Giungono alla redazione diverse domande sul significato e sull'origine dell'espressione furbo di tre cotte. Cerchiamo di soddisfare la curiosità dei nostri lettori.
Furbo di tre cotte è una locuzione figurata che indica una persona furbissima, dotata di un’astuzia sottile. È attestata anche nella forma furbo da tre cotte, in dizionari e vocabolari di dialetti settentrionali (Arrighi, s.v. magnan; Arrivabene, s.v. furbon; Ricci, s.v. furbón) e nella Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (Pitrè: 234).
Per quanto riguarda cotta, fin dai testi delle Origini troviamo due omografi distinti, con radici e significati diversi (cfr. TLIO – Tesoro della Lingua Italiana delle Origini). Il primo è: “sorta di veste maschile e femminile”, indossabile variamente come sottoveste o sopravveste da persone comuni; o ancora, in ambito religioso, da ecclesiastici che, durante le celebrazioni, portano una cotta bianca di lino. Il Tommaseo-Bellini dà la definizione di ‘toga’, in uso fin dall’antichità, e fa derivare la parola dal latino crocota, prestito dal greco che indica una veste di lusso. L’indicazione del Tommaseo ha una sua plausibilità, se si pensa che il veneziano cottola (gonnella), esistente anche nella forma cotola, indica una “antica ed agiata” veste da donna (Boerio). Tuttavia, lasciando da parte crocota, che ritorna nel latino tardo crocotia o crocotula, oggi sappiamo che cotta è un «prestito germanico per tramite di altre lingue» (l’Etimologico), dal francese cotte (1138, DELI) e dal francone *kotta (‘mantello, veste’). Anche alla voce dialettale cótola (veneto; veneto giuliano e istriano; friulano: còtule, s.v. cótola, DEDI) troviamo la stessa trafila con rimandi ad altri vocabolari etimologici (REW; Prati; DESF). Particolare, in epoca medievale, era la cotta d’arme o cotta usbergata, indossata da cavalieri e araldi sopra le maglie d’acciaio dell’armatura, e pertanto detta anche surcotto o sorcotto d’arme.
Per rispondere ai nostri lettori, diciamo che alla cotta, intesa come veste, sono legate altre polirematiche della lingua italiana, come fare la cappa cotta, piegare le cotte, cotta pieghettata e così via.
Nel caso di furbo di tre cotte, invece, è l’altro omografo a interessarci. Il nostro femminile plurale, cotte, sta per ‘cotture’ e indica un processo di raffinazione o distillazione di alimenti e bevande riferito metaforicamente all’astuzia della persona. Come i cibi e le bevande, così anche l’ingegno umano si affina via via, con ‘cotture’ successive; ragion per cui furbo di tre cotte significa ‘essere di una furbizia sopraffina’ (Lapucci), di una furbizia che si può definire maturata con l’esperienza.
Venendo a un altro aspetto dei quesiti che ci sono giunti (cotture di cosa?), le cotture interessano tanto le bevande quanto i cibi solidi: dall’acquavite allo zucchero, quest’ultimo alla base di espressioni come zucchero di tre cotte e zucchero di sette cotte, da intendersi, almeno inizialmente, in senso proprio e non figurato. Nei primi secoli della nostra letteratura lo zucchero di tre cotte indicava cioè lo ‘zucchero sopraffino’, e non altro figurativamente. Si prenda la prima attestazione di zucchero di tre cotte, nel Morgante di Luigi Pulci (“Ognuno aveva una rabbia canina, / Che il sangue parea zuccher di tre cotte”, XXVII 247, 7-8), versi che vengono glossati come segue nella prima impressione del Vocabolario degli accademici della Crusca (1612): “cioè ottimamente raffinato per cocitura”, ossia desiderabile ("zucchero raffinato: lo sparger sangue saziava a tutti la rabbia" si legge nelle note dell’edizione Ageno, per cui si veda Pulci: 1044).
L’espressione tecnica di tre cotte venne poi applicata, con connotazione ironico-spregiativa e con valore superlativo, a individui poco raccomandabili (“il moccicone di tre cotte” nella commedia Il Filosofo di Pietro Aretino, a. IV, sc. 4): uno sciocco patentato (GRADIT, s.v. moccicone, signif. fig. estens.), di tre cotte, appunto, come il pedante messer Plataristotele.
L’attribuzione positiva all’uomo astuto – ma non ‘furbo’, visto il significato ingiurioso che questa parola aveva un tempo (‘ladro, mascalzone’) – è attestata invece in una delle prime raccolte di “proverbi” italiani (ma più corretto sarebbe usare il grecismo paremie), quella del poligrafo toscano Francesco Serdonati (XVI-XVII secolo), dove leggiamo:
Zucchero di tre cotte. Finissimo, e di tutta perfezzione. E si dice d’ogni cosa perfetta; e, attribuito all’huomo, significa astutissimo e a maraviglia scaltrito, e che, come si dice ancora, ha pisciato in più d’una neve.
Qui si può ben credere che sia in gioco l’intera espressione, Zucchero di tre cotte, e non solo la sua parte finale (di tre cotte), come nel caso dell’Aretino. Il commento attesta che lo zucchero di tre cotte, “attribuito all’huomo, significa astutissimo e a maraviglia scaltrito”. L’allusione è allo zucchero più volte depurato e ciò giustifica la presenza del nostro modo di dire tra quelli che «si spiegano soltanto se ci si riferisce a cose e ad abitudini scomparse» (Migliorini: 129). Tale valore metaforico richiedeva evidentemente, all’epoca del Serdonati, una spiegazione abbastanza articolata visto il prevalere del significato proprio, riferito al cibo, che si ritrova in frasi tratte ancora dalla sua raccolta come: “Zucchero di sette cotte. Zucchero finissimo, come oro di coppella”; oppure: “E’ t’hanno ancora a parer le ghiandi zucchero di tre cotte. Patirai fame”, perché prendere le ghiandi per zucchero di tre cotte significava, appunto, stimare una prelibatezza il cibo povero per eccellenza.
Come già in altre occasioni (vedi Parlare al muro, Parlare a vanvera e altre risposte pubblicate su questo sito dal 2014 a oggi, fino al recente Senno del poi o Senno di poi? di Massimo Fanfani), la formidabile raccolta di Serdonati offre più di uno spunto di riflessione. Tra le 26.018 paremie che la compongono segnaliamo anche Zucchero di Candia a prima cotta, interessante innanzitutto per una ragione di tipo semantico, giacché dall’illustrazione (“Dicesi quando alcuno ha tócco un’archibusata”) si evince che la prima cotta sia l’opposto della terza e che la locuzione vada rivolta a persone ingenue e inesperte, ‘zuccherini che si sciolgono subito’. Alla cotta, con il valore di ‘bruciatura’, sono del resto riconducibili i riferimenti estensivi agli ubriachi, ‘bruciati dal vino’, per cui prendere la cotta vuol dire ‘ubriacarsi’; e agli innamorati, ‘bruciati dall’amore’ per cui pigliare una cotta è modo oggi ancora vivo nel parlato per dire ‘innamorarsi maledettamente’. Serdonati commenta così l’analoga frase metaforica Egli ha preso l’orso:
Egli ha preso l’orso. Alcune volte significa s’è adirato, o scorrucciato. E talora anche imbriacato; che si dice anche / Egli ha preso la cotta; e talora dicono nel medesimo senso / Ella non è cruda, ma cotta, e / Ella è tanto cotta che l’è disfatta. Quando per ebbrezza non si regge in piedi.
La seconda ragione, per cui Zucchero di Candia a prima cotta è interessante, è di tipo denotativo, perché la locuzione ci dice che lo zucchero di cui si sta parlando non va inteso genericamente, ma è lo zucchero di canna diffusissimo sull’isola di Creta e in Sicilia. Nel coevo volgarizzamento di Remigio Fiorentino (Remigio Nannini) delle Due deche dell’historia di Sicilia di Tomaso Fazello (1574) si legge: “chi lo vuole perfettissimo e finissimo, lo fa di tre cotte, ricocendolo e ripurgandolo al fuoco tre volte”. Per quanto riguarda lo zucchero di Candia, un tempo si riteneva che l’espressione fosse frutto di una corruzione popolare di Zucchero Candi (Ménage; Redi). Il Manuale ad uso del forestiere in Venezia di Gianjacopo Fontana, che accenna a una legge del XIV secolo, fa pensare tuttavia che non si tratti di zucchero candito (Fontana: 233):
Da Candia traevano i veneziani lo zucchero, ivi tenendo piantagioni e fabbriche introdottevi, come credesi, dai Saraceni. Si riporta dagli storici una legge del 13 agosto 1334 che imponeva il dazio del 5 per 100 sui vascelli che portavano in Venezia lo zucchero di Candia.
Bisogna quindi spingersi oltre le attestazioni cinquecentesche e ricordare che la produzione di canna da zucchero ricevette impulso già prima delle attività proto-industriali dei secoli XV-XVII (Morreale). In Sicilia, nei trappeti – gli stabilimenti che non erano solo frantoi e che spesso erano ubicati sulle coste (si veda il toponimo Trappeto, cittadina in provincia di Palermo) – le canne venivano irrigate, tritate e spremute fino a ottenere un impasto simile alla melassa deposto in forme di creta con un buco in fondo. A quel punto aveva luogo l’operazione delle tre cotte; dopodiché era la volta delle fasi conclusive di questa costosissima lavorazione, quali la posa, che durava quaranta giorni, l’imballaggio e la spedizione. Lo zucchero, avvolto in una caratteristica carta azzurrina, giungeva così sulle tavole dei più prestigiosi banchetti di corte, sulle mense cardinalizie e presso le dimore dei notabili delle città, i quali, acquistando un prodotto di pregio, potevano sfoggiare tutta la loro potenza.
Il numero delle cotte, come si vede, è variabile e ha valore intensivo-elativo: il più frequente è quello di tre, ma troviamo anche il multiplo sei, attestato nelle ottave del Ciriffo Calvaneo (“E certe scarpettacce vecchie, e rotte / Parute son un zuccher di sei cotte”, Ciriff. Calv., 1, 27); e ancora l’uno e il sette. Del valore particolare – e contrario – di prima cotta si è detto, mentre il sette “in genere sottintende qualcosa di misterioso e magico” (Lapucci).
Per quanto riguarda le attestazioni letterarie, il percorso è lungo e va dal Morgante del Pulci alla Farfalla di Dinard di Eugenio Montale (“un cozzone della Camargue, un cafone di tre cotte”), passando per le commedie del XVI secolo. Tuttavia, per trovare più precisamente furbo di tre cotte bisogna attendere l’Ottocento (Giusti, v. infra) e in particolare la letteratura verista, con le Nuove “Paesane” di Luigi Capuana: “Il sindaco che, quantunque nipote di carrettiere (e non figlio come diceva donna Beatrice nei momenti di stizza) era un furbo di tre cotte...”. A questo proposito, ancora sul valore figurato di di tre cotte, è possibile concludere ricordando «la fiducia dell’Abate borbonico di tre cotte» nei Vicerè di Federico De Roberto (GDLI).
Le applicazioni sono varie e vanno dalle più grandi figure della letteratura italiana, come Niccolò Machiavelli, su cui Giuseppe Giusti ebbe a dire: “vi sono delle lettere che lo danno a conoscere per un furbo di tre cotte, e i furbi non sono tutti oro” (Ill. VII, in Giusti); agli animali, tra cui, là dove ci si aspetterebbe di trovare la volpe, spicca invece il merlo, associato alla locuzione furbo di tre cotte in un anonimo Soliloquio d’un cacciatore apparso sul setttimanale milanese “L’emporio pittoresco” (15-21 settembre 1889, anno XXVI, n.° 1307, p. 123). Tant’è che di un furbo di tre cotte si suol dire: “Eh! quegli è un merlo col becco giallo!”, frase peraltro viva nel senese (Bonelli: 454) e nel piacentino “Ess un méral dal becc giäd (becco giallo). Un furbo di tre cotte” (Tammi: 133). Ma questa è un’altra storia – o, pensando a La volpe e il merlo – un’altra favola.
Nota bibliografica:
Paolo Rondinelli
25 marzo 2022
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