Alcuni lettori ci chiedono se la parola gesuita possa essere utilizzata anche come aggettivo in luogo di gesuitico; in particolare un lettore chiede se si debba dire missioni gesuite o missioni gesuitiche.
Com’è facile immaginare, il termine gesuita entra in italiano dopo la fondazione della Compagnia di Gesù (in latino Societas Iesu), la cui nascita si fa partire dal 1540, anno del riconoscimento ufficiale dell’Istituto da parte del pontefice Paolo III. La storia dell’ordine, però, era iniziata già qualche anno prima a Parigi, per iniziativa di un gruppo di studiosi guidati da s. Ignazio di Loyola, il cui intento era dedicarsi alle missioni in ogni parte del mondo. A questa attività di evangelizzazione dei popoli, che subito contraddistinse l’opera della Compagnia, si associò molto presto un’azione pedagogica che, pur non contemplata inizialmente da s. Ignazio, portò all’apertura per ogni dove di scuole e collegi e a un conseguente profondo radicamento in molte aree del mondo.
L’espansione ampia e immediata della Compagnia fece sì che la denominazione di gesuita con cui fin dall’inizio furono designati i suoi componenti si affermasse più o meno contemporaneamente in diverse lingue (si vedano per esempio per le lingue romanze il francese jésuite e lo spagnolo jesuita). Il DELI dà come prima attestazione in italiano il 1579/1580 per la forma giesuita e il 1583 per gesuita, che possiamo considerare uno dei tanti derivati da antroponimi (Gesù), comprendenti sia sostantivi (marxismo, berlusconismo ecc.) sia aggettivi (leopardiano, dantesco ecc.).
La classificazione grammaticale di gesuita appare controversa nei nostri più diffusi repertori lessicografici: Devoto-Oli, GRADIT e Zingarelli (s.v.) indicano entrambe le marche di sostantivo e aggettivo; Sabatini-Coletti e il Vocabolario Treccani online solo quella di sostantivo; si dividono anche i dizionari etimologici: l’Etimologico di Nocentini segnala, infatti, entrambe le possibilità e DELI solo quella di sostantivo. In realtà, fin dai primi testi, gesuita svolge più di una funzione: ce ne dà testimonianza il GDLI da cui traiamo solo tre esempi:
(1) Sassetti: Io ho ricevuto gli alfabeti che V.S. m’ha mandati; e potrebbe essere che i padri gesuiti che stando in India gli conoscessero, dando opera a imparare quelle lingue pel servizio della predicazione;
(2) Garzoni: I Giesuiti furono institoiti da Ignazio di Loyola nobile spagnolo nell’anno 1540 sotto Paolo terzo Farnese.
(3) Sarpi: Lj dominicani hanno affirmato di trovar in un libro di Lodovico Molina gesuito, ventuna eresie di conto fatto.
Gli esempi sono da ricondurre rispettivamente a Filippo Sassetti (1540-1588), mercante, viaggiatore e studioso di lingue, Tommaso Garzoni (1549-1589), scrittore appartenente all’ordine dei Canonici lateranensi, e Paolo Sarpi (1552-1626), importante teologo e scienziato veneziano: tutti attivi nella seconda metà del Cinquecento, confermano con le loro parole non solo il precoce ingresso di gesuita subito dopo l’istituzione della Compagnia ma anche il suo uso sicuro in contesti e ruoli differenti. Assume sicuramente valore di sostantivo nell’esempio (2), mentre si possono ricondurre a ruoli aggettivale e appositivo rispettivamente i passi (1) e (3). È forse questa duplice possibilità di fungere da apposizione e da aggettivo che ingenera incertezza: nel primo caso, come sempre accade con le apposizioni, non perde la sua natura di sostantivo e può precedere o seguire il nome cui si affianca in base al contesto e al tipo di apposizione (analogamente a l’avvocato Rossi; il cugino Giovanni; Carlo, re d’Inghilterra possiamo avere il gesuita Claudio Acquaviva e padre Mario, gesuita di Forlì). Quando l’apposizione è posposta oggi siamo soliti separarla con una virgola, ma ciò non incide sull’uso che se ne fa nel testo di Sarpi, dove l’unica vera distanza dall’italiano contemporaneo è costituita dall’uscita in -o del maschile singolare, che, sia pure in misura minoritaria, ha convissuto a lungo con la forma del maschile in -a (analoga ai casi di poeta, problema ecc.)
Nell’esempio (1), tuttavia, gesuita sembra assumere il ruolo di un aggettivo attributivo che ha la funzione di restringere quanto viene indicato dal nome: nelle frasi “ho incontrato finalmente i giocatori irlandesi” e “mangio sempre formaggi magri”, gli aggettivi irlandesi e magri limitano le ampie e possibili accezioni di giocatori e formaggi; allo stesso modo, nel testo di Sassetti, gesuiti restringe il senso di padri, escludendo la possibilità di riferirsi a padri francescani, domenicani e così via. Ancora oggi troviamo nei quotidiani le due funzioni di apposizione e di aggettivo: “I 400 anni di Segneri, gesuita campione della Chiesa tridentina” (“Avvenire”, 20/3/2024); “È quello delle ‘Sarte di Scampia’, frutto della collaborazione col Centro Hurtado che i padri gesuiti hanno creato nel quartiere” (“Avvenire”, 14/7/2021).
Se, tuttavia, l’accostamento di gesuita a sostantivi come padre, predicatore o missionario è non solo antico ma strettamente connesso al suo primo significato di ‘religioso appartenente alla Compagnia di Gesù’, il legame con missione può apparire controverso. Va fatta, però, un’attenta valutazione partendo dall’aggettivo gesuitico, un denominale derivato con l’aggiunta del suffisso -ico che, con il significato di ‘che è proprio dei gesuiti’, si attesta nel 1609 tramite uno scritto di Paolo Sarpi (DELI, s.v. gesuita). Nell’arco temporale che va dal 1695 al 1760, scopriamo, grazie al motore di ricerca di Google libri, che l’aggettivo gesuitico entra in sintagmi perlopiù attestati come titoli di libri: incontriamo, per esempio, Teatro gesuitico, per un’opera a cui spesso si fa riferimento, tra Sei e Settecento, più per denigrare la Compagnia che per descriverne il ricorso alla recitazione come pratica educativa; Mondo gesuitico, per un testo che, pubblicato nel 1758 a Carpentras, in Francia, vuole, al contrario, dar conto del modo con cui i gesuiti hanno diffuso nel mondo le loro grandi imprese; Giornale gesuitico, come prima parte del titolo di un Estratto delle opere che si pubblicano contro i gesuiti, il cui primo tomo è stampato a Napoli nel 1760. Le discussioni, infine, sul probabilismo, di cui diremo tra breve, generano sintagmi come moderno probabilismo gesuitico, adoperato dagli stessi membri della Compagnia (per es. in Trattenimenti apologetici sul probabilismo di Giuseppe M. Gravina della Compagnia di Gesù, Parte seconda, Palermo, Pietro Bentivenga, 1755, p. 544).
Nella gran parte dei casi, dunque, com’è facile osservare, gesuitico qualifica qualcosa che è propria dell’azione, del pensiero, della cultura dei gesuiti, mentre solo in pochissimi contesti si riferisce all’insieme dei componenti dell’ordine, segnalando la differenza di significato con una posizione anticipata rispetto al nome: “io insegnerò loro come debbasi scrivere contro alcuno del Gesuitico Istituto senza passar per nimico della Compagnia” (Storia letteraria d’Italia, vol. IV, Venezia, nella stamperia Poletti, 1753, p. 338). Non va dimenticato, del resto, che ancora nell’italiano contemporaneo la posizione dell’aggettivo può incidere sul significato del sintagma: alto ufficiale o vecchio amico sono cosa diversa da ufficiale alto e amico vecchio.
Si stabilizza, dunque, una sorta di specializzazione, per cui il sostantivo gesuita in funzione di aggettivo è adoperato per assegnare l’appartenenza di un religioso, di un collegio, di una casa alla Compagnia di Gesù e non ad altri ordini, mentre gesuitico fa riferimento a qualcosa che è tipico della religiosità, della pratica educativa, del pensiero teologico dei gesuiti. Se parliamo, pertanto, di missione gesuitica, ci stiamo riferendo alla missione intesa come ‘compito da svolgere’, come ‘importante funzione dal valore morale’ o, in ambito cristiano, come ‘mandato della predicazione evangelica’, da ricondurre in tutti i casi alla religiosità dei gesuiti. Se, invece, ricorriamo a missione gesuita stiamo indicando la ‘sede fisica in cui i missionari svolgono il proprio lavoro’, un luogo, spesso fornito di scuole e ospedali, qualificato come gesuita per distinguerlo, ancora una volta, da una missione domenicana, salesiana e via dicendo. È infatti con questa accezione che cominciamo a incontrarlo in più di un testo intorno alla metà dell’Ottocento. Un esempio chiarificatore ci viene da una delle prime traduzioni italiane dell’importante opera di George Bancroft, la History of the United States of America, pubblicata in 10 volumi tra il 1834 e il 1875 e ristampata in numerose edizioni; nella traduzione di uno dei primi volumi, eseguita da Giuseppe De-Tivoli e pubblicata nel 1857 a Milano con una prefazione dello scrittore Giuseppe Rovani (1818-1874), leggiamo di una missione nell’area del Mississippi:
Il più antico stabilimento permanente europeo nella valle del Missisipì è il villaggio dell’Immacolata Concezione della Santa Vergine, ossia Kaskaskia, sede di una missione gesuita, la quale grado a grado diventava un punto centrico della francese colonizzazione. (Storia degli Stati Uniti d’America di Giorgio Bancroft, versione dall’anglo-americano di Giuseppe De-Tivoli, vol. V, Milano, Giuseppe Canadelli, 1857, p. 103)
Non è da escludersi che, trattandosi di una traduzione, ci sia stata un’influenza della lingua inglese, dove non esiste alternativa a jesuit, ma il sintagma missione gesuita e anche quello di collegio gesuita, con riferimento a sedi bene precise, si diffondono indipendentemente da influenze inglesi e oggi li troviamo anche negli articoli pubblicati nei siti ufficiali della Compagnia di Gesù: basterà fare una rapida ricerca negli archivi digitali di Gesuiti e Jesuits.
Per chiudere questa rapida storia, non si può non rammentare che entrambe le parole, gesuita e gesuitico, hanno assunto nel corso del tempo una connotazione negativa: il primo viene usato, infatti, anche per indicare una ‘persona scaltra, ipocrita, dissimulatrice’ e il secondo per qualcosa ‘che esprime ipocrisia e falsità’. Sarebbe troppo lungo spiegare qui i tanti motivi che hanno condotto a questa degradazione semantica e che partono da molto lontano, legandosi sia al ruolo svolto dai gesuiti negli anni della riforma tridentina, sia alle controversie su questioni importanti come il probabilismo, che (semplificando molto la nostra spiegazione) consentiva, in casi etici dubbi sui quali la dottrina non dava indicazioni sicure, di agire affidandosi alla coscienza personale. Non ci meraviglia che in italiano la prima testimonianza di gesuitico usato con accezione negativa si trovi nelle opere di Galileo Galilei (GDLI; DELI, s.v.), ma si dovrà attendere l’Ottocento e il diffuso sentimento anticlericale che precederà e seguirà l’unità politica del paese per cogliere in gesuita il senso di ‘persona astuta e ipocrita’.
Per fare, dunque, un riepilogo finale, il sostantivo gesuita può assumere funzione di aggettivo non solo in associazione con padre / predicatore / missionario, ma anche con missione, quando questa si riferisca alla sede fisica. Missione gesuitica, invece, significherà ‘funzione, azione morale ed evangelica svolta secondo i principi dei gesuiti’ e difficilmente assumerà un valore denigratorio; un’espressione come comportamento gesuitico (o da gesuita), al contrario, rinviando a qualcosa di tipico di un gesuita, potrà con facilità rientrare tra le connotazioni negative. Noi ci auguriamo, d’altro canto, che i nostri lettori possano godere soltanto delle azioni e delle parole migliori dei gesuiti, come, prime tra tutte, quelle di papa Francesco.
Rita Librandi
27 novembre 2024
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