Ci hanno scritto in molti per porci la domanda su quale sia il corretto plurale di credo come sostantivo maschile: si dice credo religiosi o credi religiosi?
Alla domanda non è semplice rispondere, anzitutto perché il sostantivo credo può ricorrere al plurale soltanto (o soprattutto) nei significati estensivi di ‘insieme delle dottrine fondamentali di una religione’ e di ‘insieme di idee, principi, convinzioni politiche, morali, artistiche di un individuo o di una società’, ma non in quello, originario, di ‘formula liturgica che riunisce le principali verità della fede cristiana’ e poi anche di ‘momento della messa in cui tale formula viene recitata’ (tutte queste definizioni sono del GRADIT). Tuttavia, anche se usato in questa accezione, il nome potrebbe essere occasionalmente pluralizzato, in contesti come recitare tre credo (o tre credi?) nel senso di ‘recitare tre volte la formula di fede cristiana’, oppure nel significato, ormai obsoleto, di ‘lasso di tempo in cui si recita la professione di fede’ e quindi genericamente di ‘breve lasso di tempo’ (significato che, non a caso, si ha negli esempi antichi di plurale che poi riporteremo).
Se si cerca il sostantivo credo sui principali dizionari contemporanei, alcuni non si esprimono sulla forma del plurale (Sabatini-Coletti, Devoto-Oli, Vocabolario Treccani, dal che si deve dedurre che il plurale sia regolarmente in -i), altri danno indicazioni discordanti: il GRADIT registra il nome come invariabile, mentre lo ZINGARELLI indica esplicitamente che il plurale è in -i. Anche il DOP, dopo aver opportunamente precisato che il plurale è raro, dà la preferenza alla forma in -i e non a quella in -o. Le indicazioni fornite da questi repertori si riferiscono al lemma in generale, senza distinzioni di carattere semantico.
Un’analoga instabilità presentano i dati offerti dalla rete: facendo riferimento alla sequenza “credo religioso” (indicata in tutti i quesiti che ci sono pervenuti), il motore di ricerca Google ci fornisce (3 marzo 2018) circa 17.600 occorrenze della stringa “credo religiosi” e 14.800 di “credi religiosi”; se invece premettiamo l’articolo determinativo, “i credi religiosi”, con circa 3.660 risultati, superano “i credo religiosi”, che ne hanno 2.880. Inaffidabili, per vari motivi, i dati su “i credi” e “i credo”: le occorrenze di questa stringa sono più nettamente maggioritarie, ma includono anche la forma i’ credo ‘io credo’, con apocope del pronome.
Il credo sostantivo deriva (GRADIT) dal lat. crēdo, 1a persona singolare dell’indicativo presente di credĕre ‘credere’, parola iniziale della formula liturgica Credo in unum Deum; la derivazione latina spiega perché nello standard tradizionale (e nelle indicazioni di tutti i dizionari attuali) la pronuncia della e sia aperta e consenta di distinguere il sostantivo dalla 1a persona singolare dell’indicativo presente del verbo italiano credere; ma giustamente il DOP rileva una “forte tendenza recente” alla pronuncia chiusa della vocale, come probabile “conseguenza della pratica scomparsa del latino nella liturgia”.
Sul piano morfologico, il tipo in cui credo rientra è stato trattato adeguatamente da Anna M. Thornton nel suo capitolo sulla conversione nel fondamentale volume La formazione delle parole in italiano a cura di Grossmann e Rainer (2004). Leggiamo quanto scrive la studiosa:
Migliorini [in un articolo del 1975] ha denominato “nomi cartellino” nomi che sono il risultato della “sostantivazione di frasi, parole, persino lettere singole, insomma brevissime citazioni isolate dal loro contesto e trattate come se fossero incluse tra virgolette”. Alcuni “nomi cartellino” coincidono con forme verbali, sia italiane che latine, flesse nei più vari tempi, modi e persone. Si tratta di forme che appaiono all’inizio di preghiere (credo, il latino memento) o esclamazioni (viva), o scritte, spesso con particolare risalto grafico, su documenti con valore giuridico (proclama, vaglia, pagherò, visto, e le latine imprimatur, placet). Questi cambi di categoria riguardano la storia di singole parole, e non sono effetto di una regola di conversione; alla loro origine sta una transcategorizzazione puramente sintattica. Ne è prova il fatto che questi nomi sono normalmente invariabili, cioè non vengono inquadrati in una classe di flessione nominale come se fossero nuove parole. Solo in alcuni casi, con il tempo, alcuni nomi cartellino non più analizzati come tali sono stati integrati in una classe flessiva nominale e a volte hanno anche acquisito un genere non di default (cfr. i proclami, le avemarie).
Si può solo aggiungere un dato storico-geografico: l’integrazione morfologica è avvenuta più di frequente quando i “nomi cartellino” sono entrati in italiano nei secoli passati, durante il quali la nostra lingua, prevalentemente scritta, seguiva il modello fiorentino-toscano; è molto meno diffusa (e a volte è proprio esclusa) quando il loro ingresso è iniziato in aree diverse da quella centrale e/o è avvenuto dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, quando lo standard tradizionale ha progressivamente perduto terreno. Lo dimostra il caso, per certi aspetti affine a credo, di distinguo nel senso di ‘distinzione sottile e precisa’, derivato (GRADIT) dalla formula che nei testi della filosofia scolastica introduceva un’argomentazione basata su una distinzione. Ebbene, distinguo è dato come invariabile in tutti i dizionari sopra citati (compreso lo ZINGARELLI) e solo il DOP registra come “rarissimo” il plurale in -gui. Ma distinguo risulta attestato solo a partire dal 1869, mentre credo in vari dizionari è datato al sec. XIV (anticipa al 1268 lo ZINGARELLI, probabilmente rifacendosi all’attestazione, documentata del corpus dell’OVI, in Andrea da Grosseto, dove però si legge “nel Credo in Deo”). Un’analoga differenza morfologica si rileva negli accorciamenti maschili in -o: hanno il plurale in -i chilo ed etto, entrati in italiano all’inizio dell’Ottocento, mentre sono invariabili i più recenti stereo e turbo; ed è soprattutto in area tosco-romana che resistono plurali come frighi e, da ultimo, euri. Ancora maggiori oscillazioni mostrano i plurali di parole composte e polirematiche come pronto soccorso, estratto conto e agriturismo (si vedano al riguardo la risposta di Matilde Paoli su questo sito, e quelle di chi scrive su “La Crusca per voi”, 46, 2013 e 49, 2014).
Se poi guardiamo alle attestazioni di credo sostantivo nei testi del passato, notiamo che nella voce del GDLI c’è un unico esempio di plurale in -i: un passo (già citato nel Tommaseo-Bellini e riportato anche nel DOP) dell’aretino Francesco Redi: “Il lumacone in tanto che si direbbon sei credi, se ne muore intirizzato”. Lo stesso Tommaseo-Bellini aggiunge due esempi da poemi di autori toscani, in cui il plurale in -i è anche condizionato dalla rima: “Essendo divenuto, in quattro credi, / Vedovo, amante e cavaliere a piedi” (Ippolito Neri) e “Ma rendimi il mio core, o mi concedi / D’essermi moglie in meno di tre credi” (Niccolò Forteguerri). Lo stesso dizionario segnala anche un esempio del plurale in -o, del ferrarese Daniello Bartoli: “Per due o tre credo si stette senza dir nulla”. In tutti questi esempi credo ha il significato, indicato all’inizio come obsoleto, di ‘breve lasso di tempo’.
In definitiva, il plurale di credo è oggi oscillante: c’è chi preferisce la terminazione in -i (che è quella tradizionale e che dunque non si deve necessariamente attribuire, come viene supposto da una nostra lettrice, all’influsso di un possibile originale inglese beliefs tradotto in credi), ma c’è anche chi ritiene più normale considerare il sostantivo come invariabile. È anche possibile che ci siano parlanti per il quali la scelta della forma del plurale di credo vari in rapporto alla semantica. Nell’italiano di oggi una certa tendenza all’invariabilità dei maschili in -o sembra indubbia (tranne che in Toscana e nelle aree adiacenti), ma la norma non si è ancora stabilizzata. Le incertezze possono aumentare quando il plurale è d’uso molto meno frequente rispetto al singolare, come nel caso in questione, ma nessuna delle due forme che entrano in concorrenza può essere considerata scorretta.
29 marzo 2018
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