Alcuni lettori ci chiedono chiarimenti sulla grafia e sull’origine del termine lazzaretto tornato “in auge” nei giorni peggiori della pandemia da SARS-CoV-2; due di loro in particolare si domandano se il termine corretto non sia piuttosto lazzareto.
Sulle origini della parola lazzaretto gli studiosi sono sostanzialmente concordi; la trafila è stata delineata da ultimo, con ammirevole sintesi, da Lorenzo Tomasin sul “Sole 24 Ore” del 29.03.2020. Fra pochi mesi si potrà leggere nel sito dell’Opera del vocabolario italiano (OVI) il futuro riferimento indispensabile sul tema, all’interno della prima porzione (circa cento articoli) del Vocabolario Etimologico del Veneziano (VEV) diretto dallo stesso Tomasin.
Dal 1423 la Repubblica di Venezia adibì il monastero di Santa Maria di Nazareth, sull’isola oggi detta del Lazzaretto Vecchio, a luogo di quarantena e di assistenza agli appestati. Il prestigio internazionale di Venezia trasformò in pochissimo tempo la denominazione dell’edificio in un nome comune e lo irradiò in ogni direzione: non diversamente da gheto, lazareto entra in italiano e nelle lingue d’Europa e del Mediterraneo per rimanervi. Molti altri dettagli storici si trovano alle pp. 13-27 del recentissimo (2018) Il Lazzaretto Vecchio di Venezia. Le scritture epigrafiche di Francesca Malagnini. Nazareth sembra insomma l’indiscutibile etimo di lazzaretto. L’evidente rapporto con Lazzaro, il mendicante coperto di piaghe del Vangelo di Luca (16,19-26; ma forse anche con il redivivo di Giovanni 11,1-44), è anch’esso indubbio ma viene in genere considerato solo secondario e forse dovuto almeno in parte a confusione con l’antistante isola di San Lazzaro degli Armeni.
Lasciano ancora qualche spazio alla curiosità etimologica il rapporto esatto che intercorre tra l’etimo primario e quello sussidiario e le fasi più recenti della storia della voce, sulle quali soprattutto si concentrano le richieste di chiarimento.
Sul primo versante si può anzitutto precisare che in antico veneziano lo scambio n/l iniziale non era raro (ninzuol, poi ni(n)siól ‘lenzuolo’, nimbo ‘limbo’, nòmbolo ‘lombo’). Non sorprende troppo, quindi, che nazareto e lazareto, in diverse grafie, si alternino fin dalle origini della parola e poi ancora a lungo, togliendo così verosimiglianza a un’evoluzione strettamente intesa da nazareto a lazareto. L’impressione è confermata anche dalla cronologia delle fonti: già nel 1437, infatti, viene messo per iscritto a Venezia un testamento in latino che cita tra i beneficiari un “loc[us] et hospital[is] Sancte Marie de Lazareto”. Inversamente ancora nel 1492, vale a dire ben dopo la fondazione del Lazzaretto nuovo (1468), la Repubblica paga un salario straordinario all’architetto-capocantiere (“proto”) Bartolamio Bon “per atender alli lavori di nazareti al bixogno”. Alla metà del secolo la fondazione di un lebbrosario trevigiano viene registrata nei documenti ufficiali (ed. da Luigi Pesce, citato in DELI) in diverse forme, fra le quali trovano posto sia “hospitalis … Sancte Marie de Nazaret” che “hospitalis … Sancte Maria de Laçaret”. Soprattutto, la tradizione che collega i lebbrosi a San Lazzaro risale almeno al Medioevo: un lebbrosario religioso intitolato al santo era attivo a Gerusalemme ancor prima delle Crociate; nella Toscana di inizio XIV sec. uno spedale di Sancto Lazaro riceveva dal comune di Siena dieci “libre di denari” all’anno per la cura dei malati di lebbra (nota quasi fino a oggi a livello popolare anche come “male di San Lazzaro”). I due nomi propri Nazareth e Lazzaro sembrano insomma avere contribuito alla coniazione di lazzaretto fin dagli inizi e in misura comparabile, se non con una preminenza dei due Lazzari evangelici (spesso confusi nella tradizione).
Meno complessa è, invece, la storia della parola nei secoli successivi: la t intensa dell’attuale lazzaretto dipende dal passaggio in toscano e poi in italiano del veneziano lazareto. Al di fuori dalla Repubblica il ricordo dell’edificio originario doveva essere ormai svanito: le fonti in lingua italiana non sembrano riportare alcun *nazaretto. L’evoluzione trova rispondenze in altri fra i non pochi venezianismi passati alla lingua nazionale (basti citare gazzetta e ancora una volta ghetto): lazareto viene equiparato alle numerose parole per le quali vale la corrispondenza veneziano (e parlate settentrionali antiche e moderne) -eto / -eta = italiano -etto / -etta. Non è valsa evidentemente a mantenere la t scempia la coincidenza formale di -eto da (Nazar)eth con il suffisso -éto, che in italiano forma soprattutto nomi di ambienti aperti antropizzati (frutteto, querceto, sepolcreto), come già -ētum in latino.
Anche la z doppia dell’esito italiano si spiega senza difficoltà con ragioni fonetiche oltre che, ancora una volta, con l’influsso di Lazzaro o Lazzero. L’italiano ha ripreso dal fiorentino e mantenuto in uso a lungo anche la variante laz(z)eretto: la si legge ad esempio in Galileo e in Leopardi. Quello milanese è centrale nella vicenda dei Promessi sposi, in cui è sempre un lazzeretto, anche se lo si trova citato come lazaretto per la prima volta nella letteratura italiana già nel 1540 (nella Storia d’Italia di Francesco Guicciardini: è una delle primissime attestazioni dell’uscita in -etto). Stavolta però l’esempio manzoniano non ha attecchito in italiano, certo per via del già diffuso radicamento della variante alternativa.
Lazzaretto, anche nei suoi usi traslati divenuti tristemente consueti nell’anno in corso, è insomma l’unica variante rimasta in auge nell’italiano contemporaneo, almeno nello scritto; eventuali pronunce scempie in bocca settentrionale restano normali e del tutto lecite purché confinate al parlato.
Francesco Crifò
10 luglio 2020
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