Si dice estorsore o estortore? Estorsivo o estortivo? Si estorce qualcosa a qualcuno o da qualcuno (meglio non farlo però!)? E qual è la differenza tra estorsione e rapina?
Le tante domande sulla famiglia di parole che fa capo al verbo estorcere sono interessanti perché di natura molto varia: riguardano forma, uso e significato. Le affronteremo in ordine inverso.
Il termine estorsione, oltre che indicare genericamente “l’estorcere e il suo risultato”, possiede anche un significato specialistico nell’ambito del diritto, dove designa il “reato di chi con la violenza o le minacce ottiene da altri un profitto o un vantaggio”. La definizione del GRADIT qui citata è formulata in base all’art. 629 del Codice penale, dedicato appunto all’estorsione, che nella versione aggiornata al 2024 disponibile in linea recita:
chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.
L’articolo precedente, il 628, tratta invece della rapina:
chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 927 a euro 2.500.
Anche in questo caso il Codice penale è rispecchiato nei dizionari più completi: per il Vocabolario Treccani in linea la rapina è, per esempio, “in diritto penale, delitto contro il patrimonio, consistente nell’azione e nel fatto di impossessarsi, mediante violenza o minaccia, della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”. Nell’estorsione, dunque, si costringe qualcuno a fare o non fare qualcosa, mentre nella rapina ci si impossessa di qualcosa, o meglio “della cosa mobile altrui”. Il discrimine tra i due reati, come mi ha chiarito l’amico avvocato Luca Ponzoni, risiede proprio nello spazio lasciato alla libertà della parte lesa ed è sintetizzato dalla massima giuridica coactus tamen volui ‘(benché) costretto, tuttavia sono stato io a volere’, che si applica all’estorsione ma non alla rapina.
Passiamo a considerare la costruzione del verbo estorcere, compulsando un dizionario specialmente attento alle reggenze preposizionali come il Nuovo Devoto-Oli. L’edizione del 2023 che ho a disposizione informa sul fatto che in italiano contemporaneo chi viola il suddetto art. 629 del codice penale estorce qualcosa a qualcuno e non da qualcuno. Così anche il dizionario Sabatini-Coletti, sia nell’edizione 2018 messa a disposizione dal “Corriere della Sera”, sia in quella più recente del 2024 e il Nuovo De Mauro che si trova sul sito dell’Internazionale: il presente non lascia dunque dubbi in proposito. Se però qualcuno avesse scommesso con gli amici puntando sulla preposizione da, potrebbe sempre scamparla rifacendosi alla storia dell’italiano, dove estorcere è attestato anche nell’altra costruzione. Già tra Due e Trecento, nel volgarizzamento toscano della Vita di Alessandro Magno, si legge infatti “da nnoi neuna cosa potrai storcere” ‘non potrai estorcere nessuna cosa da noi’ (TLIO). Qualche secolo dopo Guicciardini, nella sua Storia d’Italia, scrive (a proposito del pontefice e dei bolognesi) “estorquendo… danari assai da molti cittadini” (GDLI). Ancora a metà del Settecento Goldoni, nella sua tragicommedia in versi Zoroastro, scrive “avrà dal re crudele forse l’arcano estorto”, e pure nella Vita scritta da lui medesimo di Pietro Giannone, di poco precedente, si trova un passaggio con da (“estorquendo dal medesimo favori ed arbitrii”; cfr. BIZ). Non è facile dire quando la costruzione con da sia uscita dall’uso: scorrendo le citazioni offerte da GDLI e BIZ sembra che la sua decadenza sia da collocarsi nell’Ottocento, ma potrebbe trattarsi di un abbaglio dovuto alla mole ridotta dei dati analizzati.
Il verbo estorcere conta, come ci si poteva aspettare, numerose ricorrenze nella Storia della colonna infame di Manzoni, dove si racconta della confessione strappata con la tortura a Giangiacomo Mora, sospetto untore nella Milano in preda alla peste del 1630. Nel capitolo quarto, Manzoni scrive che il buon senso dice "troppo chiaro che la parola estorta dal dolore non può meritar fede". La costruzione è ambigua, perché potrebbe leggersi sia ‘la parola che è stata estorta al dolore (cioè a un uomo nel dolore)’ sia ‘la parola che il dolore (cioè il torturatore che infligge dolore) ha estorto’. L’interpretazione giusta è senz’altro la seconda. In tutti gli altri casi in cui il verbo estorcere è usato nella Storia della colonna infame, infatti, il pronome personale di chi subisce l’estorsione è sempre espresso nella forma dell’oggetto indiretto, e in due casi proprio la parola dolore è soggetto: “dopo avergli estorta una ratificazione” (cap. IV), “nuove torture gli avrebbero estorta una nuova confessione” (cap. V), “[quelle parole] così strane che gli aveva estorte il dolore” (cap. V), “[i torturati confermavano le proprie confessioni] per la forza delle cagioni medesime che gliele avevano estorte” (cap. V), “tutte l’accuse che la speranza o il dolore gli avevano estorte” (cap. V). In Manzoni, dunque, che senza dubbio è un autore che segna uno spartiacque nella storia della nostra lingua, la costruzione del verbo estorcere è quella con la preposizione a.
Come dal punto di vista delle reggenze il verbo estorcere passa da due possibili costruzioni, con da e con a, a una sola, anche dal punto di vista del significato si nota un restringimento di campo: attualmente il verbo estorcere significa infatti esclusivamente “ottenere da altri con la violenza o con l’inganno” (così il Vocabolario Treccani in linea) ed è perciò distinto da rapinare o rubare. Lo stesso non si può dire però del passato: per esempio, nel suo commento alla Commedia di Dante, Iacopo della Lana parla dei “ladruni li quai fraudulentemente e secretamente extorqueno la roba del proximo” [‘ladri che con frode e in segreto estorcono la roba del prossimo’] (TLIO), usando chiaramente estorcere nel senso di ‘sottrarre ad altri di nascosto’. Nel senso invece di ‘portar via con la forza’ il verbo è usato per esempio nelle loro rime da Iacopone da Todi (“Lo peccato sì fa a l’alma la ferita cusì forte, / che li tolle Deo e i santi e l’angeli con lor sorte; / […] e gli beni gli so estorte, che nulla parte i sia dato” [‘il peccato infligge all’anima una ferita così grave che le toglie Dio, i santi e gli angeli con il loro destino; e le sono estorti i beni, che nessuna parte le sia data’]) e da Lorenzo de’ Medici (“L’arco e gli stral di man m’estorse”). Come la costruzione con da, così questa accezione di estorcere resta viva fino a tutto l’Ottocento, perché la si ritrova ancora negli scritti storici di Carlo Cattaneo: “Cartagine aveva quasi estorto ai valorosi Greci di Siracusa il dominio della Sicilia, quando vi si trovò a fronte i Romani” (Dell’evo antico, GDLI).
La risposta agli ultimi due quesiti, vale a dire se si dica estorsore o estortore e estorsivo o estortivo ha una versione semplice e una più complessa. Quella semplice è che si è liberi di dire e scrivere sia estorsore sia estortore, sia estorsivo sia estortivo, perché in italiano esistono tutte e quattro le forme, benché il secondo membro di ogni coppia sia oggi meno comune. Quanto ai loro curricula vitae, se si scava un po’ nella miniera di parole offerta da Google libri si ricava che estorsivo comincia a circolare già nel XIX secolo, mentre per estortivo bisogna attendere il Novecento. La parola estorsore compare nell’anno 1800 all’interno del Diario napoletano di Carlo De Nicola (GDLI), mentre per estortore la prima attestazione (al plurale) risale addirittura al 1548, nel secondo volume delle lettere di Marsilio Ficino tradotte dal latino da Felice Figliucci.
Un po’ più articolata è invece la questione del perché esistono queste forme concorrenti e quale sia la loro derivazione. Come da calciare si ha calciatore, da vincere vincitore e da rifinire rifinitore, così da estorcere ci si aspetterebbe estorcitore. E in effetti estorcitore esiste: lo registra la quinta edizione del Vocabolario della Crusca nell’Ottocento, e nel GDLI a fianco al maschile si trova menzionato anche il femminile estorcitrice. Ma sono forme molto rare e che qui si citano solo per dovere di completezza: come si è detto, sono estorsore e estortore le parole attualmente in uso. La seconda è solo apparentemente problematica. Il suffisso corrispondente all’italiano -(t)ore era in latino -or, e si aggiungeva non al tema del presente (coincidente con l’imperativo: bevi! → bevitore) bensì a quello del participio passato, come si vede per esempio in vincere, vict(um) → victor o docere, doct(um) → doctor. Quando la parola latina formata sul participio passato è arrivata in italiano, si danno tre casi principali: nel primo, esemplificato da parole come educatore o servitore, i nomi non mostrano alcuna differenza apparente rispetto alle formazioni italiane originali. Per il parlante comune sussiste cioè la medesima relazione tra calciare e calciatore da un lato e tra educare e educatore dall’altro, benché solo calciatore sia davvero derivato da calciare mentre educatore viene in realtà dal latino educatorem, a sua volta dal participio educatum. Il secondo caso è quello in cui la parola latina può essere ricondotta dal parlante a un participio che esiste in italiano: per esempio, lettore e uccisore vengono dal latino lectorem e occisorem, ma il parlante può interpretarli come ricavati dai participi italiani letto e ucciso più il suffisso -(t)ore. In questo gruppo può rientrare benissimo anche il nostro estortore. Un terzo caso è invece quello in cui il punto di partenza dev’essere per forza la forma del participio latino, diverso da quello italiano, come per ascensore, oppositore, traduttore che vanno legati ai participi ascensum, oppositum e traductum piuttosto che ad asceso, opposto e tradotto.
Il linguista austriaco Franz Rainer ha però fatto notare che proprio il caso di estorsore rompe le uova nel paniere, perché non si può legare né all’imperativo estorci! né a estorto né al latino extortum. È dunque necessario un quarto gruppo, che comprende voci come estorsore e distorsore, legate al nome d’azione corrispondente (estorsore a estorsione e distorsore a distorsione). A ben vedere, però, questo quarto gruppo può essere utilmente generalizzato: se infatti guardiamo all’italiano contemporaneo dimenticandoci la storia e il latino, possiamo scegliere di pensare che la nostra lingua presenti una serie di nomi in -ore (educatore, uccisore, ascensore, estorsore) che vanno ricondotti alla base del rispettivo d’azione (quando esiste), cioè educazione (con un cambio tra z e t o tt molto diffuso: abolito, abolizione; distratto, distrazione, ecc.), uccisione, ascensione, estorsione. Questa proposta ha inoltre il vantaggio di spiegare quei nomi in -ore per i quali in italiano c’è sì un nome d’azione ma non un verbo corrispondente, come incursore (incursione), legislatore (legislazione) o prefatore (prefazione). È forse superfluo aggiungere che estorsivo si spiega allo stesso modo di estorsore (cfr. Franz Rainer, Introduzione, in Grossmann-Rainer 2004, p. 18 e Maria G. Lo Duca, Nomi di agente, ibid., pp. 351-363: p. 353; cfr. anche Paolo D’Achille e Maria Grossmann, I suffissati in -(to)ore e trice nell’italiano del periodo 1841-1947, in La lingua variabile nei testi letterari, artistici e funzionali contemporanei: analisi, interpretazione, traduzione, Atti del XIII Congresso SILFI, Società internazionale di linguistica e filologia italiana Palermo, 22-24 settembre 2014, a cura di Giovanni Ruffino e Marina Castiglione, Firenze-Palermo, Cesati-Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 2016, pp. 787-805).
Michele Colombo
24 febbraio 2025
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