Molti lettori ci chiedono chiarimenti sulle molte possibilità che la lingua italiana offre per la formazione dei gradi di comparazione e del superlativo degli aggettivi. Riportiamo quello che Giovanni Nencioni ha scritto, sulla questione, ne La Crusca per Voi (n° 8, aprile 1994):
Formazione dei superlativi e dei comparativi
«... un carattere della lingua italiana già notato e lodato da Leopardi nel suo Zibaldone di pensieri (29 giugno 1821): la sua ricchezza e varietà, che consiste nella immensa produttività di derivati in grazia di una moltitudine di suffissi che mettono a larghissimo frutto le sue radici. Alcuni di quei suffissi sono latini, o meglio latinistici (come -ebile in flebile, -ario in leggendario, -trice in tessitrice), o "volgari", cioè neolatini, o volgareggianti (come in fievole, fornaio, tessitora). Il suffisso -issimo del superlativo assoluto viene dal latino e arricchisce, col suo valore oggettivo, i modi popolari della comparazione, esprimibili col suffisso accrescitivo -one (bellone, bellona, sapientone, fatalona) o con varie gradazioni apprezzative (assai contento, molto contento, ben contento, arcicontento) o con la ripetizione dell'aggettivo e dell'avverbio (nero nero, dolce dolce, forte forte). Gli antichi usavano anche rafforzare o moderare la forma latinistica incrociandola con quella popolare (molto gravissimo, assai dolcissimo) e anche con la forma comparativa (quasi il più antichissimo). Ma questa antica libertà è stata tarpata dalla sopraggiunta disciplina grammaticale.
Le forme comparative possono però essere formate con elementi diretti non ad intensificare la base ma ad esaltarla qualitativamente: come dicendo ambiguamente suggestivo, misteriosamente reticente, inestricabilmente confuso, dove la pur lunga misura degli avverbi aggiunge una qualità a quella denotata dagli aggettivi, e non indispone come qualcosa da sostituire con sinonimi più spediti e più efficaci, ma sempre esistenti. Il senso di fastidio all'intensivo estremamente è dato dalla sua eccessività in quella funzione, che non gli è abituale nella nostra lingua; eccessività che produce una svalutazione della sua efficacia e quindi un effetto d'inerzia. E l'inerzia, diminuendo la significanza, accresce la misteriosità della parola. Alla radice del fenomeno... sta il fatto che quell'avverbio, in quella funzione, è un anglismo, cioè un elemento estraneo al patrimonio spontaneo della lingua, sì che, ripetuto con passività automatica, blocca le varie soluzioni vivamente offrentisi e attivamente sceglibili nella lingua materna. Un'impressione simile produce il famoso okay affermativo o interrogativo, che blocca una serie di opzioni e sfumature offerte dalla nostra lingua: "sta bene; va bene; d'accordo; intesi; giusto".»
25 ottobre 2002
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