni quali avere la coscienza pulita/sporca, avere un peso sulla coscienza, mettersi una mano sulla coscienza, seguire la voce della coscienza (espressioni, queste, in cui la parola non è ovviamente sostituibile con consapevolezza). Searle attribuisce l’operato della coscienza a processi neurobiologici, quindi assolutamente concreti e reali, ma ribadisce che la coscienza (così come l’anima per chi crede alla sua esistenza) non è un “organo” concreto e localizzabile: “La corretta concezione è vedere la mente e la coscienza come processi che avvengono nel cervello. L’intera vita cosciente e mentale si produce nei cervelli umani e animali. I processi sono causati da meccanismi neurobiologici e sono realizzati in strutture neurobiologiche. Non c'è nulla come l'anima e quando il cervello viene distrutto, la mente viene distrutta con esso” (John Searle, in La coscienza fa parte della natura: dialogo con John Searle, di Lucia De Ioanna, “la Repubblica”, 3/4/2019).
Coscienza e consapevolezza appaiono più vicine se le riportiamo nell’ambito del linguaggio e del discorso: si è coscienti e consapevoli solo di ciò a cui riusciamo a dare forma in immagini mentali e quindi verbali. Sempre in psicoanalisi l’emersione dall’inconscio al conscio è veicolata dalla parola, così come diventare consapevoli di qualcosa significa condividere verbalmente, prima di tutto con sé stessi ma anche con gli altri, le conoscenze che avevamo disponibili in potenza, ma che ancora non sapevamo di avere. Si tratta in entrambi i casi di una sorta di “apparizione”, un sentire o sapere non ancora pensabile e rappresentabile che, attraverso un processo mentale, si manifesta in immagini e si verbalizza. Non a caso ho scelto la parola apparizione: il filosofo australiano David Chalmers, nel trattare il complesso problema della coscienza ricorre alla metafora del “film interiore” per cui la coscienza viene assimilata al processo mentale di proiezione continua di immagini che accompagna da sempre la vita degli esseri umani (D. Chalmers, TED Conference, intervento di cui è disponibile anche la trascrizione). La stessa metafora, in letteratura, era stata già proposta da Italo Calvino:
Nel cinema l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era stata “vista” mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità sul set, per essere definitivamente fissata nei fotogrammi del film. Un film è dunque il risultato d’una successione di fasi, immateriali e materiali, in cui le immagini prendono forma; in questo processo il “cinema mentale” dell’immaginazione ha una funzione non meno importante di quella delle fasi di realizzazione effettiva delle sequenze come verranno registrate nella “camera” e poi montate in “moviola”. Questo “cinema mentale” è sempre in funzione in tutti noi, − e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema − e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore. (Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane, Milano, Oscar Mondadori, 2007, p. 93)
In questo flusso ininterrotto di immagini, possibili perché nominabili e pensabili in una lingua, sembrano racchiudersi i segreti della coscienza e della consapevolezza, che però, nella loro forma, condividono quel prefisso con- che apre a una relazione, a uno scambio. Una delle nostre interlocutrici fa riferimento all’unico dizionario etimologico disponibile in rete (di Ottorino Pianigiani, pubblicato nel 1907) che, alla voce consapevole, registra complice come possibile sinonimo. In effetti all’origine di questo aggettivo, formato dal prefisso con- con il verbo latino plico (‘piegare, avvolgere’, lo stesso che sta alla base di complicare, complesso), c’è il concetto del ‘coinvolgimento’, in accezione negativa se riferito ad azioni delittuose, in senso positivo quando si riferisca a una complicità emotiva e affettiva. In tutte e due i casi l’essere ‘avvolti insieme’ e quindi complici presuppone che le due parti condividano conoscenze comuni, che siano quindi unite dalla consapevolezza di qualcosa, sentimenti, gusti, progetti (positivi o negativi), ma anche notizie, informazioni che si trasmettono attraverso lo scambio di immagini e parole.
Per riprendere la metafora cinematografica, possiamo dire che finché il “film” della coscienza resta “interiore” il processo è individuale; solo attraverso il discorso, la parola (o immagine) scambiata, la coscienza e la consapevolezza di uno possono diventare coscienza e consapevolezza comuni e fondamenta di valori condivisi.
Nota bibliografica:
Raffaella Setti
2 novembre 2022
Evento di Crusca
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