Fate e dite di tutto, ma non facete e dicete niente!

Lettori di diverse regioni d’Italia – Piemonte, Calabria, Lombardia, ma soprattutto Campania – ci domandano se per la seconda persona plurale sia dell’indicativo presente sia dell’imperativo, in luogo di fate e dite, sia consentito l’uso di facete e dicete (frequente nel linguaggio dei bambini o degli apprendenti stranieri, non così insolito in quello degli adulti).

Risposta

Diciamo fin da subito che facete e dicete, sebbene siano attestate come varianti arcaiche, non sono forme raccomandabili nell’italiano contemporaneo, perché deviano dalla norma grammaticale attualmente (e da tempo) in vigore.

In base alla classificazione tradizionalmente accolta dalle grammatiche, fare e dire sono considerati, rispettivamente, verbi di prima e di terza coniugazione, ma irregolari in quanto “deflettono in modo più o meno spiccato dal modello di coniugazione cui appartengono” (Serianni 1988, § 125, p. 364; si veda anche la scheda sulla coniugazione di appartenenza di dire e fare); l’irregolarità è dovuta sia alla presenza di desinenze anomale (rispetto a quelle previste nella regolare flessione di appartenenza) sia alla coesistenza di più radici (f-, fac-/facc-/fec- e d-, dic-/dis-). A tal proposito, in una risposta pubblicata sulla “Crusca per voi” (n. 13, ottobre 1996), Giovanni Nencioni osservava che

i casi di fare e dire si comprendono meglio con un po’ di storia. L’italiano fare deriva dal latino fàcere della 3a coniugazione, quindi può essere considerato un infinito sincopato e collocato nella 2a coniugazione (anziché nella 1a), dove, pur rimanendo un verbo irregolare, armonizzerebbe meglio con quell’impianto flessionale; come il verbo dire, derivato dal latino dìcere della 3a coniugazione, può essere considerato un infinito sincopato e collocato nella 2a coniugazione (anziché nella 3a), dove, pur rimanendo un verbo irregolare, armonizzerebbe meglio con un impianto flessionale che possiede accanto alla debole la forma forte del passato remoto

Poiché nel passaggio dal latino all’italiano “alcune sincopi hanno determinato la terminazione in -are o in -ire, proprie rispettivamente della prima e della terza coniugazione, a verbi appartenenti alla terza classe latina, e dunque, per il resto del paradigma, alla seconda coniugazione italiana (facere > fare; dicere > dire)” (D’Achille 20193, p. 101), in italiano viene spesso ricalcata la flessione verbale latina di dicĕre e facĕre e vengono conservate in larga parte le radici latine dic- e fac- (o, per il passato remoto, fec-, alternanza vocalica ereditata dal perfetto indicativo latino), come mostrato di seguito:

nell’indicativo
– presente
: faccio, facciamo / dico, dici, dice, diciamo, dicono
– passato remoto: feci, facesti, fece, facemmo, faceste, fecero / dicesti, dicemmo, diceste
– imperfetto: facevo, facevi, faceva, facevamo, facevate, facevano / dicevo, dicevi, diceva, dicevamo, dicevate, dicevano;

nel congiuntivo
­– presente
: faccia (1ª, 2ª, 3ª pers.), facciamo, facciate, facciano / dica (1ª, 2ª, 3ª pers.), diciamo, diciate, dicano;
– imperfetto: facessi (1ª, 2ª), facesse, facessimo, faceste, facessimo / dicessi (1ª, 2ª pers.), dicesse, dicessimo, diceste, dicessero;

nell’imperativo
: faccia, facciamo, facciano / dica, diciamo, dicano;
nel participo presente: facente / dicente;
nel gerundio presente: facendo / dicendo.

Come si spiegano allora le forme facete e dicete? Esaminate in diacronia, esse costituiscono delle varianti arcaiche e letterarie latineggianti – più vicine dal punto di vista etimologico alle forme latine facĭtis/dicĭtis (per l’indicativo presente) e facĭte/dicĭte (per l’imperativo) –, ma ben presto cadute in disuso. A segnalarle come forme desuete, fra i dizionari ottocenteschi, ricordiamo il Tommaseo-Bellini, che registra sia facete (s.v. fare) sia dicete (s.v. dire) accompagnate da crux – simbolo a forma di croce (†) usato per indicare parole o accezioni arcaiche –; tuttavia, secondo Tommaseo, dicete sarebbe “la forma più regolare; il contratto [dite] avrebbe a tenersi per sgrammaticatura: ma l’uso vuole altrimenti. In Sicilia vive”. Fra i vocabolari dell’uso contemporaneo, lo Zingarelli 2019 (ed edizioni successive) censisce facete, all’interno della sezione morfologica di fare, come forma arcaica (segnalata da una crux) della seconda persona plurale dell’indicativo presente.

Sul piano sincronico, invece, l’uso di facete e dicete – non così infrequente – è determinato da condizioni diverse (che possono sommarsi fra loro e non escludersi): una “paradigmatica” (determinata dall’analogia con altre forme all’interno della coniugazione), una “geografico-dialettale” (concernente l’influsso di dialetti centromeridionali) e, infine, una “sociolinguistica” (relativa al grado di istruzione dei parlanti).

La prima causa è legata a un meccanismo che agisce internamente ai paradigmi di dire e fare: la fitta serie di forme flesse contenente le radici dic- e fac- (dice, diceste, diciate, dicendo; facevate, facendo ecc.), fungendo da modello ricorrente, è in grado di esercitare nel parlante una forza analogica tale da estendere, sia all’indicativo presente sia all’imperativo, dic- e fac- anche alla seconda persona plurale, che non di rado fa paradigma con la prima plurale (es. so, sai, sa, sappiamo, sapete, sanno; ho, hai, ha, abbiamo, avete, hanno; finisco, finisci, finisce, finiamo, finite, finiscono). Da qui gli errori analogici dicete (anziché dite) e facete (anziché fate). I processi di formazione analogica sono inoltre abituali nel linguaggio infantile e in quello degli apprendenti stranieri, nei quali può verificarsi una “sovrestensione analogica dei morfemi flessivi ‘centrali’ dell’italiano (specie della 1a e 3a coniugazione): aprito, diciò, venì, facete, spede (‘spedisce’), cadando, daccio (da dare, sul modello di faccio da fare)” (Solarino 2013, p. 37; cfr. anche Renzi-Andreose 2003, pp. 95-96), difatti è comune “sbagliare a coniugare la seconda persona plurale del presente indicativo di dire e fare. Nemmeno l’infante più precoce e grammaticalmente represso è infatti mai scampato alla tentazione di dire facete al posto di fate e dicete al posto di dite” (De Benedetti 2015, p. 84). Anche Coletti osserva che

nel presente di dire, non c’è solo o tanto il problema dell’alternanza consonantica tra c velare e c palatale dico/dici, ma anche la caduta della consonante alla 2ª persona plurale, dite, che induce chi impara l’italiano, i bambini piccoli soprattutto, a dire per errore analogico *dicete, bell’esempio dell’innata spinta alla regolarizzazione da parte del parlante. (Coletti 2015, p. 274)

Un’altra possibile circostanza, correlata alla diatopia (cioè al fattore geografico), investe la sfera dialettale. Esistono, infatti, voci di dialetti centromeridionali che rispecchiano assai fedelmente le forme verbali latine dicĭtis/facĭtis e dicĭte/facĭte: troviamo facète, facètə, facìte, facìtə, facìti e dicète, dicètə, dicìtə, dicìti (e ulteriori varianti) in alcuni dialetti toscani, umbri, marchigiani, abruzzesi, molisani, laziali, campani, pugliesi, lucani, calabresi e siciliani (cfr. le carte 1691 e 1695 dell’AIS e anche Rohlfs 1968, § 546). In questi casi le voci dialettali vengono elevate ­– più o meno consapevolmente – a livello di lingua in una veste italianizzata; di conseguenza, una simile “traslazione” dal dialetto all’italiano produrrà come risultato, in alcune varietà regionali, proprio dicete e facete (si veda anche la scheda di Paolo D’Achille sulla forma imperativale di’).

In ultimo possiamo considerare errori di flessione verbale in rapporto alla diastratia, quindi al livello socioculturale dei parlanti: fra i tratti tipici dell’italiano popolare sono annoverate e giudicate frequenti proprio le formazioni verbali analogiche (cfr. Berruto 2011, pp. 139-143), quali “potiamo, facete, dicete, che appaiono rifatte a partire dalle forme con le radici pot- (potere, potete ecc.), fac- (facciamo, facendo ecc.) e dic- (diciamo, dici ecc.) [...].” (Masini 2010, p. 52); in tal caso ci muoviamo sul terreno dell’italiano substandard, in cui un basso livello di istruzione non consente di avere pieno dominio sulla lingua e sulle regole grammaticali.

Per quel che riguarda, invece, la circolazione di facete e dicete, occorre attuare una distinzione fra usi involontari (attestati anche sul piano della scrittura) e usi intenzionali. I primi risultano tutt’altro che rari secondo quanto documentato dal web, in particolar modo da post sui social media (come Twitter) o da discussioni sui forum:




I film di Shamalyan o come si chiama vi sono piaciuti?
sesto senso e the village.
che dicete? (commento di “bbb” alla discussione 3 libri e 3 film, forum di planetmountain.com, 7/7/2005)

Grazie per la solidarietà. Forse forse mi converrà acquistare le 4 frecce usate al prezzo di una segnalate da 2877paolo. Costano 20 euro più 4,5 euro di spedizione...Che dicete? (commento di “Tombo” [utente della provincia di Ancona] alla discussione Gemma freccia rubata, forum di triumphchepassione.it, 3/2/2017)

Talvolta anche maledire, composto di dire, viene usato impropriamente alla seconda persona plurale dell’imperativo o dell’indicativo presente (in controtendenza rispetto all’uso di modellare sulle coniugazioni regolari quelle dei composti di verbi irregolari):

Distribuite nei vasetti bollenti, scottatevi le dita, maledicete la vostra mania salutista e sognate un pacchetto di dadi gonfi di glutammato. (Susanna Albertini, Fare il dado in casa? Si può, è facilissimo e... si regala a Natale!, mammeonline.it, 2/12/2009)

Bel posto! Un’ottima osteria, tutta in legno, che stimola la chiacchiera piú [sic] fluente e galoppante. Poi...crescentine e tigelle buone, tris di primi davvero sopra le righe...il tutto con un buon vino della casa sfuso, non di quelli che il giorno dopo maledicete per il mal di testa. (recensione di maxgualmini [utente di Bologna], tripadvisor.it, 23/5/2013)

Non mancano poi testimonianze indirette sull’impiego delle forme scorrette, legate al mondo scolastico o all’influenza del luogo di provenienza e del dialetto:

Sto notando come i ragazzini che mi trovo ad ammaestrare sono, in media, quasi esasperanti per la poca conoscenza della nostra lingua: si va dall’ignoranza di parole come “sguainare”, “espugnare”, “esiguo”, “indigente”, “ingenuo” e via di seguito, a perle nere come “dicete”, “facetti”, “venirò”, “bruciarò” ecc. ecc. (commento di “Lachmann” [utente di Faenza] alla discussione L’italiano, questo sconosciuto..., forum di operaclick.com, 28/1/2006)

“Parlavano [i ragazzi] con lo slang di casa. Ma che facete o che dicete, all’inizio. I più difficili, all’inizio, entravano senza salutare. E magari ridevano, perché le loro paure passavano anche per la difesa di quel dialetto chiuso, un po’ sporco, del clan degli esclusi [...]”. Ogni giorno, loro entrano salutano sorridono e anche se la giornata è storta, provano a correggerla insieme. Facete, fate. Dicete, dite. (Intervista a Rosario Esposito La Rossa: “Giocando a calcio insegno Storia”, a cura di Conchita Sannino, “la Repubblica”, sez. Le inchieste, 28/2/2014)

Di consueto, l’uso non grammaticalmente corretto di facete e dicete diventa oggetto di scherno – soprattutto quando a pronunciarli sono docenti –, come testimonia il sito di Comix, noto marchio di agende scolastiche, nella sezione “Comix Spy” (in cui sono raccolti episodi scolastici divertenti):


[Immagini tratte dal sito comix.it]

Accanto alle occorrenze non “programmate”, vi è anche un uso intenzionale di facete e dicete, destinato a fini comici. Ritroviamo, ad esempio, facete nel titolo di uno spettacolo di cabaret di un trio palermitano (Ma voi facete ridere?) oppure in sketch televisivi, come riferisce un articolo della “Repubblica” in cui, a proposito di una trasmissione condotta da Paolo Villaggio nel 1987, si legge:

Seguono altre spiritosaggini, sempre di Villaggio, all’indirizzo del pubblico: “scusi, lei è una sigla?”. Seguono altre spiritosaggini ancora - più raffinate, del tipo linguistico questa volta - e cioè del tipo: “Facci”; “Venghi”, “Facete vedere” (Beniamino Placido, Che piacere se Villaggio fosse ancora Villaggio, “la Repubblica”, sez. Radio e Televisione, 10/6/1987, p. 27)

In conclusione, nonostante sia lecito domandarsi se “un giorno in italiano le forme facete e dicete saranno considerate non più dei lapsus ma delle forme normali” (Renzi-Andreose 2003, p. 96), ribadiamo che ad oggi vige e perdura la regola imposta – ormai da secoli – dalle grammatiche, secondo cui l’uso di facete e dicete, per la seconda persona plurale, non è contemplato né per l’indicativo presente né per l’imperativo.

Nota bibliografica:

  • Berruto 2012: Gaetano Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 20122.
  • Coletti 2015: Vittorio Coletti, Grammatica dell’italiano adulto, Bologna, il Mulino, 2015.
  • D’Achille 2019: Paolo D’Achille, Breve grammatica storica dell’italiano, Roma, Carocci, 20193.
  • De Benedetti 2015: Andrea De Benedetti, La situazione è grammatica. Perché facciamo errori, perché è normale farli, Torino, Einaudi, 2015.
  • Masini 2010: Andrea Masini, L’italiano contemporaneo e le sue varietà, in Elementi di linguistica italiana, a cura di Ilaria Bonomi et alii, Roma, Carocci, 20102, pp. 15-83.
  • Renzi-Andreose 2003: Lorenzo Renzi e Alvise Andreose, Manuale di linguistica e filologia romanza, Bologna, il Mulino, 2003.
  • Solarino 2013: Rosaria Solarino, Imparare dagli errori, Tricase, Youcanprint, 2013.

Barbara Patella

20 settembre 2023


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