In sala parto si può sgravare?

I nostri lettori ci hanno rivolto molte domande sull’uso e l’origine del verbo sgravare con il significato di ‘partorire’.

Risposta

Sono arrivate molte domande in Accademia circa l’uso corretto del verbo sgravare per indicare ‘partorire’. Ad alcuni il suo uso in questa accezione sembra alquanto strano, se non addirittura improprio o volgare, ma nella breve risposta che segue vedremo che non è così. Inoltre la maggior parte delle persone sembra pensare che il verbo non sia più in uso o per lo meno che venga impiegato oggi in contesti popolari: le attestazioni su alcuni libri editi di recente ci dimostrerà che anche questo non è affatto vero.

Il significato che ci interessa di sgravare, accanto a quello primario di ‘alleggerire’, non è registrato in nessuna edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, ma è presente nel Tommaseo-Bellini: “sgravarsi, parlandosi di donna, vale nell’uso di partorire”. Cominciamo dall’etimologia: il verbo sgravare, formato da gravare con il prefisso s-, ha come base l’aggettivo grave, dal latino grave(m) (accusativo maschile e femminile di gravis, -e) ossia ‘pesante’. I derivati di grave sono molti in italiano (si veda la voce gravem del RIF) e tutti veicolano il significato di ‘pesantezza’: gravare, gravezza, gravoso, aggravio, ma anche gravità e, appunto, sgravare. Sempre da gravis, -e deriva l’aggettivo latino gravĭdus, che significa letteralmente ‘appesantito’ e da cui provengono le parole italiane gravido, gravidico (termine medico) e gravidanza. Per quanto riguarda la semantica complessiva del verbo, sgravare ha, tra i suoi vari significati, anche quello di ‘partorire’. È utile precisare che il verbo partorire deriva dal latino parturire, a sua volta derivato, attraverso la forma del participio passato partus, da pario, -is, parĕre, che ha tra i suoi significati quello di ‘creare’. Dunque partorire ha una semantica che si proietta più verso il neonato che verso la donna, a differenza di sgravare (e sgravidare), che vede il parto come un ‘alleggerimento’ dato che nell’atto di partorire ci si libera da un peso fisico. E in effetti, senza entrare troppo nel merito, bisogna considerare che gli ultimi mesi della gravidanza di una donna sono i più difficili: le normali attività della vita quotidiana diventano faticose perché il peso accumulato ormai è diventato considerevole e la pancia ingombra. Alcuni potrebbero pensare che il verbo porti con sé un’accezione negativa legata al nascituro: ci si libera da un peso, una zavorra. In realtà sgravare descrive un’azione normale e fisiologica che le donne che hanno sperimentato la gravidanza possono ben comprendere: arrivate all’ottavo/nono mese il peso si fa tale che tra i motivi che rendono desiderabile la nascita di un figlio c’è anche quello di potersi muovere poi con maggiore agilità.

Passiamo alla diatesi del verbo. Il GRADIT inserisce nel suo lemmario con la marca ‘popolare’, oltre come ‘comune’, sia sgravare (verbo intransitivo con ausiliare avere) sia sgravarsi (verbo pronominale intransitivo): quindi possiamo dire sia la donna ha sgravato, sia la donna si è sgravata. Generalmente il verbo è usato con valore assoluto e non vi si appone il complemento perché il grave, ossia il peso, dovrebbe essere già compreso all’interno del verbo; tuttavia, quando è espresso, il complemento viene normalmente introdotto dalla preposizione di (si dice infatti sgravare o sgravarsi di qualcosa). Tuttavia, sono stati registrati anche usi del verbo come transitivo (la mamma ha sgravato un figliolo).

La semantica di sgravare risulta alquanto complessa. Il GDLI registra come primo significato quello di ‘alleggerire una persona o un animale da un peso che regge in mano, nelle braccia, sulle spalle, sul dorso’ e per estensione ‘liberare qualcuno dall’armatura e dalle armi che indossa’. Il secondo significato è quello di ‘depositare un carico’, mentre il terzo, che interessa sempre un’azione fisiologica relativa al corpo umano, è quello di ‘svuotare il ventre dalle feci’. I significati registrati successivamente sono tutti estensivi: ‘togliere una colpa’, ‘togliere un’imposta’ e simili. Dobbiamo arrivare al dodicesimo punto per incontrare il nostro significato: ‘liberarsi del feto con il parto, partorire’. Le attestazioni riportate nel dizionario sono tutte successive al XVIII secolo, da Iacopo Andrea Vittorelli [1749-1835] ad Alessandro Manzoni, da Matilde Serao a Gabriele D’Annunzio e a Luigi Pirandello:

Quando il pigro ottavo mese / il suo corpo ha già varcato / e il bel fianco affaticato / a sgravarsi è ormai vicino / per le selve circostanti / manda in traccia d’una bella / quadrilustre villanella / che nudrisca il tuo bambin. (Iacopo Andrea Vittorelli, Lirici del Seicento e dell’Arcadia a cura di C. Calcaterra, Milano-Roma, Rizzoli, 1936, p. 82)

Giovannina s’è sgravata felicemente, il 17, d’una bambina. (Alessandro Manzoni, Lettere, Milano, Mondadori, 1970, vol. 3, p.16)

«Impazzita?» «Sì, alle donne che sgravano, talvolta questo succede». (Matilde Serao, Mors tua, Milano, Fratelli Treves, 1926, p. 636)

Nel febbraio del 1826 Francesca si sgravò d’un bimbo morto (Gabriele D’Annunzio, San Pantaleone, Firenze, Barbera, 1886, p. 25)

Conosceva lei una balia, una contadina d’Alatri, venuta a sgravarsi all’ospedale di San Giovanni. (Luigi Pirandello, O di uno o di nessuno, in Novelle per un anno, con prefazione di C. Alvaro, Milano, Mondadori, 1958, p. 543)

Su Google libri è possibile però trovare qualche occorrenza più antica, risalente al Cinquecento e Seicento:

Ella, richiamata dalla voce del figliuolo in sé, sentendo il ventre sgravato del peso, prese il figliuolo che vagiva, nelle braccia… (François Coster, Della vita et delle laudi della Vergine madre di Dio, trad. it. C. Camilli, Venezia, 1591, p. 82)

Epitafio a Margherita Mazzara de’ Baroni della Torre, prima moglie dell’Autore, morta nello sgravarsi del primo parto (Giuseppe Toppi, De’ furti virtuosi al tempo, Napoli, 1683, p. 187)

Non si rintracciano esempi anteriori: nel corpus OVI (ossia il corpus dell’italiano antico) tutte le attestazioni di sgravare e sgravarsi non contemplano questo significato ma, per lo più, quello di ‘alleggerire/rsi da un peso (anche in senso figurato) oppure da una colpa o da un peccato’. Il TLIO (Tesoro della lingua Italiana delle Origini) registra alcuni derivati di sgravare che portano sempre il significato di ‘alleggerire da una colpa, un obbligo, un peccato’ mai quello di ‘partorire’: sgravamento e sgravazione (‘esonero da un’imposizione o da un obbligo, in partic. di natura fiscale’); sgravatore ‘ufficiale con funzioni amministrative o giuridiche preposto alle procedure di esonero (da imposizione e obblighi, in partic. di natura fiscale, o da carichi pendenti)’.

Per quanto riguarda il corpus VoDIM (Vocabolario dinamico dell’Italiano Moderno), risalgono alla seconda metà dell’Ottocento le occorrenze di sgravare/rsi ‘partorire’, tutte appartenenti all’ambito letterario (o paraletterario):

L’anno mille e ottocento etc., giorno ed ora etc., a bordo del piroscafo denominato il Galileo, iscritto al compartimento marittimo di Genova, etc., il signor medico tal dei tali ha presentato a noi, Capitano in comando del detto piroscafo, in presenza dei signori tali e tali, un bambino di sesso maschile di cui s’è sgravata la signora.... Spuntò un sorriso sulle labbra di tutti quando s’intese leggere che il luogo nativo di quel povero bambino era latitudine nord 4, longitudine ovest, meridiano di Parigi, 25, 48. (Edmondo De Amicis, Sull’Oceano, Milano, Fratelli Treves Editori, 1890, p. 232)

Come formola i francesi adottano la seguente: Il signor Mauri ha l’onore di parteciparvi che sua moglie si è felicemente sgravata di un maschio. Madre e bimbo stanno bene. (Emilia Nevers, Galateo della Borghesia, Torino, presso L’Ufficio del Giornale delle donne, 1883, p. 106)

“Che seccatura!” Il chirurgo della comunità, signor Giampietro, aveva assistita la madre di Chiarina, quando si era sgravata di lei. Costui, che per tale ragione amava paternalmente la ragazza non cessava di raccomandarla alle mie cure. (Enrichetta Caracciolo De’ Principi di Fiorino, Misteri del chiostro napoletano, Firenze, Barbera, 1864, p. 192)

Sua moglie s’era sgravata felicemente; e poche ore prima, quantunque coi dolori del parto, gli aveva preparato la minestra e aveva messo a letto i bambini, bella e florida, allegra come al solito, scherzando coi figliuoli che non volevano addormentarsi: - Domani, se siete buoni, vi regalerò il fratellino o la sorellina, che troverò nella sporta dietro l’uscio. (Luigi Capuana, Tre colombe e una fava, in Racconti, vol. II, Salerno, Salerno Editore, 1894)

Le attestazioni successive non hanno mai il significato in questione e dobbiamo aspettare la seconda metà del Novecento per ritrovarlo, questa volta all’interno di un quotidiano:

[...] l’atmosfera che regna nel palazzo della Regione di Trieste [...] è ben diversa da quella che si respira qui, a Udine, nella stessa prefettura, con conferenze-stampa volanti, mentre giungono gli appelli dei paesi ancora isolati che hanno bisogno di medicinali, [...] dove c’è chi chiede l’intervento di un veterinario per la mucca che deve sgravare [...]. (Mino Durand, L’immediato futuro dei settantamila senzatetto al centro della polemica tra Stato e Regione, “Corriere della Sera”, 21/5/1976, p. 11).

All’interno del corpus VoDIM, l’unica occorrenza del Novecento si riferisce agli animali e non agli esseri umani e oggi sui quotidiani non è stato mai rilevato il verbo con il significato di ‘partorire’, quasi che il verbo venga avvertito come volgare se non addirittura triviale e che quindi non si possa attribuire all’uomo. Questa percezione viene però smentita dalle occorrenze del verbo in alcuni testi pubblicati di recente rilevati attraverso Google libri:

Aveva vent’anni, e s’era sgravata di notte, senza un aiuto. Così l’incidente dell’arrivo di un figlio è gestito dagli stessi uomini. (Mario Lunetta, Figure Lunari, Roma, Robin Edizioni, 2004, p. 183)

Marinetta era tornata dai suoi, si era sgravata di un figlio. Da chi, della servitù l’aveva sentito raccontare?...E poi era morta? E il bambino? (Camilla Salvago Raggi, Lontani parenti, Torino, Lindau, 2016)

Il 1855 aveva infatti portato l’annuncio di un nuovo arrivo in casa Colocci: la nostra Enrichetta si era felicemente sgravata di un bambino (Barbara Montesi, Fare l’Italia e disfare la famiglia: i Colocci Vespucci (1831-1867), Milano, Franco Angeli, 2020, p. 114)

Tra queste occorrenze ce ne sono due in particolare che usano il verbo in maniera transitiva (evidentemente riecheggiando usi popolari e dialettali (nell’esempio di Celestini, infatti, si rileva anche, nella frase precedente, l’accusativo preposizionale):

Peppinedda ha sgravato un maschietto tondo e ricoperto di peli neri. (Dacia Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Milano, Rizzoli Vintage, 2015 [I ediz. 1990])

Lei di punto in bianco si sente la pancia gonfia, chiama la serva e partorisce a me.
Tanta è la gioia che ha sgravato un figlio che si scorda del giuramento. (Ascanio Celestini, Cecafumo, Storie da leggere ad alta voce, Roma, Donzelli, 2002, p. 39)

Nell’italiano antico, come si è visto, sgravare in questo senso non è documentato; ma c’è un altro verbo dalla stessa base etimologica con il significato di ‘partorire’ e cioè sgravidare, le cui prime attestazioni risalgono al Quattrocento:

Acque abbiam di più vertù / per chi non può sgravidare. (Lorenzo de’ Medici, Canto delle rivenditore, in Aridosia – Apologia – Rime – Lettere, Torino, UTET, 1921, p. 324)

Io t’ho svegliato sotto un melo, …là dove quella che t’ha partorito s’è sgravidata di te. (Diodati [Bibbia], La sacra Bibbia, ossia l’Antico e Nuovo Testamento, tradotti da G. D., Roma, s.d. [I ediz. 1607], p. 592)

Quest’ultima citazione risulta particolarmente interessante per due motivi: il primo è che nella stessa frase compaiono due verbi con lo stesso significato (partorire e sgravidare); il secondo è che dal confronto con altre traduzioni della Bibbia (quella più aggiornata della CEI ad esempio) il primo verbo, ossia quello della relativa che descrive la madre, è partorire mentre il secondo, ossia quello della principale, è concepire. Stessa differenza lessicale nella Nova Vulgata della Bibbia: Sub arbore malo suscitavi te;/ ibi parturivit te mater tua, / ibi parturivit te genetrix tua. Fatto sta che i due verbi, nel testo originale, dovevano avere due significati affini e questa affinità probabilmente è stata avvertita dai primi traduttori come sinonimia tant’è che l’inserimento di sgravidarsi potrebbe essere dovuto a una motivazione di carattere stilistico, per una variatio dei significanti.

L’esempio tratto dalla Bibbia ci offre lo spunto per confrontare il trattamento dei verbi sgravare, sgravidare e partorire all’interno del Devoto-Oli 2021: sgravidare è assente, sgravare presenta la marca ‘popolare’ mentre partorire non ha nessuna etichetta. In effetti, sgravidare è di bassissimo uso tanto da perdersi nella lingua contemporanea, sgravare viene ancora impiegato, ma in ambito popolare e in contesti familiari, se non dialettali, mentre partorire è il verbo italiano comunemente usato e accettato dalla maggior parte dei parlanti.

Per completare il quadro, è utile fare un confronto tra essere incinta, gravida, pregna considerando che sgravare fa riferimento alla donna gravida. La carta 74 dell’Atlante Italo-svizzero (AIS) presenta tutti i tipi lessicali per dire ‘gravida’ diffusi sulla nostra penisola: al Nord e soprattutto nel Centro con la Toscana è diffuso il tipo gravida mentre al Sud e nelle isole è registrato il tipo pregna che deriva direttamente dal latino volgare *praegnum o *praegnem (GRADIT), a sua volta dal classico praegnans (da cui pregnante). Confrontando le voci sui dizionari notiamo che gravido non reca alcuna marca sociolinguistica, pregno viene considerato letterario ed eventualmente applicato solo ai mammiferi o agli animali in generale, mentre incinta è di uso comune (ed è anche l’unico lemmatizzato al femminile, perché adoperato solo in questa particolare accezione: il maschile incinto può però comparire in contesti scherzosi o comunque particolari).

Infine va segnalato un nuovo significato del verbo, finora non registrato nei dizionari dell’italiano contemporaneo perché si tratta, per ora, di un uso regionale appartenente all’area romanesca, per lo più in circolo nel gergo giovanile, in cui sgravare significa ‘esagerare’ e sgravato ‘esagerato’. Il verbo, che non è presente nel dizionario di Chiappini (1933) né in quello di Ravaro (1994) dove compare con il solo significato di ‘partorire’, è stato inserito in alcuni repertori o studi di carattere lessicografici del romanesco contemporaneo: già nel 1999 Giuseppe Antonelli e poi nel 2001 Claudio Giovanardi registravano sgravare con il significato di ‘esagerare’; l’ultima edizione di Bella cì (2019) include nel lemmario non solo sgravare e sgravato, ma anche sgravo, effettivamente usato dai giovani romani di oggi come aggettivo anche con valore apprezzativo, vicino a (troppo) forte, (troppo) bello, ecc.

Nel repertorio del romanesco contemporaneo online turbozaura.it, che riprende il Manuale di conversazione della metropoli periferica [Roma, autoproduzione inedita] uscito nel 1993 e anche altri testi, il verbo viene così registrato:

Sgravare: esagerare, riferito a persona che ha fatto un’enorme stupidaggine. Es. “Hai popo sgravato”, “hai davvero superato il limite causando ripercussioni terribili quanto inevitabili”
Dunque, nel romanesco il verbo sgravare con il significato di ‘esagerare’ si è diffuso in tempi recenti; probabilmente non si tratta di una nuova accezione assunta da un verbo già polisemico, ma di un caso di omonimia, in quanto il verbo sarebbe stato formato da gravare con il prefisso s- con valore intensivo (come in scancellare), molto frequente del resto nel romanesco, e non negativo o reversativo, come in sgravare ‘partorire’. In ogni caso, i due verbi (o i due significati di) sgravare devono aver convissuto a Roma negli anni Novanta, ma oggi prevale quello proprio del gergo giovanile, mentre l’altro sembra essersi perso, o per lo meno pare nettamente minoritario.


Nota bibliografica:

  • Giuseppe Antonelli, A proposito della neodialettalità metropolitana: un’inchiesta pilota sul linguaggio giovanile romano, in Maurizio Dardano et al., Roma e il suo territorio. Lingua, dialetto, società, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 225-248.
  • Bella ci! Piccolo glossario di una lingua sbalconata, nuova edizione, a cura di Lorenzo Maria Lucenti, Jacopo Montanari, Alghero, Edicions de l’Alguer, 2019.
  • Filippo Chiappini, Vocabolario romanesco, a cura di Bruno Migliorini, Roma, Leonardo da Vinci, 1933.
  • Claudio Giovanardi, I neologismi del romanesco e le lacune della lessicografia dialettale, in Paolo D’Achille, Claudio Giovanardi, Dal Belli ar Cipolla. Conservazione e innovazione nel romanesco contemporaneo, Roma, Carocci, 2001, pp. 169-197.
  • Fernando Ravaro, Dizionario romanesco, Roma, Newton Compton, 1994.

Miriam Di Carlo

16 marzo 2022


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