Alcuni lettori chiedono delucidazioni sull’etimologia della parola sincero, mentre altri domandano se si possa usare il sintagma sincera verità o se esso sia piuttosto una forma tautologica e dunque non corretta. Approfittiamo della pubblicazione delle risposte per farvi i nostri sinceri auguri per un’estate serena.
Un’etimologia sincera per la parola sincero
Obsequium amicos, veritas odium parit, ‘l’adulazione procura amici, la sincerità i nemici’: è un verso tratto dall’Andria di Terenzio (v. 68), ripreso poi da Cicerone nel De amicitia (Marcus Tullius Cicero, Laelius, De Amicitia a cura di Robert Combès, Paris, Les Belles Lettres, 1971, p. 156, par. 24,89s) per esprimere la necessità di dire la verità agli amici e, in questo caso, da altri autori come Lattanzio e Ausonio, con la finalità di aiutarli nella loro vita e nella produzione delle loro opere. Il verso, ripreso pure da Sant’Agostino, trova un’eco nel Vangelo secondo Luca (4,24): nemo profeta in patria ossia ‘nessun profeta è ben accetto in patria’. In questo caso la verità è rappresentata dalla parola e dalla sapienza di Dio; il profeta è colui che ha accolto questa verità, se ne fa garante e, dimentico di sé stesso, la dice alle persone che lo circondano, generando spesso un’ostilità nei suoi confronti. Nella tradizione classica e cristiana, in genere, i concetti di verità e sincerità coincidono: basti pensare al proverbio in vino veritas, attestato già in Alceo (“vino, fanciullo mio, e verità”) per cui il vino, disinibendo la ragione umana, fa sprigionare la verità del cuore e rende l’uomo sincero. Nella contemporaneità questa aderenza tra verità e sincerità viene meno in autori come Pirandello: non esiste una verità assoluta, ognuno è portatore della propria verità, della propria visione dell’altro e la sincerità nel dirla crea una vera e propria rifrazione dell’unità in tante parti quante sono le realtà di ogni uomo.
Ma la sincerità non è solo una virtù che si applica nella relazione con l’altro, nel dirgli la (propria) verità; essa anzitutto riguarda un rapporto molto più profondo, più intimo con sé stessi. Per esempio, la sincerità del cuore è la virtù più amata dal Dio degli Ebrei; un cuore sincero è un cuore che non si affeziona ad altri idoli (non solo gli dèi pagani, ma anche denaro, successo, ecc.), che mette Dio al primo posto, non si corrompe con dottrine e ideologie travianti ed è quindi unico, puro, integro. Per i cristiani questa sincerità del cuore si riflette non tanto nel comportamento (che può essere falso), ma nell’attitudine con cui si compiono le opere. Anche il linguaggio deve riflettere la sincerità del cuore, che spesso è sinonimo di semplicità, linearità nell’espressione:
Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno (Matteo 5, 37; da La Bibbia, Scrutate le scritture, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2020)
Oltre a questi significati, che riguardano qualità morali proprie dell’uomo, l’aggettivo sincero può essere usato per descrivere le caratteristiche di alcuni elementi inanimati. Soltanto per citare alcune accezioni registrate dal GDLI, ricordiamo che, per quanto riguarda i liquidi, sincero vale ‘non mescolato con altre sostanze’ ossia ‘che non ha subito adulterazioni e contraffazioni’ e, in particolare per il vino, ‘schietto, generoso e non adulterato’; per quanto riguarda i colori, ‘che ha tonalità viva, intensa, senza sfumature o venature’ ma anche ‘non tinto, naturale’ per il colore dei capelli. Inoltre una voce sincera è ‘limpida, squillante’ così come una vista sincera è ‘acuta, non obnubilata’. La luce solare, se non è riflessa o è fulgida e splendente, si può dire sincera; così come l’aria sincera è trasparente, pura. Tutte queste accezioni portano con sé il significato di purezza, integrità, unità.
Considerando, seppur in maniera approssimativa, queste sfaccettature semantiche dell’aggettivo sincero, arriviamo all’etimologia. Anzitutto la parola deriva sicuramente dall’aggettivo latino sincērus, per il quale sono state avanzate due diverse proposte etimologiche. La prima, che è stata segnalata anche dai nostri lettori, che è “vulgata” su Internet e che viene menzionata da Ottorino Pianigiani (magistrato di professione e linguista per passione) nel suo Vocabolario etimologico della lingua italiana (I ed. 1907), è una paraetimologia, ossia una ricostruzione dell’origine della parola non sulla base di dati scientifici linguistici documentati storicamente e/o suffragati da esempi collaterali e simili, ma sulla base di suggestive associazioni fonetiche e morfologiche ad altre parole. Questo tipo di ricostruzione etimologica, priva di fondamento scientifico, se è largamente condivisa da una buona parte della popolazione, viene detta “etimologia popolare” (dal tedesco Volksetymologie). In questo caso specifico, l’etimologia popolare (e dunque errata, anche secondo il Pianigiani) di sincērus (da cui sincero) è quella che fa derivare la parola da sine ‘senza’ e cera ‘cera’ con diverse e bizzarre interpretazioni:
I Romani ordinavano ai ceramisti e ai vasai greci partite di grosse anfore per vini e olii. Si sa che i vasi sono impermeabilizzati, o meglio invetriati, specialmente all’interno perché il loro contenuto non trasudi; i Greci, un po’ napoletani, adottavano spesso un trucco: invece dell’invetriatura, pi[ù] costosa, usavano la cera liquida che versavano nel contenitore. Nel tempo il trucco venne scoperto, perché anche se molto lentamente, il liquido contenuto usciva all’esterno del vaso per porosi[tà].
Allora i Romani, ormai smaliziati, quando facevano ordini di partite di vasi ai Greci, si raccomandavano che questi fossero SINE CERA e cio[è] senza cera. Praticamente senza trucco. Da qui la parola sincero che oggi sta’ [sic] a significare senza inganno. (Alessandro Pecorari, Vino sincero, post nel sito win.perpaolopecorari.it del 30/12/2005)
Anche la parola sincero ha un’origine illuminante nella sua etimologia, sine ceris = senza cera. Nell’antichità, quando una statua aveva dei difetti, si poteva aggiustare con la cera, che andava a mascherare e a levigare il marmo corrotto. Invece quando era perfetta, e non aveva bisogno di correzioni, veniva definita sincera, senza cera. (Alessio Atzeni, Arte del risveglio, Milano, Anima Edizioni, 2020, p. 190)
Come dice l’etimologia della parola stessa, colui che è sincero è senza cera (Cf. lat. sine cera). Si narra, infatti, che al tempo degli antichi romani, non esisteva lo zucchero e dunque per dolcificare le bevande si usava il miele. Non tutti gli apicoltori però erano onesti, e per ottenere più miele da vendere spesso lo mischiavano con la cera delle api, rendendolo meno puro e di conseguenza anche meno buono. La parola sincero, appunto, indica una persona “senza cera” ovvero una persona pura, autentica, non contraffatta che non usa trucchi o imbrogli nel rapporto con gli altri. Si è sinceri dicendo la verità con carità, scegliendo le occasioni giuste, e non si ferisce l’altro. (Enrico Russo, L’eclissi del cuore, Booksprint, 2018)
In realtà, come indicano i principali dizionari, l’aggettivo latino sincerus ha tutt’altra etimologia: deriva dalla radice *sem-/*sim- ‘uno solo, unico’ (da cui anche l’avverbio latino semel ‘una sola volta’ e l’aggettivo simplex ‘semplice’) e da -cērus, corradicale del verbo crēscere ‘diventar grande, aumentare’ e significa dunque ‘di una sola/unica origine; tutto d’un pezzo’. Infatti, in latino, il primo significato dell’aggettivo sincērus è ‘puro, sano, non corrotto’ e anche ‘schietto, naturale, semplice, intatto’; poi per estensione ‘leale, franco, onesto’, tant’è che in Livio sincerā fide vale ‘in buona fede’. L’etimologia rispecchia il primo significato della parola in latino: la sincerità è una virtù che in primis riguarda l’integrità dell’uomo a prescindere dall’aspetto “sociale” e relazionale. Per estensione poi, chi è sincero, ossia puro e incorrotto nel cuore, è automaticamente leale e franco nella relazione con l’altro. La paraetimologia precedentemente giustifica invece la derivazione da sine e cera attraverso delle ricostruzioni storiche più o meno fantasiose, che trascurano il significato originario e primario della parola.
In italiano le prime occorrenze letterarie di sincero sono nelle rime di Guido Orlandi, risalenti al 1290-1304:
ch’Amor sincero – non piange né ride:
in ciò conduce spesso omo o fema,
per segnoraggio prende e divide.
(Guido Orlandi, Per troppa sottiglianza il fil si rompe, in Valentina Pollidori (a cura di), Le Rime di Giudo Orlandi, in “Studi di filologia italiana”, LIII, 1995, pp. 55-202, p. 126, vv.7-9)
In questo caso, l’amor sincero è l’amore vero, puro, che non ha sostanza, ossia non piange e non ride. Sempre in riferimento ad amore ritroviamo l’aggettivo nel componimento dello stesso autore, Ragionando d’amore, mi conviene laudar.
Le occorrenze più interessanti dal punto di vista semantico, però, sono sicuramente nel Paradiso di Dante, unica cantica in cui compare l’aggettivo in questione. Le varie accezioni con cui Dante usa sincero ci aiutano a capirne il significato nella sua interezza e soprattutto sono funzionali a comprendere in quale senso era usata la parola nell’italiano delle origini.
E prima ch’io a ’l ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non più e,
credea, e di tal fede era contento;
ma ’l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.
(Paradiso VI, vv.13-18)
Nel canto VI ci troviamo nel Cielo di Mercurio e Dante incontra gli Spiriti che operarono il bene in vista della gloria terrena. In questi versi, è Giustiniano che si presenta e descrive una sua profonda conversione: prima che si occupasse dell’opera legislativa (ovra), credeva che in Cristo vi fosse una sola natura e questa fede lo appagava; ma il benedetto Agapito, che fu sommo pontefice, lo indirizzò con le sue parole alla fede autentica (fede sincera). La fede vera, sincera, si fonda sulla doppia natura di Cristo (quella di vero Dio e vero uomo), sulla quale si impernia tutto il cristianesimo. Nel VII canto troviamo di nuovo l’aggettivo sincero:
Li angeli, frate, e ’l paese sincero
nel qual tu se’, dir si posson creati,
sì come sono, in loro esser intero;
(Paradiso VII, vv. 130-132)
Questo canto, dal complesso contenuto teologico, spiega, attraverso le parole di Beatrice, perché la redenzione dell’umanità sia dovuta passare per il sacrificio di Cristo. Il passo specifico precede la risposta all’interrogativo di Dante sul perché gli elementi della natura siano soggetti a caducità e corruttibilità: gli angeli, e il luogo puro (paese sincero) nel quale si trova Dante, si possono considerare creati direttamente da Dio così come sono, nel loro essere interi, ossia nella pienezza del loro essere. In questo caso sincero riferito a paese vale ‘puro, incorrotto’ e designa il Cielo in cui si trovano Dante e Beatrice. Inoltre, l’aggettivo sincero rima con le parole vero e intero, le quali ne rafforzano la semantica.
Forse la mia parola par troppo osa,
posponendo il piacer de li occhi belli,
ne’ quai mirando mio disio ha posa;
ma chi s’avvede che i vivi suggelli
d’ogne bellezza più fanno più suso,
e ch’io non m’era lì rivolto a quelli,
escusar puommi di quel ch’io m’accuso
per escusarmi, e vedermi dir vero:
ché ’l piacer santo non è qui dischiuso,
perché si fa, montando, più sincero.
(Paradiso XIV, vv. 130-139)
Sincero, in questo verso, si riferisce a piacer santo, ossia la santa bellezza degli occhi di Beatrice, i quali diventano, salendo (montando), più puri, dunque più splendenti, ossia più vicini alla perfezione. La sincerità degli occhi della donna equivale alla purezza, all’assenza di rifrazioni terrene e dunque di peccati. A mano a mano che gli occhi riflettono la luce di Dio, diventano sempre più puri e dunque incorrotti.
L’accezione è simile nel XXVIII canto:
Così l’ottavo e ’l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch’era
in numero distante più da l’uno;
e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s’invera.
(Paradiso XXVIII, vv. 34-39)
L’ottavo e il nono cerchio, e come loro tutti gli altri, via via che si allontanavano dal centro, si muovevano più lentamente; così come chi stava più vicino al centro, in cui c’è la pura luce della favilla, aveva la luce (fiamma) più fulgente (sincera) perché maggiormente si compenetra della sua verità (s’invera). Anche qui sincera si riferisce alla purezza e all’incorruttibilità della luce divina, la quale viene definita favilla pura.
Infine nel XXXIII canto:
Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.
(Paradiso XXXIII, vv. 49-54)
Bernardo accennò e sorrise a Dante, affinché guardasse in alto; ma Dante era già predisposto a far da solo come Bernardo voleva: infatti la sua vista, diventando più limpida (sincera), penetrava sempre di più nel raggio dell’alta luce che è vera di per sé stessa. Anche qui, come nel VII canto, sincera rima con vera, e non a caso: siamo proprio nell’ultimo canto del Paradiso, quando Dante arriva a contemplare la mente di Dio, ossia la verità suprema tramite cui arriva a vedere l’unità dell’Universo, capire i misteri della Trinità e dell’Incarnazione. La vista sincera in questo caso porta con sé il significato di verità ma anche di unità, purezza e conoscenza.
Come abbiamo visto tramite gli esempi danteschi, le prime accezioni di sincero sono ‘puro’, ‘incorrotto’ e riguardano quindi una caratteristica morale individuale dell’uomo (che si riflette anche nella sua percezione sensibile, soprattutto attraverso la vista), a prescindere dalla relazione con l’altro. Il significato più diffuso, oggi, è invece quello estensivo di ‘che rifugge da qualsiasi inganno o falsità nel parlare o nell’agire; franco, leale, schietto’ (Devoto-Oli 2022). Questo significato è quello più diffuso nella letteratura contemporanea ma trova attestazioni a partire da Ariosto, e poi in D’Annunzio:
Se, dopo una lunga prova, a gran fatica / trovar si può chi ti sia amico vero: / ... / che dè far di Ruggier la bella amica / con quel Brunel non puro e non sincero, / ma tutto simulato e tutto finto, / come la maga l’avea dipinto (Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto IV, vv. 9-16, dell’edizione a cura di Lanfranco Caretti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, p. 2)
Ah, cara amica, non sorridete! Ella era ingenua e sincera parlando così: ella aveva lasciato in realtà i suoi occhi su quel frammento di tela che l’Arte con un po’ di colore ha fatto centro d’un mistero indefinitamente gaudioso. (Gabriele D’Annunzio, Il fuoco, Milano, Mondadori, 2013, s.p. [edizione digitale a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini])
Concludendo, l’aggettivo sincero ha, come in latino, il primo significato di ‘cresciuto tutto d’un pezzo’, dunque ‘puro, incorrotto’, come testimoniano le prime attestazioni nella letteratura delle origini. Per estensione la parola ha cominciato ad assumere il significato di ‘veritiero’ e poi di ‘leale, franco’ soprattutto nella relazione con l’altro. Queste accezioni estensive sono attestate a partire almeno da Ariosto, fino a diventare quelle più diffuse e conosciute oggi. Le paraetimologie largamente diffuse, che fanno derivare la parola da sine cera, cercano di ricostruire la storia di sincero a partire da questi significati estensivi, non tenendo conto della semantica originaria del termine. Forse la paraetimologia potrebbe sembrare più suggestiva e accattivante rispetto all’etimologia scientificamente provata: ma basta leggere Dante per comprendere la profondità e completezza di una semantica apparentemente semplicistica.
Sincera verità
Per rispondere alle domande dei lettori faremo due considerazioni, una di carattere letterario e testuale, una di carattere semantico e anche pragmatico (secondo quella branca della linguistica che studia gli atti linguistici).
Il sintagma sincera verità è attestato fin dal XIV secolo: compare due volte nella Regola del governo di cura familiare di Giovanni Dominici (Firenze 1357 - Buda 1419); in questo caso il significato dell’aggettivo sincero è quello usato da Dante di ‘puro, incorrotto’ e cioè ‘che ha il profondo fondamento in Dio’ (GDLI):
Vita spirituale è vivere la sincera verità. [...] Ogni volta sarà tolta via la falsa opinion del mondo, le divizie temporali sien parte della felicità, e vengasi alla sincera verità che la povertà sia non cognosciuta beatitudine, agevolmente si servirà questo capitoluzzo, che altrimenti parrà malagevole. (Giovanni Dominici (dell’Ordine de’ Frati Predicatori), Regola del governo di cura familiare, Firenze, Angiolo Garinei Libraio, 1860, p. 2 e p. 161).
La maggior parte delle antiche attestazioni del sintagma appartengono al XVI secolo, spesso anche assieme all’aggettivo puro che, come abbiamo visto, è il primo sinonimo di sincero:
Io sono ancor la verita [sic] infallibile, pche [sic] solo il verbo di Dio che son io, è la pura & sincera verità, & son tutti gli huomini fallaci, e solamente nel Verbo di Dio si fanno veridici, & senza falsità. (Giovann’Antonio Panthera Paretino, Monarchia del nostro Signor Giesù Christo, Venezia, Comin da Trino di Monferrato, 1573, p. 374)
In questo caso, si fa ancora una volta riferimento alla verità divina, mentre nei seguenti esempi si parla di una verità tutta umana:
[...] honorati Capitanei & valorosi soldati, & datevi pace, perché cosi è la pura & sincera verità, & che questa verissima verità sia irrevocabile [...]. (Il cavaliere in Risposta del gentil’huomo del sig.r: mutio iustinopolitano nella precedenza del Armi, et delle lettere del cavaliere Domenico Mora Bolognese, Vilna, Danielle Lanciente, 1589, p. 284)
E’ si dice per proverbio che ogni lite che non ha contraddizione si vince facilmente: sicché e’ non è da meravigliarsi, se non ti avendo io, Leone, insino a qui mai contraddetto, e’ pare che tu abbia concluso che le fiere sono più forti de l’uomo. Ma non pensare per questo che io ceda a questa tua opinione. Anzi ti dico che ella è falsissima, e che in fra le fiere non si truova fortezza, ma solamente fra gli uomini. E perché tu vegga che quello che io dico è la pura e sincera verità, tu hai a sapere che la fortezza è una mediocrità determinata con ragione, in fra l’audacia e il timore, per cagione del bene e de l’onesto. (Giovan Batista Gelli, Opere, a cura di Agenore Gelli, Firenze, Le Monnier, 1855, p. 87)
Nella citazione da Mora troviamo anche il sintagma verissima verità, che quale risulta ancor più ridondante di sincera verità o pura verità. Il secondo esempio di Giovan Battista Gelli (1498-1563) è tratto dal VI dialogo tra Ulisse e Leone nella Circe: l’autore fa dialogare Ulisse con tutti i suoi ex compagni tramutati in animali e, grazie a una concessione della maga, colui che ritiene sia migliore lo stato umano di quello animale potrà tornare ad essere un uomo. Questa citazione è stata inserita nel GDLI sotto la sesta definizione dell’aggettivo sincero quando vale ‘autentico, non adulterato (la verità)’.
Infine, sempre il GDLI riporta, come proverbio, alcuni versi tratti dalle Rime (dalla sezione Sermoni) di Gabriello Chiabrera (1552-1638): “Tutto vi posso dir, bella Fanciulla / Appartar non si deve; e similmente / Sincera verità non vuol tacersi” (Gabriello Chiabrera, Opere, Tomo Secondo contenente le Canzonette amorose e morali, scherzi, sonetti, epitaffi, vendemmie, egloghe e sermoni, Venezia, Stamperia Baglioni, 1805, p. 278).
Stando a queste attestazioni, si può dire che il sintagma nasce alla fine del Trecento e viene impiegato in maniera considerevole nel secolo successivo, soprattutto all’interno di trattati dal carattere morale e/o teologico. Nel Cinquecento era abbastanza frequente ripetere uno stesso concetto più volte, presentandolo attraverso forme grammaticali differenti o ribadendolo con perifrasi più o meno ampie. Il sintagma si è, potremmo dire, “cristallizzato” ossia grammaticalizzato, diventando un’espressione fissa che ha attenuato, o almeno opacizzato, il significato rafforzativo. Infatti oggi viene registrato nel Vocabolario Treccani (s.v. verità) come forma per “attenuare un’affermazione, un giudizio, o introdurre una correzione a quanto altri dice” insieme a schietta verità all’interno delle frasi a dire la (sincera) verità, per dire la (sincera) verità. Infatti il sintagma ormai viene usato prevalentemente nell’italiano parlato e poche sono le attestazioni in quello scritto (basti pensare che sulla “Repubblica” le occorrenze sono solo 9, e per la maggior parte compaiono all’interno di discorsi riportati testualmente).
Infine, un’altra prospettiva linguistica ci porta a pensare che il sintagma sincera verità costituisca quella che, in pragmatica, viene definita implicatura conversazionale: ciò si verifica quando la lingua, senza dire esplicitamente un contenuto, lo implica attraverso delle inferenze mentali che scaturiscono nel destinatario del messaggio linguistico. In questo caso se diciamo sincera verità stiamo implicando che esiste una verità non sincera e che dunque la verità possa essere manipolata, almeno verbalmente, da colui che la riporta. Ad oggi però, questa implicatura si è persa quasi del tutto e soltanto sporadicamente il sintagma sincera verità è usato per alludere all’esistenza di verità riportate che non sono completamente aderenti alla realtà dei fatti.
Miriam Di Carlo
8 agosto 2022
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